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Notizie Radicali - 28 maggio 1982
Est dossier (4): Le azioni città per città

SOMMARIO: Il resoconto delle peripezie dei vari gruppi di militanti radicali che il 19 aprile 1982 manifestano contemporaneamente in 6 capitali del Patto di Varsavia (Mosca, Praga, Berlino, Sofia, Budapest, Bucarest), per denunciare la complicità dei governi dell'Est e dell'Ovest nelle politiche di riarmo e di sterminio rivolte contro il Sud del mondo, e affermare l'obiettivo proposto dal Manifesto - Appello di 72 Premi Nobel: priorità delle priorità del nostro tempo deve essere la sopravvivenza e la vita delle popolazioni minacciate dalla fame e dal sottosviluppo. Mosca: due minuti di manifestazione sulla Piazza Rossa; quattro ore di fermo di polizia, poi l'espulsione. Praga: mezz'ora in Piazza S. Venceslao, nel luogo dove brucio' Jan Palach; poi l'arresto, 72 ore di carcere duro e d'interrogatori, espulsi attraverso la frontiera tedesca. Berlino Est: 20 minuti, l'arresto, l'espulsione verso Berlino Ovest, la conferenza stampa nella sede del Parlamento Europeo. Sofia: 40 minuti di fronte ai Grandi Magazzini

Zum, l'arresto, le violenze e la sicumera della Polizia, l'espulsione in corriera verso la Jugoslavia. Bucarest: mezz'ora tra la folla, la Milizia cortese e imbarazzata, un fermo di due ore e una liberta' insperata ma consona alla facciata liberale del regime di Ceaucescu. Budapest: venti minuti in Piazza Rakoczi, l'arresto in sordina, i militanti espulsi dalla frontiera austriaca.

(NOTIZIE RADICALI N. 6, 28 maggio 1982)

(Da Bucarest a Radio Radicale, da Mosca a Bruxelles; in tutti questi luoghi i radicali, dal segretario del partito ai "tecnici" della radio, hanno lavorato ininterrottamente giorno e notte: qui ricordiamo come.)

MOSCA

L'appuntamento a Bruxelles giovedì 15 aprile a casa di Annie Braquemont, la nostra responsabile stampa. Arriviamo stravolti, Gianfelice ed io, dopo 24 ore di treno. Dobbiamo metterci subito attorno ad un tavolo, insieme a Jean Fabre ed Annamaria e gli altri che rimarranno lì per definire orari e codici delle comunicazioni.

Qui conosco Luc e Marc, francesi, e Pedro e Fernando, spagnoli, con cui faremo l'azione. Mostriamo loro il materiale che abbiamo portato dall'Italia per fabbricare i volantini (matrici, inchiostro e rullo per spalmarlo), e lo scotch per lo striscione. Il primo problema sono le matrici: le nascondiamo nei bagagli o le mettiamo addosso? Le infileremo nei calzini e faremo bene perché i bagagli verranno perquisiti fino all'ultimo fazzoletto.

Decolliamo per Mosca dopo solo tre ore di sonno; in aereo una hostess avvia un insidioso dialogo sul perché del nostro viaggio. E' il primo di una serie di episodi che ci faranno sentire sempre seguiti e spiati. Arriviamo all'aeroporto che è, alle tre del pomeriggio, un deserto inconcepibile; ricorda la Stazione Tiburtina alle tre di notte. A Marc Mosca sembra un monolito di ghiaccio ed in effetti, attraversandola per raggiungere l'albergo, ammantata da un cupo grigiore, riporta alla memoria di tutti solo oscure fobie.

La sera andiamo a fare il primo sopralluogo sulla Piazza Rossa; Luc, guardando un'enorme cannone ed una smisurata campana mai usati osserva che la Russia è il paese delle grosse realizzazioni inutilizzate: la campana e il cannone, oltre ad essere rappresentativi strumenti di potere indicano, con la loro inutilizzabilità quello che l'Unione sovietica ha fatto dell'ideologia comunista: una mostruosità.

Dedichiamo due giorni al turismo per non destare sospetti nella nostra pignola guida che ci imbottisce di propaganda politica pacifista raccontandoci, tra la storia del metrò e quella di Lenin come i russi siano costretti ad amarsi "un po"' per difendersi dagli americani che non ratificano i Salt2 etc, etc. La notte, invece, discutiamo sui particolari da mettere a punto: volantineremo ai piedi del Mausoleo di Lenin e non faremo resistenza passiva; noi e gli spagnoli avremmo voluto, ma i belgi ed i francesi no. E non è una decisione che si possa prendere a maggioranza. La notte prima dell'azione prepariamo tutto il materiale ed andiamo a dormire, per poche ore. L'ultimo ostacolo lo pone Gianfelice, vivendo a Bologna non ha avuto modo di conoscere a sufficienza l'organizzazione generale dell'azione e teme sei mesi di Siberia. Gli dico che se non se la sente nessuno potrà rimproverargli nulla. Al mattino mi dirà che partecipa e che la motivazione ultima l'ha trovata nella mia calma e sicurezza: ne sono felice.

Alle 13, sulla Piazza Rossa apriamo lo striscione ma dopo pochi secondi i poliziotti di cui è gremita la piazza, forse avvertiti dalle agenzie di stampa internazionali contattate mezz'ora prima, ci sono subito addosso. In tre minuti siamo nel vicino commissariato dove, per la prima volta, provo paura; mi conforta Marc che osserva giustamente come in fondo tutti i commissariati e tutti gli agenti di polizia siano simili. L'interprete che abbiamo chiesto è un personaggio da film: squallido, con un sorriso sadico e cattivo che praticava una forma di tortura psicologica che lasciava assai poco sperare in un miglior trattamento fisico. Dopo 4 ore e dopo aver interrogato solo due di noi ci rimettono in libertà.

La sera, prima di prendere l'aereo, di fronte allo spettacolo della steppa alla periferia della città, osservando gli operai che ritornano stanchi alle loro case la nostra allegria svanisce. Ci sembra, partendo, di abbandonarli alla tirannia; ci pesa la consapevolezza che i diritti umani si basano sulla solidarietà e che perciò dovremmo fare di più.

Il fatto di essere stati liberati subito è un riconoscimento del valore delle nostre idee e delle nostre azioni; non si prestano ad ambiguità; però sarebbe bello, come dice Luc poter fare un congresso del Partito Radicale a Mosca.

PRAGA

I giorni precedenti la partenza devo fare un controllo generale dell'organizzazione, lavorando anche la notte; un vero stress. Giovedì parto per Parigi dove bisogna prendere gli accordi con Bernard, il nostro responsabile stampa che deve andare la sera stessa a Praga, e dove incontro Olivier (belga) e Jean-Paul (francese) con cui partirò l'indomani con il peggior treno che abbia mai preso.

Arriviamo al confine in tre scompartimenti diversi con le matrici dei volantini messe addosso ed il materiale da "pittore" nascosta nella valigia di Jean. Attimi di tensione, ma nonostante l'incredibile quantità di militari e doganieri Jean evita, con uno stratagemma, la perquisizione dei bagagli. La sera siamo nell'hotel; la mattina dopo siamo dei pacifici turisti che incontrano per caso un conoscente (Bernard) e che visitano la città; in realtà in una atmosfera che è a metà tra 007 e Silvio Pellico: Olivier e Jean temono perfino di essere seguiti. Io, più tranquillo, mi godo a fondo una città meravigliosa, ricca del fascino asburgico e mitteleuropeo che contrasta con un tenore di vita stile anni '50.

La mattina dell'azione, prevedendo che per molte ore digiuneremo, ci avviamo tesi ma di buon umore verso P.zza S. Venceslao armati dei volantini, che sono venuti solo grazie all'bilità di Olivier, e dello striscione. Jean teme che l'intervento della polizia sarà rapidissimo, io scherzo sil pericolo costituito dall'essere ignorati; pericolo che, dopo mezz'ora che reggiamo bene in alto lo striscione, nel posto dove nel 68 si bruciò Jan Palach mi sembra giustificato. Ma l'evidente simpatia dei Ceki ed il loro costante assembrarsi in diverse centinaia costringe la Polizia ad intervenire. Prima vengono due agenti in divisa che tentano solo di prendere lo striscione e che se ne vanno quando la folla ci applaude metro lo ritiriamo in alto; poi, dopo che ho dato altri volantini alla gente che si raduna in capannelli per leggere (manifestiamo ormai da un'ora) arrivano poliziotti armati di manganelli. Ci sediamo per terra e ci facciamo portare via mentre i praghesi ci applaudono sorridendo o gridano con rabbia all'ind

irizzo degli agenti: Bernard, poco lontano sente volare parole come "democrazia" e "totalitarismo".

Alle 12.15 siamo nel I· distretto di polizia di Praga; per i funzionari che m'interrogano in inglese per 5 ore, mentre Olivier e Jean aspettano in corridoio, siamo dei provocatori e dei terroristi. Ricordo loro che non abbiamo violato né codici né costituzione (li abbiamo studiati prima di partire) e che vogliamo consegnare una lettera a Husak. Alla fine siamo al punto di prima con un grosso vantaggio per noi: li ho sommersi di informazioni sul senso della nostra azione e sulla reale situazione delle lotte pacifiste, vere e di facciata, in Europa. Hanno capito talmente bene che, tranne il "capo", al termine dell'interrogatorio ci stringeranno la mano e uno di loro ci augurerà buona fortuna.

Dopo tre ore siamo ciascuno in una cella diversa nelle carceri della Questura; alle 11 di sera spiego ad un secondino che siano digiuni dalle 10 del mattino e che portasse a Jean ed Olivier qualcosa da mangiare; non capisce ma è gentile e gli porterà delle sigarette (Jean poverino non fuma). Alle sette del mattino dopo, non ho dormito perché in cella la luce rimane accesa tutta la notte, ci portano separatamente nelle stanze degli interrogatori dove aspetteremo 9 ore al giorno con un'interruzione per il pranzo che ci riguarda poiché Olivier ed io stiamo facendo lo sciopero della fame. Approfitto di queste ore per rovesciargli addosso tutte le informazioni possibili sulla lotta contro la fame nel mondo, sulla diversa concezione del Partito che hanno i radicali, sulla situazione politica dell'Europa.

Sono molto interessato, il "gran capo" (quello che non ci ha stretto la mano) entra di continuo nella stanza per leggere, sulla macchina da scrivere, il prosieguo delle copie di ogni foglio del verbale che gli mandano. Il pomeriggio ho i nervi a pezzi e sarei anche disposto a firmare i verbali scritti in ceko pur di andarmene. Solo la ferma opposizione di Jean Paul, con cui ho chiesto di consultarmi per 5 minuti, mi convince a desistere. Il problema è politico: loro non vogliono fare la traduzione perché dovrebbero ufficializzare il provvedimento ammettendo così di averci arrestati; Jean ha ragione: non firmerò.

Tra inglese, francese e cecoslovacco, non capisco più niente, ritorno in cella stanchissimo e imparo che non ci si può sedere sul letto prima delle nove di sera (il regolamento è durissimo) e poiché ci sono solo due sgabelli su cui sono seduti due ceki decido che se non ne porteranno un altro mi siederò sul letto. Entrano due secondini che, dopo avermi dato qualche manganellata, di fronte al mio atteggiamento di resistenza passiva accettano di portarmene uno. Sembrerebbe cosa di poco conto, ma da quel momento la considerazione con cui mi tratteranno secondini e compagni di cella dimostra, una volta di più, la forza dei comportamenti nonviolenti.

Il terzo giorno di detenzione, digiuno e insonnia, apprendiamo che verremo espulsi in nottata; ma prima di farmi riportare in cella il "gran capo" mi fa domandare se accetto di parlare con lui. Discuteremo per mezz'ora in piena libertà della situazione Est-Ovest, del Partito Radicale, della fame nel mondo, delle false trattative tra Reagan e Breznev, di Jaruzelski, Khabul, Walesa e Shakarov. Alla fine mi stringe la mano anche lui; per me è la maggiore soddisfazione personale e politica. Ritorno in cella per uscirne definitivamente la sera per andare, finalmente, insieme a Jean Paul ed Olivier, sul treno che alle 4 del mattino arriva al confine tedesco, lì siamo di nuovo liberi.

BERLINO

Per Berlino siamo partiti in quattro Luis Boris, Miguel Angel Sanchez, Juan Antonio Herrero e Miguel Alarcon; tutti membri della Lega degli Obiettori di Coscienza spagnola. I contatti per la stampa e per la nostra sicurezza li avrebbero tenuti Mariam in Spagna e Helen Krauser a Berlino.

Il nostro gruppo, per la difficoltà dei contatti e per risparmiare denaro, si è mosso con minore coordinazione rispetto a quelli delle altre capitali; ma tutti gli obiettivi politici, gli orari e ovviamente le città, erano stati concordati da Mariam che aveva partecipato a tutte le riunioni internazionali di coordinamento.

I primi problemi, per altro divertenti, iniziano a Stutgard: arriviamo in gran fretta un giorno prima dell'appuntamento fissato con Helen; pensiamo per sbaglio di essere arrivati un giorno in ritardo e che Helen se ne sia già andata. Ci rendiamo conto poi che il giorno dopo è quello giusto, per cui, soddisfatti, andiamo alla stazione dove all'ora convenuta ci viene incontro una ragazza bionda e simpatica che porta addosso una spilletta con il simbolo del Partito Radicale: era lei... un graziosissimo "contatto". Nel proseguire il viaggio verso Berlino l'unica cosa che ci auguriamo è che il 19 aprile arrivi presto. Ci consoliamo pensando al freddo che sicuramente farebbe in Siberia questa primavera; anche in Germania, d'altronde, a mano a mano che ci avviciniamo c'è chi sente aumentare il freddo. Arriviamo alla frontiera tra il capitalismo e il socialismo; nessun doganiere sospetta di noi; anzi i doganieri di ambedue le parti ci domandano sorridendo se siamo spagnoli e noi rispondiamo: "esattamente...! olé". E

' forse grazie alla nostra fama di gente simpatica che non abbiamo perquisizioni. Arriveremo a Berlino Est alle 2 del mattino e nonostante l'insistenza con cui telefoniamo al nostro contatto non otteniamo alcuna risposta.

Ci mettiamo a cercare un hotel per dormire ma sono tutti completi (per lo meno quelli che le nostre finanze ci permetterebbero). Non ci resta che prenderla con filosofia ed escogitare una soluzione geniale: dormire in macchina; detto e fatto. Alle dieci del mattino veniamo ospitati da un amico presso il quale stamperemo i volantini in tedesco con l'attrezzatura che ci siamo portati appresso per tutto il viaggio e che funzionerà molto meglio, come abbiamo saputo, di quella degli altri gruppi. Nel preparare lo striscione, discutiamo a lungo della sorte che ci attende; le opinioni sono le più varie. Conclusione: "vedremo".

A questo punto, come eravamo rimasti d'accordo, bisogna telefonare a Madrid per comunicare il "tutto OK"; facile a dirsi ma non a farsi, poiché un attentato terroristico ha tagliato la maggior parte delle comunicazioni telefoniche. Alla fine, tramite Jean Fabre sappiamo che a Madrid va tutto bene e che tutto è pronto per la conferenza stampa; in codice diamo il nostro "via"; "le patate sono cotte" e Jean ci augura buona fortuna.

Passiamo la frontiera con la metropolitana (che va da Berlino Ovest a Berlino Est) senza problemi, nessuno pensa che abbiamo con noi 300 volantini e uno striscione; il nostro comportamento è impeccabile. Arriviamo in Alexanderplatz attraversando una città piena di poliziotti che ci ricorda, come atmosfera, la Spagna franchista degli anni '70; abbiamo l'impressione di ritornare dietro nel tempo.

Alle 11 in punto, dopo esserci augurati "in bocca al lupo" ci dividiamo: Luis e Miguel Angel salgono qualche gradino dell'ingresso del museo per stendere lo striscione mentre Miguel Alarcon resta ai piedi della scalinata per distribuire i volantini. L'arresto di Miguel Angel e di Luis è fulmineo, pochi secondi, mentre invece Miguel continua a distribuire i volantini per circa un quarto d'ora; la Polizia lo lascia fare sino al momento in cui Miguel non inizia a offrirli anche a loro. All'inizio restano intontiti senza sapere cosa fare, poi un graduato arresta anche Miguel. Saranno state le 11 e 20 quando arriviamo in un commissariato di polizia dove per prima cosa ci sottopongono all'esame di controllo del tasso alcoolico (la famosa pignoleria germanica); poi si passa alle domande.

In realtà le nostre storie, così come la chiarezza della nostra azione, devono essere convincenti poiché, prima di lasciarci, un alto ufficiale ci spiega che anche loro sono d'accordo con le nostre richieste e sono favorevoli al disarmo ma la politica riarmista degli altri paesi li obbliga a rimanere armati. Sarebbe più convincente se non aggiungesse con lo stesso tono che saremo espulsi a Berlino Ovest, non potremo più ritornare nella Repubblica Democratica Tedesca e che, poiché ci hanno ritirato il visto, non possiamo riportare dietro l'automobile attraverso il territorio della Germania Orientale che circonda Berlino. Forse per delicatezza poi aggiunge se abbiamo qualcosa da domandargli; gli chiediamo, visto che sono "pacifisti" anche loro, perché mai ci hanno arrestato, perché ci impediranno di tornare nella Germania Orientale e perché ci hanno ritirato il visto; non potrà risponderci nulla. Certo è un curioso modo di d'essere pacifisti.

Siamo molto stanchi per il viaggio e per la tensione nervosa accumulata, ma a Berlino Ovest invece del riposo ci attende una conferenza stampa, che terremo nella sede del Parlamento, davanti a un gran numero di giornalisti.

Bisogna peraltro dire che anche i nostri compagni in Spagna non se la passano meglio. Mentre erano intenti ad una manifestazione pacifica, che si svolgeva davanti all'ufficio nazionale di collocamento, per solidarietà con la nostra azione, la polizia li ha arrestati e detenuti per 32 ore solamente perché chiedevano meno armi e più lavoro a fronte di un programma governativo di investimenti per 2.500 miliardi nel settore militare che servirà ad agevolare l'ingresso della Spagna nella Nato.

Ripensando, sulla strada del ritorno, a quello che aveva detto l'ufficiale di polizia sul loro pacifismo, mentre notiamo convogli militari, assolutamente simili a quelli che abbiamo incontrato all'andata, in Spagna come negli altri paesi che abbiamo attraversato, ci viene naturale pensare come tutte le nazioni siano solidali tra loro in questa strana specie di "pacifismo"... voi mi capite, vero?

SOFIA

Il gruppo di Sofia doveva organizzarsi in 4 giorni invece che in tre mesi; esattamente la sera del 13, infatti, Marino Busdachin convoca Nicoletta Figelli, Antonio Zappi e Paolo Ghersina per la prima riunione organizzativa.

Il 17, alle 21, partiamo con il furgone di Mario Pujatti, il nostro responsabile stampa, ed arriviamo dopo 12 ore filate di guida a Belgrado dove ingolliamo un caffè. Alle 2, "on the road", mangiamo un boccone e arriviamo al confine. Dopo mezz'ora di attesa in cui invece di perquisirci controllano che non siamo sulla lista nera dei contrabbandieri o dei "politici" ripartiamo alla volta di Sofia. Guida sempre Pujatti, morto di sonno, mentre gli altri, per tenerlo sveglio gli "raccontano" la Bulgaria: la situazione sociale è evidentemente arretrata sia economicamente che sociologicamente; la gente vive in condizioni di estrema semplicità. Sofia in particolare, dove arriviamo alle 16, mostra, da una una parte, un centro storico ben tenuto con negozi dalle vetrine impeccabili (ma solo quelle); dall'altra una periferia con strade fangose, case che ricordano più un paese che una capitale e la gente che vive come nel meridione dell'Italia degli anni '50.

Dobbiamo subito cercare gli alberghi, Pujatti andrà al Balkan mentre noi dobbiamo trovare un altro posto in modo che la polizia non possa risalire sino a lui dopo lo svolgimento dell'azione. In albergo approntiamo tutto il materiale e, stravolti dopo quel po' po' di viaggio, ci mettiamo a dormire poco dopo la mezzanotte.

La mattina verso le 9 ci avviamo al luogo dell'azione, i magazzini ZUM posti al centro della città, per fare in primo luogo un'abbondante colazione. Uscendo, alle 11, Paolo Marino ed Antonio iniziano a spiegare lo striscione tra gli applausi dei passanti che si fermano immediatamente intorno ad esso, mentre Nicoletta inizia ad offrire i volantini. Alcuni dei passanti che li hanno presi, costretti dalla fame di notizie dei capannelli di gente che li ha circondati, si mettono a leggerli ad alta voce. Per noi, e crediamo anche per loro, sono momenti di vera felicità.

Dopo circa 40 minuti arrivano due macchine della polizia, su cui veniamo caricati dagli agenti, che ci trasportano verso la centrale di Sofia.

Dopo un quarto d'ora di attesa e di tensione, cerchiamo di reagire scherzando tra di noi ma con scarso successo, arrivano due funzionari: uno, che parla francese; è molto cortese, l'altro prende Marino, lo sbatte contro il muro, gli apre le gambe con un calcio e comincia a perquisirlo. Riserverà lo stesso trattamento agli altri ma manteniamo tutti un atteggiamento tranquillo senza mostrare paura e la situazione non peggiora ulteriormente. Frattanto Nicoletta viene portata in un'altra stanza, e perquisita da un agente femminile che la fa spogliare completamente. Dovrà poi aspettare per più di due ore il termine dell'interrogatorio degli altri.

Nel medesimo tempo Pujatti, dopo aver nascosto le foto nella scatola dello sterzo, supera il confine con la Jugoslavia e ci aspetta a Nish, annegando la preoccupazione in una bottiglia di vodka, non prima di aver avvertito Roma e Bruxelles dell'esito dell'azione.

Mentre Pujatti viaggia Marino, Antonio e Paolo vengono interrogati da una polizia che si mostra perfettamente informata sul Partito Radicale (avendo solo duemila iscritti è una setta); sulle Brigate Rosse (agenti del capitalismo); sui capitalisti (guerrafondai e violenti) che sono tutti meno gli abitanti del blocco dell'Est. Per la polizia le cose stanno così e basta.

Dopo più di due ore, ci portano con un cellulare all'albergo dove ci restituiscono i bagagli ed i passaporti con il timbro dell'espulsione. Alle 7.30 di sera troviamo la corriera che ci porterà a Nish dove mangiamo qualcosa mentre Pujatti avvisa Radio Radicale della nostra liberazione.

La mattina dopo partiamo per Trieste dove ci tocca la conferenza stampa, il racconto ad amici e parenti, etc. Insomma il vero riposo comincerà solo il 22. Il miglior ricordo rimane l'espressione dei visi dei bulgari che leggevano il volantino; il migliore per noi ma, crediamo, il migliore anche per loro.

BUCAREST

Partiamo da Milano, Gaetano Dentamaro, Gerard Buchard e Philippe Gautier la sera del 15: un viaggio tragico! Perdiamo le coincidenze del treno per Vienna, arriviamo con un giorno di ritardo al confine Rumeno, in taxi dopo aver fatto anche l'autostop, oltre a svariate notti in bianco.

Al confine non abbiamo problemi di tensione sopratutto perché non abbiamo i visti ed è tale il casino che dobbiamo fare per averli che non possiamo pensare ad altro.

Dopo 15 ore di treno siamo a Bucarest; una città fatta di caseggiati a schiera, di una tristezza infinita, ammantati di grigiore. I militari, che pure qui come in ogni altro paese dell'Est sono una "casta" importante, vestono con divise di pessima lana, che sembrano più costumi da teatro che abiti. La gente, inoltre sembra fuori moda, e non solo perché non ha un'abbigliamento "occidentale", quanto perché nulla del loro comportamento lascia trasparire un minimo di atmosfera di versa di quella "post-II guerra mondiale". Anche la stazione, buia ed affollata di poveri, sembra solo uno spazio.

La sera del 18, in albergo, iniziamo a fare lo striscione ed i volantini. Il primo viene fatto senza problemi; i volantini invece sono una disperazione. La mattina dopo, il 19, alle ore 9.30 siamo all'appuntamento con Francesco Tullio, il nostro responsabile stampa, che si è già messo in contatto con il corrispondente locale dell'Ansa, molto disponibile, che ci dà alcuni consigli sul luogo della manifestazione (davanti al Circolo Ufficiali in Via Victoriei).

Alle 12.45 del mattino dopo Gerard e Philippe aprono lo striscione mentre io inizio a distribuire i volantini. In pochi secondi sono circondato da mani fameliche e depredato completamente, salvo l'ultimo volantino e dopo aver girato da un campanello all'latro di quelli che si erano formati intorno a lo striscione, invitando la gente a "far girare" i volantini, salgo su un capitello che si trova lì accanto con la scritta "Vita, pace, Pinedzarmari" e, approfittando della somiglianza tra il rumeno e l'italiano inizio a leggere io stesso il volantino: la gente applaude e saluta, costringendomi a rileggere più volte il testo.

Quando arriva la "Militiei", a Gerard qualcuno indica pure una via di fuga, passiamo tra due ali di folla plaudente che ci porge mani da stringere e ci avvisa di fare attenzione.

Alla centrale, dopo averli convinti che il rumeno lo capiamo ma non lo sappiamo parlare, spieghiamo a turno alla traduttrice chi siamo e da dove veniamo, la portata dell'azione etc. etc., e soprattutto chiediamo di parlare con Ceausescu per consegnargli la lettera. Qui avviene il miracolo: ci rilasciano subito con l'indirizzo del Comitato Centrale del PCR. Prima di arrivare facciamo un salto alla sede dell'ANSA da dove facciamo resoconto in diretta a Radio Radicale; aiutiamo il corrispondente dell'Ansa a fare un pezzo di resoconto sull'azione; incontriamo esponenti di "Fronte Democrazia ed Unità" - che è un'organizzazione pacifista nongovernativa - e fissiamo alcuni appuntamenti con esponenti della diplomazia rumena per il giorno dopo.

Il 23 siamo di ritorno; un viaggio peggiore di quanto immaginassimo per un'azione come non avremmo mai immaginato: ma ci siamo lasciati indietro dei contatti e degli impegni ben precisi; per noi l'azione non finisce qui, vedremo nei prossimi mesi quali frutti potremo raccogliere.

BUDAPEST

Il 9 aprile io e Frederique otteniamo il visto turistico per l'Ungheria; è uno scoglio superato; se ci danno il visto non sanno niente. Il 13 chiedo ad Adele Faccio di avvisare e tranquillizzare la mia famiglia che ho tenuta all'oscuro per evitare angosce e preoccupazioni; il 16 Frederique, Nicola Cantisani, ed io siamo a Milano per l'appuntamento. Il 17, a Vienna ci dividiamo, Frederique e Nicola, che è nonvedente dalla nascita, in uno scompartimento, io nell'altro. Al confine l'atmosfera è u po' tesa ma loro, con un aria da innamorati, passano tranquilli. L'Ungheria mi sembra un paese massicciamente controllato da militari e polizia, grigio; a Budapest si vive in un'atmosfera pesante, con sorrisi e rapporti umani ridotti al minimo. A Frederique, più esperta di me sull'Est, il paese sembra meno duro e meno povero di altri che ha visto. Il giorno dopo siamo all'appuntamento con Patricia, nostra responsabile stampa, cui comunichiamo il luogo della manifestazione e gli ultimi accordo.

La sera, rintanati nella camera dell'hotel come carbonari lavoriamo sino alle quattro del mattino per fare lo striscione ed i volantini (a mano ed in ungherese!). Il sonno di Frederique è funestato da cadaveri nascosto sotto il letto ed assassini vari, ma la mattina alle 11 in punto, siamo in Piazza Rakoczi, apriamo lo striscione con la traduzione "Pane, Vita, disarmo" ed iniziamo a distribuire i volantini. Frederique, mentre tenta d'attaccarne uno su un monumento, viene bloccata da un agente in borghese, un altro, a cui chiedo prima il tesserino, mi "disarma" di volantini e striscione; lo stesso accade a Nicola. gli agenti si comportano con discrezione in modo che nessuno si renda conto di cosa sta accadendo; non vogliono essere visti mentre impediscono una manifestazione pacifista. Dopo mezz'ora ci pregano di seguirli sino ad un angolo della strada dove ci caricano su due 1100 e ci portano nella sede della polizia; un funzionario con cui parliamo si dichiara d'accordo con i nostri motivi di fondo ma spiega

che il suo paese non ha colpa nella corsa agli armamenti; che i mass-media non informeranno sulla nostra azione perché il volantino "non è giusto" e che la lettera al Presidente non potrà essere consegnata perché non siamo un'organizzazione ufficiale; siamo arrivati intanto nell'ufficio stranieri della Questura dove ci interrogano per sapere soprattutto quali altri stranieri o cittadini ungheresi ci abbiano aiutato nelle traduzioni.

Gli spieghiamo ridendo che l'abbiamo fatte a Roma, poi protestiamo per il trattamento subito in contrasto con il trattato di Helsinki e con la loro stessa costituzione che tutela il diritto di qualunque cittadino ungherese a presentare le proprie proposte alle istituzioni.

Dopo due ore ci accompagnano in albergo dove perquisiscono i bagagli ci offrono da mangiare e da bere, ricostruiscono la preparazione dell'azione, si distendono rendendo i rapporti con noi perfino "cordiali".

Ci riaccompagnano poi con un pulmino alla frontiera con l'Austria dicendo che quanto è accaduto risulterà dal passaporto. E' il momento in cui il morale di Frederique tocca il punto più basso poiché pensando ai pochi volantini giunti nelle mani degli ungheresi, le sembra quasi di aver lavorato due mesi per un risultato minimo.

Dopo la frontiera vediamo che sui passaporti non risulta nulla; si è voluto, evidentemente, fare in modo che non risultasse da nulla che si era svolta una manifestazione pacifica e pacifista nella capitale ungherese. Quanto a cancellazione della storia non hanno nulla da imparare da nessun altro regime dittatoriale; anzi forse qualcosa da insegnare alla RAI o ai nostri giornali. Ma molto poco.

 
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