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Sechi Salvatore - 28 maggio 1981
Metamorfosi o eclisse dei radicali?
di Salvatore Sechi

SOMMARIO: I radicali "hanno assunto toni formali scomposti e violenti", la campagna per D'Urso è stata condotta a colpi di attacchi contro "la mafia sindoniana" e il PCI, quella referendaria viene misurata sui risultati elettorali: la metamorfosi radicale prelude a una eclissi? La forma "americana" della loro politica ha, dietro, "una concezione dello Stato di diritto di stampo liberale classico". Il "pragmatismo" referendario è stato usato "per rompere le paratie tra destra e sinistra", la politica viene da loro "de-mitizzata". Questo approccio sembra avere "una matrice di destra", ma è divenuto cultura di massa, di cui Sciascia e Pasolini sono gli "intellettuali". L'operazione radicale, però, "non ha funzionato il 18 maggio"; il voto, assecondando il bisogno di "order and law", è divenuto "indice della crisi del radicalismo", che ora non può più vivere "a mezzo servizio con i movimenti sociali e con la logica propria di un'organizzazione politica". Pretendere di coprire tutte le "contraddizioni con lo ste

sso lenzuolo" significa pretendere troppo dalla "bontà delle proprie intenzioni". La "campana suona per Pannella" anche a seguito del "sabotaggio parlamentare", che ha fatto rappresentare i radicali come "una squadra di gappisti", di "destabilizzatori selvaggi", nonostante i grandi contributi da loro offerti per fare buone leggi. "Chi ha innalzato la bandiera della democrazia diretta deve essere in pace con la democrazia rappresentativa".

"Discutere sul destino dei radicali non mi pare un'incursione, ma un dovere".

(»Messaggero 28 maggio 1981 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Dal caso Moro in poi i radicali hanno assunto toni formali scomposti e violenti. »Il vero partito nazista in Italia è quello comunista , ha detto Pannella a Merano (novembre 1978). La generosa battaglia sul caso D'Urso è stata condotta a colpi di attacchi contro »Il partito della morte e contro »La mafia sindoniana (da Caracciolo a Rizzoli, da Scalfari a Di Bella). Il punto d'arrivo è il giudizio sui recenti referendum. I risultati sono stati misurati non sul metro dei movimenti di opinione (e soprattutto di coscienza), ma sul registratore di cassa (elettorale) del Partito radicale. La forma è dunque diventata sostanza.

Sono i segni di una metamorfosi che potrebbe preludere ad un'eclissi. Non sarebbe una novità. Storicamente i radicali (come ricordò anni fa Paolo Alatri) hanno avuto un ciclo politico a parabola.

Il loro segno è la contraddizione. Assumere, rispetto allo Stato e in generale al mercato politico, le domande sociali non rappresentate (perché deboli o troppo generali in quanto messaggio morale, qualità della vita ecc.) porta ad essere costantemente in bilico tra movimento e partito. Ma la forma »americana della politica radicale (giocata sulla fantasia delle immagini, sulla dissacrazione, sulla piazza, e sul potere dei mass-media ecc.) ha dietro una coscienza una concezione dello Stato di diritto di stampo liberale classico.

La filosofia dei referendum per l'abrogazione dell'ergastolo, del porto d'armi, della legislazione autoritaria sull'ordine pubblico, dell'aborto, dell'indissolubilità del matrimonio esprime una visione del rapporto Stato-cittadino fondato su valori assoluti, su regole etiche imperative. Qual è il paradosso radicale.

Il ricorso frequente al referendum presuppone, infatti, una concezione secolarizzata, negoziale dello Stato, fondata sullo scambio tra consenso politico, distribuzione di risorse o prestazione di servizi (per non dire una politica di sconti). E' il caso degli elettori della California che quattro anni fa in un referendum decisero di ridurre le tasse sulla casa. Questo pragmatismo, insofferente di certezze ideologiche, è stato usato dai radicali italiani per rompere le vecchie paratie tra destra e sinistra. La non violenza è diventata un criterio per rileggere polemicamente non solo la storia del comunismo, ma anche la storia dell'antifascismo (di qui l'enfasi posta sull'episodio di via Rasella); la politica per issues (cioè per questioni determinate: centrali nucleari, caccia, tribunali militari, ecc.) contiene una critica dell'idea della rivoluzione; la politica come terreno per cambiare il destino dell'uomo è stata de-mitizzata, travolgendo così il ruolo pedagogico (e positivo per l'esistenza umana) attrib

uitosi dai partiti.

In questo approccio la storia e i valori della tradizione di sinistra vengono rigettati in nome della critica delle forme della politica. Tutto ciò, secondo la vecchia razionalità occidentale, ha una matrice di destra. Ma essa è diventata cultura (cioè senso comune) di massa. Se Pannella ne è l'interprete politico, Pasolini e Sciascia (per non dire l'ultimo Sartre) ne sono gli intellettuali. L'obiettivo è comune: dare uno sbocco di sinistra (all'insegna dell'alternativa libertaria) ad un partito che vuole essere il punto di raccolta della società civile, di tutti i dissensi, contro le istituzioni politiche. I metodi usati sono due: il referendum e l'ostruzionismo parlamentare.

Fino alla richiesta di abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, il referendum è stata una rete capace di pescare anche nel serbatoio dei voti moderati di protesta. L'operazione non ha funzionato il 18 maggio. L'elettore ha difeso la legge 194, ma sul porto d'armi, l'ergastolo e la legge Cossiga ha assecondato il proprio personale bisogno di »order and law (cioè di sicurezza, di autodifesa e di antidoto alla violenza).

Non è un voto né di destra né di sinistra. E' invece omogeneo al sistema di potere (e di informazione) che domina nel nostro Paese. Di questo sistema è parte integrante la cultura spesso conservatrice della sinistra. L'ha capito un uomo onesto (con le masse e con sé stesso) come Giancarlo Pajetta. Non l'ha capito il segretario di federazione di una grande città emiliana quando ha esaltato i pochi voti andati al referendum sull'ergastolo come una vittoria perché potevano essere molti di meno!

Il voto è però l'indice della crisi del radicalismo come della Dc, che del rapporto negoziale-spartitorio tra Stato e cittadino ha fatto una ragion di vita. Non è casuale che un giornalista con l'olfatto da segugio di razza come Indro Montanelli nelle elezioni del maggio 1979 invitasse a votare per i radicali e per i democristiani.

Pannella non ce l'ha fatta a cavalcare la tigre del massiccio voto di coscienza (e di convenienza) che attraverso il referendum ha fatto uscire dal serraglio. Perché la campana suona proprio per lui?

In primo luogo perché il ricorso a raffica dei referendum esige la capacità di dare ad essi una forma politica unitaria. Può farlo un partito. Non possono farlo i radicali. Per quanto si siano convertiti in partito e soggiacciano al carisma del leader, la loro principale ragione di vita dipende dall'essere movimento (o partito dei bramini, cioè dei peones sociali). Dire, come hanno fatto molti dirigenti in questi giorni, che il referendum ha triplicato il consenso elettorale del partito radicale, significa alterare la funzione vitale di questo: mezzo d'espressione degli strati sociali deboli e non organizzati, strumento di »rivelazione della coscienza morale e civile del Paese.

Il patrimonialismo (elettorale) di ritorno dei radicali nasce dalla necessità di investire nella costruzione di un partito l'area dei consensi che hanno saputo efficacemente conquistare. Occorre dunque saper governare il successo.

Non si può più vivere nell'ambiguità di essere a mezzo servizio con i movimenti sociali (di cui fino al 1979 i radicali sono stati un'importante, e spesso unica, sonda) e con la logica propria di un'organizzazione politica. Un referendum su un problema concreto si concilia con l'essere movimento. La richiesta di dieci referendum presuppone fino in fondo la capacità di essere un partito, cioè di offrire un messaggio politico determinato.

Finora Pannella, Rippa e Rutelli sono riusciti a conciliare la tipicità sostanziale dei radicali: da una parte sono stati, come s'è detto, »partito oltre i partiti , rivolgendosi agli individui e ai cittadini, dall'altra, praticando l'astensione nelle elezioni amministrative dell'anno scorso, hanno contraddetto il valore della partecipazione che è nella natura stessa del partito referendario. In terzo luogo, dimentichi di aver alimentato una contestazione estrema dei partiti, hanno dato un'indicazione di voto a favore del Psi. In quarto luogo, per catalizzare i consensi dell'elettorato fascista hanno frugato nelle piaghe dell'antifascismo fino a dare voce ad un violento (e ben ripagato) furore anti-Pci. Esso va ben oltre la presa di distanza dalla tradizione, dall'ideologia e dalla realtà (tutt'altro che seducente) del comunismo al potere.

Pretendere di coprire tutte queste contraddizioni con un lenzuolo è possibile solo se si pensa di separare la bontà delle proprie intenzioni dalla natura degli interessi e delle forze che si sono suscitate.

C'è un secondo motivo per cui credo che la campagna suoni per Marco Pannella: il sabotaggio parlamentare. Conosco l'obiezione. Essendo un tiepido amico della forma di governo basata su »questo regime parlamentare, non la sottovaluto. A sviluppare il discredito dalle assemblee elettive è prima di tutto il non-governo delle grandi maggioranze, l'impotenza decisionale, la formulacrazia dei partiti, il micro e macrogoverno spartitorio delle risorse. Ma questa è una pratica costante e diffusa a cui la gente si è ormai assuefatta. Il ricorso dei radicali all'ostruzionismo (previsto dalle leggi) ha, invece, una maggiore potenza di immagine.

Trattandosi di un piccolo partito che sembra avere un conto personale aperto con la politica delle alleanze, il suo rumore viene amplificato come se fosse un boato. Quando la politica è anche (e in Italia soprattutto) spettacolo, non misurare le conseguenze dei propri comportamenti diventa un errore che può essere drammatico. L'effetto è di far rappresentare i radicali come una squadra di gappisti o di »Robin Hoods (cioè di destabilizzatori selvaggi) e non per ciò che culturalmente mi pare siano gli ultimi eredi della cultura liberale di sinistra (da Mario Pannunzio a Ernesto Rossi). Eppure ciò che Teodori, Melega, Bonino, Rippa, Crivellini, Stanzani ecc. hanno fatto per la legge sull'editoria, nella Commissione Sindona, nella lotta contro quella vera e propria casa di corruzione che è la Sipra, per la fame nel Mondo, per la riforma del sistema penitenziario, per uno Stato dal volto (e dal cuore) non prussiano ecc. è un contributo molto più prezioso che non le defaticanti maratone ostruzionistiche.

Chi ha innalzato la bandiera della democrazia diretta deve essere in pace con la democrazia rappresentativa. E' più ricco e non più povero. Perciò può sperimentare la potenzialità dei referendum su scala locale e regionale, applicandoli ai problemi della gente in città mostruose come Roma. Presentarsi alle elezioni amministrative, stabilire un accordo con i comunisti e con i socialisti, è la condizione per dare forma anche ai problemi locali.

Spero di essere riuscito a guardare alla crisi dei radicali con la preoccupazione di chi, militando in un'altra organizzazione, ha saputo riconoscere loro un ruolo originale che è invece mancato ad un partito »bulgaro (politicamente e culturalmente vecchio e dipendente) come il Pdup.

Con le battaglie sui diritti civili, con la campagna per il disarmo, per la qualità della vita e contro la fame nel mondo, il Partito radicale ha reso meno provinciale la nostra classe politica. Ha consentito, come disse una volta Gianni Baget Bozzo, una riappropriazione politica della democrazia da parte dei cittadini. E' un'utopia che deve diventare realtà cioè possibile. Perciò discutere sul destino dei radicali non mi pare un'incursione, ma un dovere. Senza di loro l'alternativa di sinistra mancherebbe di un'importante componente. Della società civile prima che della società politica.

 
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