"Pacifismo", un lusso che non ci riguardadi Francesco Rutelli
SOMMARIO: I radicali hanno prefigurato e preparato il nuovo movimento pacifista con la lotta antimilitarista. Radicali le prime manifestazioni contro gli euromissili. Il "pacifismo generico": si dichiarano qualunquisticamente per la pace i peggiori guerrafondai. Il rischio maggiore per il movimento: essere intrappolato nel dibattito tecnico-militare. Come i radicali possono stare nel movimento per la pace. Le situazioni egemonizzate dal Pci; i "gruppettari"; partiti, sindacati. I contenuti generali della piattaforma: no ai Cruise, via i missili ad Est e ad Ovest, riduzione delle spese militari, impegno contro lo sterminio per fame; nell'immediato, no all'invio di truppe italiane nel Sinai. Due questioni di metodo e due di merito. Sul metodo: scelta unilateralista, indicazione del dovere alla disobbedienza civile. Nel merito: illusorio un movimento della pace non prioritariamente impostato sulla ricerca di un nuovo assetto tra Nord e Sud del mondo; indispensabile la liquidazione del tabù nei confronti dell'Ur
ss e dei paesi di comunismo reale, che rappresentano per la loro struttura militarista e totalitaria un fattore cruciale di pericolo. Achille Occhetto disposto a sdraiarsi sui binari per impedire l'arrivo dei Cruise, deve comprendere che l'Europa non ha vissuto 40 anni di pace, che ci sono stati 150 conflitti regionali, che non è pace quella con centinaia di milioni di morti per fame e denutrizione, ma una condizione di guerra.
(NOTIZIE RADICALI n. 42, 15 dicembre 1981)
"Cosa ha fatto e fa il Partito Radicale rispetto a questo "movimento per la pace" sorto in Italia negli ultimi mesi? E cosa è legittimo proporre alle Associazioni radicali e ai nostri iscritti da ora in avanti?
Sono domande importanti, che meritano l'apertura di una seria discussione nel Partito e nell'area radicale e, soprattutto, la traduzione delle necessarie risposte in una forte iniziativa politica".
1) "Il bilancio di questi mesi". Nessuno, nel nostro Partito, si è posto rispetto a questo "movimento pacifista" con il sussiego di chi lo ha percorso, prefigurato, e certamente anche preparato con la lotta antimilitarista, pressoché solitaria, di venti anni: la ragione della tiepidezza con cui in molte città e regioni i radicali si sono accostati ai locali coordinamenti per la pace sta, al contrario, nella percezione delle analisi sbagliate, degli equivoci, delle ambiguità e della inadeguatezza degli sbocchi indicati da questa nuova aggregazione pacifista.
Se non mi sbaglio, è stata radicale (nel marzo scorso, in occasione del Consiglio Nato), la prima manifestazione di massa contro gli europei. Le migliaia di cittadini che vi hanno preso parte non hanno ottenuto, però, né considerazione né riconoscimenti da parte della stampa e dei commentatori: la "febbre" disarmista non c'era ancora, così come il 6 agosto nella marcia nella marcia indetta per l'anniversario di Hiroshima. Nella prima occasione, a Roma si tenevano due manifestazioni concomitanti: oltre a quella radicale, quella indetta dal Partito Comunista, che vide partecipare al massimo 400 persone. Nella seconda occasione, sul palco di Piazza Navona invitammo, a nome della città, il Sindaco comunista Luigi Petroselli. Sono segni su cui oggi è opportuno riflettere: la freddezza dell'organizzazione comunista sui temi della pace (dopo l'accettazione della NATO ed il voto favorevole ai bilanci militari, durante l'epoca della solidarietà nazionale, l'"offensiva" per la pace era stata appaltata dal PCI ad organ
izzazioni come l'ARCI) è stata superata in tempi brevissimi con un grosso sforzo "di partito". Da parte radicale, intanto, si confermava una vera disponibilità al confronto ed al dialogo su questi temi. Traendo coraggio dagli straordinari successi delle manifestazioni del Nord Europa, si giungeva quindi, attraverso una crescente mobilitazione locale, ai due appuntamenti della Perugia-Assisi e della marcia del 24 ottobre a Roma, con i suoi 300.000 partecipanti, sino all'esplosione di decine di comitati cittadini e ad un'autentica proliferazione di marce e manifestazioni in cui la componente spontanea ha molto spesso avuto il sopravvento sulle bandiere di parte. Da parte di decine di migliaia di giovani, in particolare, questi appuntamenti pacifisti sono stati colti come un'occasione liberatoria capace di farli uscire da un lungo letargo. Questo è un fenomeno, del resto, che coglie di sorpresa solo chi non aveva saputo leggere le statistiche sconvolgenti secondo cui gli obiettori di coscienza in Italia sarebbe
ro passati da duemila a dodicimila in un anno.
2) "I guai del "pacifismo generico"". Cosa significa "essere per la pace"? Questo per generico che appaia anch'esso, è il vero quesito che bisogna porre agli innumerevoli alfieri del "pacifismo generico". Il dichiararsi qualunquisticamente "per la pace" è la professione che siamo abituati a sentirci dichiarare dai peggiori guerrafondai (non è un caso che il Partito Comunista sia apparso in forte difficoltà dopo le dichiarazioni di Reagan sulla "opzione zero", se è vero che l'intero pacchetto di proposte del Presidente USA configura una posizione in via astratta addirittura più avanzata di quella propugnata dai comunisti italiani). Occorre misurare non le parole, ma i fatti. E il movimento pacifista non deve tanto misurare i programmi, quanto i progetti concreti, la loro realizzabilità e soprattutto la lealtà con cui le forze che li sottoscrivono dimostrano di perseguirli. Il rischio maggiore che corre oggi il "movimento pacifista" è quello di essere intrappolato nel dibattito tecnico-militare aperto dalle of
ferte e controfferte delle due superpotenze: accettare il confronto sul balletto delle cifre degli equilibri o squilibri del terrore condotto dalle propagande dei due blocchi militari sarebbe una follia. La conseguenza certa della trasformazione di questo movimento in un'appiccicosa arena per vuoti parolai e demagoghi sarebbe il rapidissino ritorno a casa di centinaia di migliaia di persone.
3) "Stare in questo "movimento": ma in che modo". La realtà del "movimento pacifista" è estremamente articolata. Ci sono situazioni totalmente egemonizzate dal PCI, altre di intonazione marcatamente "gruppettara", altre più decisamente "ufficiali" (con dentro le confederazioni sindacali, o addirittura la DC), altre più agili, altre ancora paralizzate dai veti incrociati dei troppo numerosi partecipanti. Complessivamente, è un panorama interessante, che si interseca con settori non strumentalizzabili dagli apparati di partito e che mette in moto contraddizioni interne alle maggiori organizzazioni di notevole entità e qualità: sarebbe un'errata presunzione ignorare che il Partito Comunista nel momento in cui si spinge decisamente in questa campagna, non potrà pensare di chiamarsene successivamente fuori senza pagare dei costi molto alti.
I contenuti generali su cui si è trovato un accordo a livello centrale e periferico sono accettabili: non "comunque" all'installazione dei Cruise (un'impostazione unilateralista, confermata dall'apertura di un'iniziativa sugli Enti Locali perché dichiarino la loro intenzione di essere denuclearizzati e quindi la loro indisponibilità all'installazione di armi atomiche); via i missili ad Est come ad Ovest; no all'aumento delle spese militari (attestazione sulle cifre dello scorso anno, e quindi riduzione in termini reali); impegno contro lo sterminio per fame nel mondo, per salvare vite umane ed avviare lo sviluppo Nord-Sud; sull'immediato, non all'invio di truppe italiane del Sinai. Questa piattaforma d'intesa politica va acquisita e sviluppata in ogni sede possibile, tenendo conto che il patrimonio teorico e politico che i radicali sono chiamati a promuovere specificamente in queste settimane riguarda due questioni di metodo e due di contenuto.
Sul piano del metodo, "la scelta unilateralista" (unica via per pervenire a concrete iniziative di pace e sviluppo, dato il totale fallimento delle pratiche negoziabili "multilaterali e controllate", alibi e strumento di una più disastrosa corsa agli armamenti) e la indicazione del "dovere della disobbedienza civile" come pratica individuale e di massa nei confronti della preparazione della guerra e del consumarsi dello sterminio di decine di milioni di esseri umani.
Sul piano dei contenuti, appare sempre più evidente l'illusorietà di un movimento per la pace che non sia prioritariamente impostato sulla ricerca di un "nuovo assetto tra Nord e Sud del mondo", sulla sconfitta della fame e delle più spaventose conseguenze del disordine internazionale costituito; è altresì indispensabile la "liquidazione del "tabù"" - ancora tenace a morire, a sinistra - "nei confronti dell'URSS e dei Paesi del comunismo reale", che per la loro natura e struttura militarista e totalitaria rappresentano un fattore cruciale di pericolo di guerra.
Troveremo, nelle prossime settimane, le sedi ed il modo per sviluppare il dibattito con quelle forze che ritengono che "la pace non è in pericolo", ed anche con chi afferma che oggi è il tempo di battersi contro la corsa agli armamenti perché tutti gli strumenti e i dispositivi dell'equilibrio del terrore sono drastiscamente mutati (mentre noi riteniamo che i fenomeni di oggi sono la scontata conseguenza delle tendenze e delle scelte di trent'anni di politica internazionale, che l'incoscienza, la cecità e la complicità di troppe forze hanno consentito). Intanto, e con assoluta priorità, dobbiamo chiarire che il vero, grande contributo radicale al "movimento" è costituito dall'impegno contro la fame nel mondo: sul piano concettuale, politico, su quello della capacità di coinvolgimento e mobilitazione popolare.
Dobbiamo far comprendere ai nostri interlocutori (anche ad Achille Occhetto, che assieme a me ha detto in una manifestazione "noi ci sdraieremo sui binari, dovranno passare sui nostri corpi per installare o Cruise") che noi vogliamo verificare queste dichiarazioni anzitutto in Parlamento, ma soprattutto chiarire che non è pace quella che ha vissuto l'Europa in questi 40 anni, con oltre 150 conflitti esplosi nel mondo, con centinaia di milioni di morti per fame e malnutrizione. Non solo questa condizione non può durare (e ci sta incamminando a grandi passi verso l'Apocalisse) ma costituisce già oggi "una condizione di guerra". A meno che noi del Nord del Mondo non riteniamo di essere degni di vivere più di coloro che, con la loro miseria e morte, sono condizione della nostra opulenza (e della nostra crisi di opulenza). "Questa - come dicevamo con un nostro slogan nella grande marcia del 24 ottobre - è la pace da conquistare: i milioni di vite da salvare".