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Teodori Massimo - 1 maggio 1982
La Banda Sindona (3) Il crack e la caduta di Sindona
Storia di un ricatto: Democrazia Cristiana, Vaticano, Bankitalia, P2, Mafia, Servizi Segreti

di Massimo Teodori

SOMMARIO: Questo libro sulla vicenda Sindona - il cui autore è stato membro della Commissione d'inchiesta parlamentare - offre una interpretazione complessiva - "tecnica" e politica - dell'intera vicenda basata sugli elementi raccolti dalla Commissione stessa.

1. Come, quando e perché si disvela la trama del sistema di potere sindoniano.

2. Perché Sindona ebbe una grande ascesa e quali furono i padrini e gli alleati; quale sistema di potere si è costituito intorno a Sindona.

8. Perché avviene il crack, e come il sistema di potere mostra le sue contraddizioni.

4. Quale azione il sistema Sindona mette in atto per contrastare la caduta, e quali ne sono i protagonisti.

5. Le connessioni del sistema Sindona con la Loggia massonica P2.

6. Il significato della "fuga" di Sindona in Sicilia, quali i ricatti posti in essere, e il ruolo della mafia, della massoneria e dei Servizi segreti.

Massimo Teodori (1938), militante del Partito radicale fin dalla fondazione, nel 1955, è attualmente deputato al Parlamento. Professore di Storia americana, è autore di numerosi libri tra cui "La nuova sinistra americana" (1969) e "Storia delle Nuove sinistre in Europa 1956-1976" (1977), e coautore di "I nuovi radicali" (1977) e "Radicali o qualunquisti?" (1979).

("La Banda Sindona", GAMMALIBRI, maggio 1982)

Nel settembre 1974 cade quell'impero Sindona con propaggini in tutta la scena internazionale che era cresciuto con un ritmo intensissimo in meno di un quinquennio. E' legittimo porsi la domanda delle ragioni per le quali una tale potenza finanziaria, con quegli alleati e padrini che abbiamo in precedenza descritto, e cioè con intersecazioni con il potere politico, sia potuta improvvisamente crollare, aprendo la strada a una lunga vicenda giudiziaria, finanziaria, politica e perfino criminale. Le ragioni del crollo sono verosimilmente riconducibili a quattro elementi principali: a) l'esaurimento delle fonti di finanziamento con denaro esterno legato alla mancata autorizzazione dell'aumento di capitale della Finambro; b) l'intervento deciso delle autorità finanziarie americane che bloccano e poi fanno fallire la Franklin Bank di New York; c) il cambiamento di atteggiamento di una parte delle autorità finanziarie italiane, e segnatamente dell'lRI, che a un certo punto non osano andare più avanti nell'opera di c

opertura a Sindona; d) il peso oggettivo degli imbrogli e delle avventure finanziarie messi in piedi dal sistema sindoniano.

3.1. L'esaurimento delle fonti di denaro fresco: la Finambro.

Quando nel giugno 1973 lancia l'operazione di aumento di capitale della Finambro, Sindona ha chiaro che il suo impero finanziario può prosperare allargandosi solo se riesce a trovare la maniera per alimentarlo costantemente con la raccolta di denaro fresco. La tecnica sindoniana, che è apparsa in tutta l'astuzia e la perversità nel corso delle complesse indagini compiute dopo il crack, consisteva nell'impiegare sempre il medesimo denaro attraverso giri vorticosi resi possibili grazie alla creazione di una rete internazionale di banche e di finanziarie. Ma il punto di partenza e di alimentazione di tutte le operazioni, anche le più complesse, era sempre costituito dai depositi bancari dei clienti nelle due banche italiane e cioè dall'immissione di denaro fresco dall'esterno nel sistema. Sindona non svolge attività produttiva, non crea ricchezza, manovra solo e movimenta la ricchezza che altri gli affidano.

Il tentativo di dar vita a una grande finanziaria che consentisse questo tipo di alimentazione al sistema si era dapprima realizzato nelle operazioni Italcementi, Italmobiliare, Unione Adriatica di Sicurtà e Assicuratrice italiana, quindi in quella Bastogi e Centrale con l'acquisizione della Banca Nazionale dell'Agricoltura, un tentativo che viene ostacolato da parte degli altri gruppi finanziari italiani culminando nel fallimento dell'OPA-Bastogi.

La stessa frenetica ricerca di depositi fra il 1972 e il 1974 da parte di enti pubblici provvisti di notevoli somme di denaro va considerata nel quadro delle necessità di alimentazione del sistema a qualsiasi costo (di qui l'offerta di terzi di remunerazione molto alta con il pagamento di tangenti) con denaro fresco. L'aumento di capitale di una scatola vuota come la Finambro, che fra giugno e agosto 1973 viene portato da un milione a 160 miliardi, è un ulteriore anello di questa strategia. Il sistema sindoniano, anche se ritenuto al punto massimo di splendore, era già esausto fin dall'estate 1973 con le banche, in funzione di polmoni finanziari, in stato di sostanziale insolvenza, come ha messo in rilievo l'analisi accurata compiuta dal commissario liquidatore avvocato Giorgio Ambrosoli.

L'affannosa opera di pressione in tutte le direzioni per ottenere l'aumento di capitale va dunque inquadrata nell'urgenza, per Sindona, di dare nuova linfa al suo sistema, che consuma denaro e si sostiene solo puntando al rialzo. Le pressioni per ottenere l'autorizzazione per la Finambro si intensificano dal giugno 1973 al marzo 1974, cioè proprio nel periodo in cui si comincia a delineare in tutti i suoi aspetti la crisi dell'intero sistema bancario e finanziario.

Intorno all'affare Finambro si sviluppa un'attività frenetica perché si tratta dell'ultima frontiera sindoniana: vengono fatte pressioni su "tutti i partiti dell'arco costituzionale", come dichiara Pier Sandro Magnoni; vengono mobilitati gli alleati e i padrini, interessando Fanfani e Andreotti; mezza Italia si muove per la riuscita dell'operazione, come dichiara, giustamente insospettito, Ugo La Malfa. Sindona è pressoché sicuro di riuscire a portare a termine la sua impresa, e in tal senso gli vengono date assicurazioni da molti boiardi e personaggi del regime di cui si trovano molteplici tracce. Vengono persino negoziati i titoli della nuova Finambro, anche da parte di banche di interesse nazionale come la Banca Nazionale del Lavoro, con le autorità preposte al controllo che evidentemente chiudono un occhio, anche se vengono fatte discrete segnalazioni delle illegalità che si andavano compiendo.

L'obiettivo dell'aumento di capitale Finambro era quello di rinvigorire a spese degli ignari cittadini il sistema esausto. Sono risultate autentiche menzogne le dichiarazioni di Sindona tendenti a dimostrare che quell'aumento sarebbe servito a far rientrare in Italia capitali fuoriusciti e a far affluire nel nostro Paese, che attraversava un periodo intenso di crisi, capitali esteri. La verità è che quei capitali che Sindona prometteva di mobilitare in sostegno dell'Italia non erano altro che i depositi di clienti nelle sue banche fatti transitare per finanziarie estere attraverso la tecnica dei depositi fiduciari. Per il resto la scatola vuota Finambro sarebbe stata riempita dalle sottoscrizioni raccolte sul mercato, cioè da denaro sottratto a

impieghi più produttivi e messo a disposizione delle ulteriori operazioni speculative sindoniane.

L'autorizzazione all'aumento di capitale non fu data per il prevalente diniego del ministro del Tesoro del tempo, Ugo La Malfa. Non c'è dubbio che la scelta di contrastare Sindona derivava al ministro repubblicano anche da quegli ambienti della finanza cosiddetta "laica" che al ministro erano collegati, orientamenti assunti anche in ragione delle lotte di potere proprie del mondo finanziario italiano. Ma questo retroterra (l'azione dei Cuccia, dei Rondelli e dei Cingano, tante volte denunciata da Sindona come facente parte di un "complotto"), sicuramente operante, nulla toglie alla giustezza della decisione di non concedere l'autorizzazione all'aumento di capitale, rispetto al quale semmai si deve lamentare il fatto che si sia trattato di un provvedimento isolato e di un intervento tardivo, dopo che per un lungo periodo era stata data da parte della Banca d'Italia via libera al sindonismo, magari con lo stesso accordo di quegli ambienti della finanza "laica" che a un certo punto fecero valere rivalità e gelo

sie.

Con il mancato aumento di capitale della Finambro veniva a cadere l'ultima operazione che avrebbe assicurato liquidità al sistema sindoniano, e quindi si ponevano le premesse per un'accelerazione della sua crisi.

3.2. Il blocco della Franklin Bank da parte delle autorità americane.

Anche il pilastro bancario americano, la Franklin Bank, necessario a Sindona per impiantarsi e legittimarsi nella comunità finanziaria di New York e disporre di un sistema internazionale attraverso cui compiere operazioni a largo raggio, fuori dai confini e dai controlli nazionali, era stato acquistato con il denaro degli ignari depositanti delle due banche italiane. Ne fanno fede i depositi fiduciari partiti dalla BPF e dalla BU per complessivi 40 milioni di dollari e giunti, via Amincor e altre tappe intermedie, alla Fasco A.G., la holding familiare di Sindona, per essere utilizzati nell'acquisto della banca newyorkese.

Questa si era lanciata in spericolate operazioni di cambi passate da un importo complessivo di 10,7 milioni di dollari nel 1970 a 422,4 milioni nel marzo 1972, fino a toccare i 3.760 milioni di dollari nel novembre 1973, in piena direzione sindoniana, con il sostegno operativo immaginifico del cambista Carlo Bordoni. Ma, contrariamente alla sorte della controparte italiana del sistema bancario sindoniano, la Franklin era stata messa sotto stretto controllo delle autorità americane.

Nel settembre 1973 le banche americane non concludono più contratti in cambi a termine, e anche in parte in contanti, con la banca sindoniana; nel dicembre la Federal Reserve Bank, il corrispettivo della Banca d'Italia, crea uno speciale gruppo di lavoro per approntare piani di emergenza in vista di un possibile crollo; le banche estere ritirano la fiducia alla Franklin e non vogliono più trattare, mentre viene negata l'autorizzazione ad aprire uno sportello in Inghilterra.

La progressiva carenza di liquidità, insieme con la inadeguatezza del capitale della banca rispetto alle operazioni messe in essere, e la constatazione di illegittimità e di false registrazioni contabili, portano così il 10 maggio 1974 l'autorità di controllo statunitense, la Security Exchange Commission, a sospendere le transazioni del titolo in borsa, provocando il blocco nella distribuzione dei dividendi e le premesse del fallimento, che viene dichiarato nell'ottobre successivo, a poca distanza dalla liquidazione coatta della Banca Privata Italiana di Milano.

Prima la messa sotto controllo, poi lo stato di emergenza con la sospensione del titolo della borsa, e infine il fallimento della Franklin, si ripercuotono pesantemente su tutto il sistema sindoniano e in particolare sulle banche italiane. Infatti ancora una volta la costruzione sindoniana mostrava il suo carattere di sistema in cui tutte le parti erano comunicanti e la crisi di una parte del sistema si ripercuoteva su tutte le altre. Più significativamente, non solo l'attività in cambi della Franklin risultava nel corso del 1973-1974 in forte perdita, ma appare chiaro come la corrente di denaro all'interno del sistema andava dall'Italia verso gli Stati Uniti e non viceversa, sicché i passivi della banca newyorkese richiamavano denaro fresco dalle altre parti del sistema, non potendo Sindona compiere negli Stati Uniti operazioni di drenaggio simili a quelle che poteva mettere in atto in Italia.

Non solo risulta accertato che l'acquisto della Franklin Bank fu effettuato con l'impiego di denaro proveniente dall'Italia, ma anche che successivamente, e cioè nel periodo settembre 1973-marzo 1974, ingenti somme di denaro furono trasferite dalla Amincor (a sua volta rifornita tramite i depositi fiduciari dall'Italia) e dalla Banca Unione al di là dell'Oceano per occultare le perdite in cambi. Per queste ragioni la caduta della banca americana contribuì al crack, in quanto la banca americana assorbì denaro dagli altri elementi del sistema sindoniano accellerando la crisi di liquidità che nella primavera 1974 colpì definitivamente le banche italiane. La differenza fra il lato americano e quello italiano della vicenda bancaria sindoniana è tuttavia rilevante e significativa. In Italia fin dal 1972 erano già note le illegittimità, e dal 1973 si conosceva da parte delle autorità centrali la situazione di insolvenza delle banche; fu fatto ogni possibile sforzo per tenerle in piedi ancora dopo lo scoppio della c

risi nella primavera 1974, addirittura fornendo alibi e legittimazione internazionale al sistema sindoniano con il prestito CREDIOP, e poi di fatto accollando le passività, aumentate vertiginosamente nel periodo della crisi, alla collettività.

Per gli Stati Uniti, è vero che il fallimento della Franklin fu dichiarato solo nell'ottobre 1974, secondo alcuni osservatori anche lì in notevole ritardo, ma fin da un anno prima la banca fu messa in condizione di non nuocere e progressivamente le furono tagliate le possibilità di operare sul mercato. Ed è anche vero che dalla Franklin non fu esportato il denaro dei depositanti verso altre parti del sistema sindoniano, ma semmai avvenne l'opposto. E, ultima ma non minore differenza nell'esito della vicenda, »non un solo penny del contribuente americano , come ebbe a dichiarare il presidente della Banca centrale Arthur Burns, servì per ripianare le malefatte di Sindona, rapidamente condannato negli USA per bancarotta e altri illeciti finanziari a 25 anni di prigione.

3.3. L'opposizione di Petrilli (IRI) ai ripetuti tentativi del Banco di Roma (Ventriglia) e della Banca d'Italia (Carli) per un passaggio morbido nella crisi sindoniana.

Fino alla fine il Banco di Roma e la Banca d'Italia, che avevano operato per arrivare a una soluzione "morbida" della crisi bancaria, e quindi dell'intero sistema sindoniano, operano per evitare la liquidazione amministrativa coatta della BPI, e cioè l'estromissione di Sindona e dei suoi uomini con le necessarie conseguenze di ordine civile e penale.

Si è visto come dal maggio al settembre 1974, invece di ricorrere immediatamente ai provvedimenti drastici, certamente possibili e secondo l'avviso di molti anche necessari, la Banca d'Italia preferì percorrere la strada di una gestione controllata da parte del Banco di Roma. Quella scelta politica consentì di fatto di continuare a coprire il caos delle banche sindoniane nel quale poterono fiorire anche operazioni illegittime quali i rimborsi e gli impieghi del prestito.

L'istituto centrale puntava a evitare scossoni al sistema bancario e a "tutelare la credibilità italiana" anche a livello internazionale, mentre il Banco di Roma si prestava a quest'opera per poterne trarre vantaggio. Probabilmente è vero quanto afferma Sindona circa l'esistenza di una sorta di intesa verbale fra lui e il Banco di Roma per evitare il peggio, intesa intercorsa nel momento della concessione del prestito di 100 milioni di dollari che la Banca d'Italia volle che fosse pagato fino alla fine. Un tale atteggiamento fu tenuto anche in extremis allorché ormai era stata accertata in maniera più estesa, anche se non completa, la massa di debiti e di illegalità del sistema.

Nel momento della crisi finale tutto lo stato maggiore della finanza italiana è al capezzale delle banche sindoniane. Certo, far fallire in settembre le banche dopo che tanto si era operato per tenerle in vita e dopo che ancora in agosto era stato dato il nullaosta (se pure giustificato con motivi tecnici) per la fusione nella BPI della BU e della BPF, avrebbe costituito una smentita e una contraddizione di una linea così pervicacemente seguita. L'11 settembre si riuniscono gli uomini del Banco di Roma (Guidi, Barone e altri) con Sindona, Magnoni e altri, per convincere il banchiere, con la cessione della BPI a una lira alla banca di interesse nazionale, a non divenire bancarottiere.

Il 12 settembre al summit tenuto nell'ufficio del ministro del Tesoro partecipano Ventriglia (BdR) Petrilli (IRI) e Carli (Bdl), che tenta ancora la strada della costituzione di una nuova banca nella quale il Banco di Roma potesse avere una posizione di prevalenza.

Il 13 settembre, a una riunione nella quale sono presenti i vertici della Banca d'Italia (Carli, Baffi e Occhiuto), del Banco di Roma (Ventriglia, Barone e Guidi), dell'IRI (Petrilli e Medugno), dell'lMI, della Banca Commerciale e del Credito Italiano, il governatore si fa ancora padrino di un progetto per la costituzione di un consorzio di banche e di altri istituti di diritto pubblico per creare una nuova banca ("d'Oltremare") ed evitare di conseguenza il crollo. Ma tutti questi sforzi non vanno a buon fine perché il presidente dell'IRI, Giuseppe Petrilli, per una scelta di merito, prima ancora che per il parere del suo ufficio legale, oppone il veto dell'istituto che controllava la maggioranza delle tre banche di interesse nazionale.

Certamente l'atteggiamento di Petrilli, insieme alle resistenze delle due altre banche di interesse nazionale (Comit e Credit) che rifiutano di partecipare alla creazione di una nuova banca, contribuisce sostanzialmente alla dichiarazione del crack di Sindona. Questo è un fatto incontrovertibile. Assolutamente legittima l'opposizione di Petrilli in quel momento, c'è tuttavia da chiedersi come mai il potere di intervento dell'lRI attraverso il Banco di Roma non sia stato utilizzato in precedenza. Questa è una domanda inquietante che rimane senza spiegazione.

In una inchiesta promossa dall'lRI, e poi insabbiata, si giudica "grave e avventuristica" la condotta del Banco di Roma nell'opera di sostegno e di gestione controllata delle banche sindoniane intrapresa dal giugno 1974. Perché l'IRI non intervenne fin da allora? Quali pressioni politiche o compiacenze ritardarono il veto che, quasi improvvisamente, fu interposto il 12 settembre? Le risposte date sono formalistiche. L'unica ragionevole congettura è che il presidente dell'lRI, che aveva consentito a una delle sue banche di spingersi così avanti anche per le connessioni che il sistema Sindona aveva con altri poteri operanti in Italia, a un certo punto teme l'eccessivo ingigantimento dell'affaire e tenta di invertire la rotta con una mossa dell'ultimo momento, che lo porterà a un aspro contrasto non solo con gli uomini del Banco di Roma, ma con lo stesso governatore Carli.

Il 24 settembre 1974 si tiene la riunione nella quale si prende atto del fallimento di tutti i tentativi di soluzioni "morbide" e si decide la liquidazione coatta. Questa viene dichiarata ufficialmente il 27 settembre con un decreto ministeriale che di fatto addossa le perdite alla Banca d' Italia e nomina il commissario liquidatore, avvocato Giorgio Ambrosoli. Anche il ritardo della nomina dal 24 al 27 settembre rimane motivo di ulteriori interrogativi sullo spazio offerto alle operazioni che potevano essere messe in atto all'interno della banca durante i tre giorni di vacanza, mentre i risparmiatori cercavano di recuperare agli sportelli i loro depositi.

3.4. Il peso obiettivo dei debiti e delle illegittimità sindoniane.

Come mai un sistema come quello di Sindona, con tali e tanti potenti coinvolgimenti, e che poteva godere di interessate protezioni, alla fine del settembre 1974 crollò?

Abbiamo in precedenza messo in evidenza gli elementi che incepparono il meccanismo del sistema. Ve n'è però un altro che è alla base di tutto quanto accadde e ne costituì la premessa. Anche in un regime di protezioni e di alleanze finanziarie e politiche, il peso della situazione obiettiva finisce per giocare un ruolo che diviene insostenibile. Le banche sindoniane per oltre un anno erano andate avanti in una situazione di insolvenza; le operazioni finanziarie internazionali avevano accumulato valanghe di debiti; il regime della "contabilità nera" rappresentava la regola piuttosto che l'eccezione, con trasferimenti di denaro sia brevi manu, tramite i libretti al portatore, sia per mezzo dei depositi cosiddetti fiduciari; non c'erano più mezzi per rinsanguare la esausta liquidità; la parte americana del sistema bancario richiamava mezzi finanziari invece che metterne a disposizione; la Società Generale Immobiliare subiva un crollo in borsa dopo un lungo periodo di artificioso gonfiamento; le spericolate opera

zioni in cambi, messe in atto da Bordoni tramite le collegate estere della Edilcentro-SGI, avevano raggiunto cifre da capogiro, dell'ordine di miliardi di dollari, e non potevano più essere rinnovate alle scadenze; insomma, pur fra i meandri di una difficile contabilità, il passivo netto delle due banche si aggirava intorno ai 250 miliardi.

Così, nonostante tutti i santi protettori, la macroscopica evidenza del dissesto non potè più essere occultata, come era stato fatto per un lungo periodo di tempo.

 
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