Quattro domande a Giorgio Bocca, Oreste del Buono, Antonio Lombardo, Domenico SettembriniSOMMARIO: Nel corso del 21· Congresso del Partito radicale del 1979 (29, 30, 31 marzo e 1, 2 aprile 1979 - Roma) Marco Pannella riprese uno degli argomenti da tempo messi nel mirino della polemica radicale con la sinistra italiana e in particolare col PCI, il tema di Via Rasella, il significato storico dell'episodio resistenziale, le sue connessioni, soprattutto, col terrorismo contemporaneo. Poco meno di un anno prima, la vicenda Moro aveva lacerato la sinistra, collocando il PCI nell'area della »fermezza mentre il PR (e, con altri accenti e sfumature, il PSI) sceglieva una linea di apertura di »dialogo che consentisse di esperire ogni via utile al salvataggio dello statista; rinunciando pregiudizialmente, comunque, ad ogni atteggiamento di omaggio verso uno Stato che venisse ipocritamente a proclamare le proprie intangibili prerogative proprio nel momento in cui più palesi e dolorosi erano i segni della sua impotenza e della sua crisi morale, politica e storica. Come non rilevare, in questo contesto di d
iscussione, che proprio all'inizio della recente storia comunista, oltreché partigiana e antifascista, si collocava in posizione persino centrale l'episodio di Via Rasella, l'attentato di quel lontano marzo 1944, quando un manipolo di partigiani, facendo saltare una carica di esplosivo nel cuore della vecchia Roma allora occupata dai tedeschi, falcidiava una colonna di SS altoatesine in una trappola micidiale? L'attentato - è noto - scatenava la rappresaglia dei tedeschi, che si abbatté su 335 detenuti di Regina Coeli, politici e comuni, massacrati a raffiche di mitragliatrice nel buio di certe cave di pozzolana abbandonate, lungo la allora campestre Via Ardeatina. L'episodio era, o no, un atto di terrorismo, di violenza, inevitabilmente »matrice del terrorismo e della violenza dilagante di nuovo, quaranta anni dopo, nel Paese?
Pannella fu inequivocabile. Se il terrorismo va denunciato e colpito, insieme al terrorismo di oggi dobbiamo denunciare, come corresponsabile, l'intera storia della violenza di »sinistra . Se Curcio è colpevole, l'azione di Via Rasella configura anche essa una forma, da condannare, di violenza omicida.
»Se barbari e assassini sono i ragazzi dell'azione cattolica - ammoniva Pannella - Curcio che, sulla base dell'iconografia dei S. Gabriele e S. Michele, con il piede schiaccia il demonio e diventa giustiziere contro il drago capitalista (...) allora anche Carla Capponi, la nostra Carla, medaglia d'oro della Resistenza per averla messa a Via Rasella, con Antonello, con Amendola e di altri debbono ricordare quella bomba. Dobbiamo dire che se abbiamo un rapporto di »intimità con la storia fascista, abbiamo (...) lo stesso rapporto con i torturatori peggiori, con i miei compagni Togliatti e Curdo... . La reazione comunista alla polemica fu rabbiosa. »L'Unità , il giorno dopo, titolava il resoconto dall'Università: »La linea Pannella: il PCI è il nemico, Curcio un fratello . La strategia radicale veniva definita globalmente »anticomunista . Preceduto da questo resoconto, quella stessa mattina - 1· aprile Pannella si recava al congresso del PCI. L'indignazione e la rabbia dei congressisti comunisti esplodeva, sca
tenata anche da durissimi attacchi di Amendola e Lama. »Il discorso fascista di Pannella è un'ignominia, qui ci sono le medaglie d'oro di Via Rasella era l'invettiva di Amendola; per Lama, »il partito delle brigate Matteotti, di Sandro Pertini e di Riccardo Lombardi non può confondersi con quello di Pannella . La platea fischiava a lungo il leader radicale apparso in sala vestito di scuro e con il loden blu sulle spalle, quasi un »vampiro o un »Nosferatu , come riportava, tra ostile, sbalordita e ironica, la stampa del giorno dopo.
In questo libro sono stati raccolte, oltre alle trascrizioni dei due interventi congressuali di Marco Pannella, le opinioni di coloro che intervennero nel dibattito su Via Rasella, la violenza e il terrorismo.
("UNA »INUTILE STRAGE ?" - Da via Rasella alle Fosse Ardeatine - a cura di Angiolo Bandinelli e Valter Vecellio - Tullio Pironti Editore, 1982, Napoli)
Tra Sartre e Camus: il dilemma è ancora qui
Quattro domande a Giorgio Bocca, Oreste Del Buono, Antonio Lombardo, Domenico Settembrini
La violenza può essere rivoluzionaria?
Nel corso del suo intervento al 21· congresso radicale Marco Pannella tra le altre cose affermò che il Pci si deve rendere conto che il terrorismo non è un fenomeno che possa essere sconfitto esorcizzandolo, che in buona parte appartiene alla sinistra e nella sinistra affonda radici e ragioni. In questo contesto viene fuori la frase: il Pci continua a assumere ad emblema della Resistenza l'episodio di Via Rasella, contro giovani tedeschi colpevoli solo di indossare una divisa di diverso colore. Succede subito il finimondo: invettive, furori, querele, insulti. Pannella e i radicali - dice l'»Unità - difendono i nazisti e profanano la Resistenza. Ora, a leggere l'intervento nella sua interezza, ci sembra emerga chiaramente come Via Rasella sia stato piuttosto un »pretesto e che la questione essenziale che si voleva porre fosse la questione della violenza e della nonviolenza; sostenendo, tra l'altro, che se ci si vuole far carico del problema »terrorismo occorre anche saperlo superare, rendendosi conto che c
i appartiene. In quest'ambito, Pannella ha parlato anche dei nichilisti, di Dostojevskij, del repubblicano Oberdan... La questione, allora, ci sembra in definitiva diventare: la violenza può essere, se mai lo è stata, rivoluzionaria?
Giorgio Bocca
Io vorrei fare, intanto, questa osservazione: mi pare che Pannella abbia una sua particolare arte nel paragonare le cose che sono imparagonabili. L'episodio di via Rasella non è in alcun modo paragonabile al terrorismo attuale. Via Rasella è un fatto di guerra. C'era un'occupazione nazista. Questi tedeschi, secondo Pannella, erano solamente colpevoli di indossare una divisa. In realtà erano quelli che mandavano milioni di persone nei lager, uccidevano, rastrellavano... Mi pare, dunque, che il paragone non regga, assolutamente. Il discorso sulla violenza, invece, è un altro. Ma anche questo mi pare sia molto astratto. Nel senso che la negazione della violenza così, in linea teorica, astratta, è una negazione astorica. La violenza fa parte dell'uomo, della sua storia. Quindi, va semmai regolata, non negata.
Oreste Del Buono
Purtroppo, quasi tutte le rivoluzioni si verificano attraverso la violenza, e dopo si trasformano in dittature; credo che il comune denominatore tra rivoluzione e dittatura sia proprio nella violenza; nel ``mezzo'', cioè, con cui la rivoluzione si realizza. Però, sono anche d'accordo con ``gli atti di dolorosa necessità''; voglio dire, non che sia d'accordo nel compierli io, se mi fosse data la scelta. Sono d'accordo nel senso che nel giudicare determinati periodi si debba applicare anche il concetto della ``dolorosa necessità''. Questo non significa però, giustificare l'azione in sé e per sé: il bene e il male io continuo a vederli molto distinti. Sono abbastanza manicheo in questo, anche se poi vedo le sfumature... Io credo che l'uccidere sia sempre uccidere. Perciò, la ``dolorosa necessità'' è effettivamente dolorosa. Di ogni atto che si compie, di ogni atto violento, si porta poi la responsabilità. Né ci si può illudere che un ente superiore, una collettività, possa giustificare questo atto, per la cosci
enza del singolo individuo che lo compie. E' un po' pasticciato, forse, un pochino anche presuntuoso... però sono le cose che continuo a sentire, da quand'ero bambino... Tutte le volte che ho compiuto una deroga a queste cose, che sono il non ammazzare (non che io abbia ammazzato qualcuno), tutte le volte dicevo, che ho compiuto una deroga a queste ``regole'', come il non rubare - che so - in prigionia, per fame impellente, agli stessi carcerieri, mi sono sentito in colpa; l'assoluzione che può darmi la comunità a cui appartengo, non mi serve a nulla, in questo. Quindi, si reintroducono un poco dei criteri (almeno questo e quello che vale per me) di obbedienza o meno, di scelta, a seconda di ciò che viene chiesto.
Per quel che riguarda via Rasella, è uno degli episodi che appartiene alla storia degli ``altri''. Perché la mia esperienza, ``fortunata'', è stata quella di prigioniero. Dico esperienza ``fortunata'' di prigioniero perché sono stato catturato prima che avessi la possibilità di combattere; la mia è stata dunque l'esperienza di chi subiva la guerra non quella di chi collaborò, in qualsivoglia modo, a realizzarla. In quanto prigioniero dei tedeschi - ma potevo esser prigioniero degli inglesi, degli americani, in questo senso non c'e molta differenza - ho saputo dopo quello che era successo, e come di fatti appartenenti ad un mondo diverso, esterno al mio di prigioniero. Ho cercato, dopo, per quel che mi è stato possibile, di capire motivi e ragioni. E non avrei senz'altro voluto essere non solo nella parte, ovviamente, degli ostaggi che furono ammazzati, ma neppure in quella di coloro che hanno compiuto l'atto.
Antonio Lombardo
Nel cercare di rispondere a questa questione, tanto per cominciare, direi che c'è un problema di definizione, di analisi linguistica. A seconda di quel che si intende con il termine ``rivoluzionario'', si può dire se la rivoluzione possa essere violenta o no. Nell'uso comune, in Italia, il termine rivoluzionario viene inteso positivamente; quindi, questa domanda finisce con il diventare: la rivoluzione può o no essere progressista; non è un caso che nella iconografia della sinistra per ora siano, comunque, positive; tant'è vero che la violenza veniva accettata se era violenza di massa, mentre veniva rifiutata se era di pochi. Come ho detto, dipende da quel che si intende per rivoluzione. Quella americana, per esempio, fu una rivoluzione ``costituzionale'': le tredici colonie si ribellarono alla monarchia inglese perché quest'ultima non riconosceva agli americani il principio costituzionale, secondo il quale non poteva esserci ``tassazione'' senza che fossero rappresentati nel Parlamento di Londra. La rivoluz
ione bolscevica, invece, fu un colpo di stato, contro un Parlamento che era stato eletto. Dunque, tutt'altra cosa.
Nella storia, poi, la violenza si produce e moltiplica anche attraverso una serie di azioni e reazioni. Possiamo dimenticare che se non ci fosse stata la guerra franco-prussiana del 1870, e poi la prima guerra mondiale, non ci sarebbe stato né il leninismo né il fascismo, e così via?... Se noi leggiamo Chabod, sul clima intellettuale dopo la guerra franco-prussiana, ci rendiamo conto che anche in Italia si diffonde la cultura ``tedesca''; prima, invece, si erano affermate le tendenze (anche se ``ingenue'') positivistiche, più ``liberali'', provenienti anche dai collegamenti che si erano avuti con Gran Bretagna e Francia durante il ``Risorgimento''. Del resto non possiamo spiegarci il fascismo e il nazismo, se non pensiamo che i ``quadri'' di questi partiti erano ufficiali e sottoufficiali che fino a pochi anni prima combattevano. Non possiamo neppure spiegarci la mentalità militarista dei leninisti, se non tenendo conto che c'era stata la guerra mondiale. E' gustoso, a questo proposito, leggere quel che scri
ve Trotsky nella sua ``Storia della rivoluzione russa''. Trotsky racconta che quando Lenin, partito dalla Svizzera per Pietroburgo (ora Leningrado), incitava alla rivoluzione violenta, gli stessi Stalin e Camenev lo avevano preso per pazzo.
Domenico Settembrini
La violenza accompagna l'uomo lungo tutta la sua storia, i cui eventi di maggior risonanza si chiamano appunto guerre e rivoluzioni, vale a dire guerre civili, come appropriatamente le definisce Lenin, che di rivoluzioni indubbiamente se ne intendeva. Di fronte a questa realtà sono possibili gli atteggiamenti più diversi. V'è stato anche chi invece di deplorarla e di cercare di cambiarla ha ritenuto che nella guerra risiedesse la particolare dignità della vicenda umana, per cui se un giorno fosse possibile eliminare totalmente lo scontro armato tra uomini di diversi paesi sarebbe da paventare che alla lunga l'umanità si dissolverebbe nell'ozio e nei vizi privati. Anche se stati d'animo del genere sono tutt'altro che scomparsi, oggi v'è da credere che nessuno avrebbe l'ardire di esplicitarli: l'ecatombe atomica che ci minaccia è un pericolo troppo palpabile e prioritario perché si facciano altre ipotesi.
V'è chi di fronte allo spettacolo quotidiano della violenza pubblica e privata, preso da orrore, si ritrae in un rifiuto radicale dell'impiego della forza, sia quella a servizio dell'oppressione sia quella a servizio della legge per difendere il più debole. E' un atteggiamento che può raggiungere vertici di ascetismo religioso, quando è sincero e non strumentalizzabile per fini di parte (vedi, per esempio il pacifismo dei socialisti italiani, che si rifiutarono di parteggiare per la causa italiana nel 1914-18, per poi salutare entusiasticamente l'avanzata dell'Armata Rossa sotto le mura di Varsavia, nel 1920). E' tuttavia, sempre, un atteggiamento che cela al fondo una buona dose di immaturità infantile e di egoismo inconscio: intanto possono esistere agnelli, in quanto a difendere la loro quiete dall'assalto dei lupi vi sono, pronti al sacrificio, cani altrettanto feroci dei lupi. Ciononostante, ritengo molto civile la legittimazione, a certe condizioni, della obiezione di coscienza, ma con lo spirito di Wi
nston Churchill, che negli anni tremendi in cui l'Inghilterra fronteggiava da sola la barbarie hitleriana, a chi gli chiedeva se non fosse assurdo consentire che alcuni si sottraessero allo sforzo comune in nome dell'obiezione di coscienza, obiettava: ``Lasciamoli perdere, la libertà ci fa obbligo di batterci anche per la loro libertà!''
Il solo atteggiamento coerente e produttivo di fronte alla piaga della violenza è perciò quello che mira a creare istituzioni in grado di ottenere con un impiego regolato e minimo della forza pubblica la limitazione massima dell'erompere della violenza privata. In questo senso lo Stato di diritto della tradizione occidentale rappresenta il capolavoro dello sforzo della belva umana per non soggiacere alla violenza insita nella propria natura e nel suo rapporto con l'ambiente (per sopravvivere bisogna purtroppo uccidere su vastissima scala piante ed animali, la vicinanza di molti dei quali all'uomo è impressionante: questo fatto si erige come un ostacolo non indifferente sulla via del trionfo nelle coscienze del principio della sacralità della vita umana).
Non ha perciò senso chiedersi se la violenza possa essere, o sia mai stata rivoluzionaria. Ogni rivoluzione nel campo dei rapporti sociali è per definizione violenta. Si può anche parlare di rivoluzioni non violente, ma solo per sottolineare che le evoluzioni pacifiche possono essere a volte più produttive di cambiamenti radicali delle rivoluzioni violente. Quando a metro di valutazione delle rivoluzioni si prenda il criterio della riduzione della violenza nel rapporto tra gli uomini, la domanda corretta sarà perciò chiedersi se le rivoluzioni violente abbiano in passato o possano oggi favorire l'affermarsi dello Stato di diritto.
E' chiaro che il giudizio deve essere differenziato, che sarebbe ugualmente aprioristico affermare la positività o la negatività di tutte le rivoluzioni in quanto tali. Ancora più chiaro deve essere pero che una volta instaurato uno Stato di diritto la rivoluzione violenta l'insurrezione armata dei privati contro di esso, comunque motivata, ha per effetto sempre, e inevitabilmente, un ritorno alla barbarie. La difesa incondizionata con tutti i mezzi legittimi dello Stato di diritto dall'assalto rivoluzionario è perciò l'unico atteggiamento coerente di chi si dice sinceramente e consapevolmente nemico della violenza.
Le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari?
Sempre più appare chiaro che si è chiamati ad operare una scelta: quella tra Sartre e Camus. Tra il Sartre che crede nel fine immanente della storia, violenza inclusa, e il Camus che innalza contro i diritti della storia le barriere dei diritti civili. V'è chi si oppone, e oppone un »dipende : lotta di classe, dice, può anche non essere pacifica, la violenza può essere rivoluzionaria. In ciò si ritiene confortato da Seneca: »il tirannicidio non è assassinio . E' quanto a Pannella e ai radicali in definitiva, anche se rudemente, è stato opposto dal Pci per via Rasella. Non si tratta, dicono, di terrorismo perché non si tratta di un gesto »isolato . Ma è sufficiente la rappresentazione leninista, secondo la quale il terrorista diviene rivoluzionario se non è »isolato , se esprime qualcosa di diverso di se stesso, se rappresenta idealmente le masse o piuttosto ha ragione chi sostiene che la violenza è generatrice solo di violenza, che le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari, ne corrompono gli ideali, e
i superstiti sono solo i più abili nel sopravvivere?
Giorgio Bocca
Ripeto: queste distinzioni, sono distinzioni astoriche. Non si può essere nonviolenti, quando la decisione può spettare ad altri. Voglio dire che uno può anche decidere, ad un certo punto, d'essere nonviolento; ma se subisce violenza da parte altrui, poi è costretto a reagire, è costretto all'autodifesa e quindi, in qualche modo, obbligato ad usare violenza lui pure. Mi paiono discussioni astratte. La questione, semmai, da discutere mi sembra se la violenza, nella politica, sia uno strumento più utile, più duraturo, più efficace, della nonviolenza. Su questo, io posso essere d'accordo che in genere tutte le politiche di violenza sono fallite, e non hanno mai lasciato delle eredità valide; mentre queste eredità sono state lasciate dalla politica della nonviolenza.
Oreste Del Buono
Cominciamo dalla ``scelta'' tra Sartre e Camus. Per quel che mi riguarda, allora, in quel momento, Sartre mi appariva quello che poteva aver più ragione, proprio perché mi identificavo in Camus. Non è tortuosità. Io diffido sempre dei miei tentativi di individualismo; cerco di mettermi... di darmi una ``regolata'' rispetto a come agiscono gli altri, coloro di cui non condivido esattamente le ragioni. Però i dati che portava Camus, e la necessità di dire le cose, nonostante l'effetto che potevano avere - l'effetto anche per quella che fino a quel momento era stata la causa di Camus - mi hanno convinto. Quindi, la partenza era quella teorica, di vedere una certa teoria in Sartre. Poi l'approdo è quello di Camus. Camus, tra parentesi, ha avuto un destino particolare, come se la morte gli fosse venuta incontro. Era nel momento di maggiore difficoltà sulla questione algerina; lui è nato in Algeria, aveva dunque delle ragioni per capire le lotte di chi voleva restare, come le lotte di chi voleva espellere quelli c
he c'erano prima. Nello stesso tempo i legami con De Gaulle, un certo coinvolgimento in cariche più o meno governative, lo esponevano in una sorta di crisi di coscienza. In un certo senso, l'incidente di macchina, che ha troncato la sua vita... la morte gli è venuta incontro, e lo ha lasciato come figura pressoché irripetibile.
Per quel che riguarda - diciamo così - Seneca, la questione che la rivoluzione può non essere pacifica, e la violenza possa essere rivoluzionaria, io trovo che buttar giù un tiranno sia una cosa, ma che il tirannicidio, l'assassinio...
Non c'è bisogno di ammazzare nessuno, se c'è una forza, se effettivamente il movimento è di massa, se c'è una convinzione nel popolo. Se si può risparmiare la vita anche del tiranno, è una grande cosa; anche del peggior tiranno. Il peggior tiranno, poi, è giusto che sia processato, sia ``smontato'': non bisogna lasciare al tiranno la possibilità di restare un'eroe della parte ``sbagliata'', e uccidendo si crea sempre un personaggio; si annulla una parte della carica e delle idee, della lotta che si conduce contro questo personaggio. Forse sarà utopistico. Risponde però alle mie aspirazioni. Poi certo, la storia va come va, ma io sono molto contento, orgoglioso, di non aver mai trasgredito, né di essere mai stato complice nella trasgressione delle cose che ritengo uno non possa accettare... Da quelle che possono sembrare le più fragili, che dalla parte avversa vengono prese in giro, come quella della caccia.
Io ho sofferto molto - le piccole sofferenze, naturalmente - da ragazzino; perché, nella grande ammirazione che avevo per mio padre, cacciatore, il più grande desiderio era quello di sostituire, in pratica, il cane. E naturalmente, non ci riuscivo; non riuscivo bene nell'ammazzare, nel finire gli uccelli. Il contatto con la morte l'ho avuto attraverso la morte degli animali, la prima volta. Non è che voglia dipingere una figuretta edificante; però l'ho avuto proprio quando tentavo di imitare il cane; che tra l'altro è un animale che detesto, perché è l'unico che cerca di assomigliare all'uomo nel peggio: è veramente un servitore, per questo...
La questione che poi uno possa essere implicato... si vive in un'epoca abbastanza tumultuosa...
Antonio Lombardo
Indubbiamente ha ragione Popper. Se si vuole andare più a monte e guardare la storia del pensiero filosofico e politico europeo dal 700 ad oggi, noi vediamo - credo che anche Colletti, da quando ha ripreso Kant, si ritrovi in questa storia reinterpretativa - che sino a Kant si concepisce l'uomo come un essere fondamentalmente razionale. La morale di Kant ha questo in comune con la morale classica, cristiana: che l'uomo deve fondare le sue azioni solo sulla sua coscienza personale e sull'analisi della ragione. Ragione e coscienza individuale devono restare la norma dell'uomo; quindi, anche le basi della convivenza, della politica, si ritrovano in fondo nelle idee, nelle radici culturali ed ideali: il soggetto non ha scuse, quando non si comporta in base a quelli che dovrebbero essere i principi di carattere universale, che lui è in grado di conoscere.
Invece, da Hegel in poi (nell'hegelismo di destra soprattutto come nel primo Croce, in Gentile, ecc., ma anche in quello di sinistra Marx e gli altri) ad un certo punto la ragione viene degradata a »potenza , e anche la politica viene degradata come tale. Così, anche qualsiasi fatto sanguinoso viene giustificato con il pretesto: ciò poteva essere necessario per grandi trasformazioni. Questa concezione, naturalmente, non la si trova solo in Lenin e Stalin ma, come dicevo prima, anche negli hegeliani di destra, con la loro adorazione dello Stato: si pensi all'interpretazione della rivoluzione francese. E' davvero curioso come in alcuni libri di storia l'interpretazione gentiliana finisca con il ``coincidere'' con l'interpretazione marxista: la rivoluzione francese è vista come fatto ``unitario'', mentre è vero che con la rivoluzione francese è accaduto quanto più tardi accadrà con la rivoluzione russa. C'è una prima fase ``costituzionalista'', e poi subentra il giacobismo, senza il quale non ci sarebbe stato i
l terrore, la controrivoluzione, il cesarismo napoleonico, ma uno sviluppo di tipo inglese. Nella rivoluzione francese abbiamo, come in quella russa, che le forze giacobine ad un certo punto sopraffanno quelle illuministe. Il divario tra una concezione illuministica (o razionalistica, kantiana, di radice cristiana) da una parte e quest'altra, hegeliana, giacobina, marxiana, è una dicotomia evidente. Quindi Popper, sotto questo profilo, dice quello che già era dicotomia tra illuminismo e kantismo da una parte e queste forme hegeliane dall'altra.
Domenico Settembrini
Ha ragione Camus, e non Sartre; Jerenski, capo purtroppo imbelle della Russia nella sua brevissima stagione democratica quando, a detta del suo avversario ``era il paese più libero del mondo'', e non Lenin. Ed oggi, in Italia, hanno ragione quelli che sostengono che con i terroristi né si tratta, né si dialoga, meno che mai poi in nome della ``non-violenza'', ma li si combatte senza compromessi, almeno finché non abbiano riconosciuto la superiore civiltà dello Stato, rinunciando ad abbatterlo.
Chi legittima la violenza?
C'è chi sostiene che perché non vi sia più violenza, occorre usare la violenza. Alla luce del sole, e in forme di massa, che sarebbe il contrario del terrorismo. Che la violenza andrebbe usata come necessità di liberazione totale e definitiva dalla violenza. Ma ammesso e non concesso che il fine giustifichi i mezzi, invece di qualificarli, al di là del giudizio storico, nel vivo dell'azione, chi mai è autorizzato a stimare e legittimare la violenza, additando il tiranno?
Giorgio Bocca
Per me è molto difficile dare un giudizio. La mia vita testimonia questa ambiguità. Io sono uno che ha fatto il partigiano per venti mesi, e quindi non posso rifiutare, negare, questo mio passato. E' un passato in cui ho creduto. Pensavo fosse giusto, in un paese occupato da un nemico feroce, opporsi con la violenza. Per me, vivo in questa ambiguità: penso vi siano dei momenti in cui occorre essere violenti; altri in cui occorre essere nonviolenti.
Oreste Del Buono
No, non ci credo che in forme di massa il terrorismo non sia più tale. Per me il terrorismo è sempre terrorismo.
Uno può scegliere, stare da una parte o dall'altra, ma il terrorismo non si può mascherare. In questo senso, tra le varie forme di terrorismo, non vedo nessuna differenza.
Nel momento in cui vengono compiute sono sempre azioni terroristiche, che mirano ad ammazzare, alla soppressione della vita umana. Poi, sono giustificate, vengono inquadrate, o magari anche esaltate. Ma allora vanno esaltate tutte: o tutte o nessuna.
La ``dolorosa necessità'' è un altro discorso, che interviene dopo che le vittime ci sono già state. Come trovare la spiegazione alla gente ammazzata ai posti di blocco della polizia per ``errore'': è dolorosa necessità, verrà detto così...
Il terrorismo è entrato nella vita contemporanea, anche in molte manifestazioni apparentemente incruente. Lo trovo anche in quelli che vengono definiti ``omicidi bianchi''; nelle fabbriche, per questioni di lavoro; l'inquinamento, il disagio per le condizioni in cui si lavora, di come tutto questo viene organizzato. Tutto ciò appartiene ad una forma largamente terroristica... Proprio nei giorni in cui cominciava a manifestarsi il terrorismo, in Lombardia prendeva piede un dibattito sulle condizioni di lavoro, gli ``omicidi bianchi''... per questa grande forma di violenza, non si mobilitano le autorità. E poi c'è la violenza che viene esercitata dopo, senza distinguere effettivamente colpevoli da innocenti, attraverso le leggi speciali, la carcerazione preventiva... Una violenza che purtroppo avvia... - sta diventando una mia ossessione - fabbrica delinquenti comuni o terroristi convinti da altri.
Molti, veramente, capitati per caso.
Antonio Lombardo
Secondo me è giustificata un'analisi razionale della realtà, e non una visione puramente ideologica, perché altrimenti in base a una visione qualsiasi del mondo giudichiamo tiranni tutti coloro che non sono d'accordo con noi. Mentre invece esiste un meccanismo politico che è la democrazia, il quale consente ad ognuno di esprimersi, dal momento che in regime democratico a contare non sono le avanguardie illuminate, ma i voti.
Un'azione violenta contro un governo che per lungo tempo, strutturalmente, sia non democratico può anche avere una base di legittimità. Naturalmente in alcuni casi è facile distinguere l'aggressore dall'aggredito. Per esempio, i due fatti fondamentali di questo secolo, indubbiamente, sono stati la rivoluzione di ottobre in Russia, che è stata essenzialmente un »golpe dei leninisti contro la maggioranza socialista e menscevica della Duma, nata dalla rivoluzione di marzo, un »golpe contro un Parlamento. Il secondo evento, altrettanto importante del secolo, è nato nel 1920, in Germania, quando l'allora cancelliere socialista fece stroncare con le armi il »golpe tentato dagli spartachisti contro il Parlamento di allora. Ecco, a me pare che finché sussistono le condizioni per una democrazia, cioè finché si vota e finché c'è un governo che è il risultato di una coalizione di partiti eletti liberamente, sia razionale che questo governo si difenda da un'insurrezione armata; trovo che sia perfettamente legittimo.
Se invece gli elementi di democrazia non sussistono più, coloro che vogliono abolire questo carattere antidemocratico del sistema mi pare che potrebbero avere dalla loro parte degli elementi di ragione.
Domenico Settembrini
Che si possa eliminare del tutto la violenza dai rapporti umani, ricorrendo ad ultimo al bagno di sangue, è un'illusione tragica che ha prodotto in Russia lo Stato più arbitrario e violento di tutta la storia umana. E' invece vero, purtroppo, che non si può contenere la violenza senza il ricorso alla forza, quella legittima dello Stato.
Via Rasella: »atto di guerra terroristico ?
Concludendo, e tornando a via Rasella, Pannella ha definito quell'episodio »atto di guerra terroristico , perché chi se ne rese responsabile sapeva perfettamente che se saltavano 40 nemici la legge di guerra, proclamata da loro, prevedeva per rappresaglia l'uccisione di 400 innocenti. Ha tuttavia definito, questo, un episodio di dolorosa necessità. Lei è d'accordo?
Giorgio Bocca
Io ho scritto un libro sulla storia dell'Italia partigiana, nel quale non solo difendo gli autori dell'attentato ma dico che storicamente, politicamente, era necessario.
Necessario perché Roma, in quel periodo, era una città ``aperta''; per ragioni di politica del Pontefice, del Vaticano, degli Alleati, veniva esclusa dalla guerra partigiana; in questo, con il beneplacito di Togliatti che si rifiutò di mandare l'ordine di insurrezione generale per Roma. Le formazioni comuniste, infatti, furono sorprese dall'arrivo degli anglo-americani, praticamente non ci fu insurrezione, a Roma. Allora, in una situazione come questa, mi pareva fosse giusto che dei gruppi, delle avanguardie partigiane in lotta cercassero di coinvolgere la città capitale del paese in una lotta che era la lotta di tutto il Paese. Questo privilegio di Roma di rimanere fuori dalla guerra, mi sembrava un privilegio un po' immorale.
Quindi, giustificavo da un punto di vista storico l'episodio di via Rasella: perché non avendo la possibilità di fare una guerriglia urbana, ed essendo le formazioni molto piccole con quell'atto, chiamiamolo pure ``terroristico'', si era cercato di far capire all'intero paese, e al mondo, che anche a Roma si combatteva contro i tedeschi.
Oreste Del Buono
La legge di guerra applicata dai tedeschi era pressappoco quella prevista nel codice militare piemontese, e che fu applicata nella ``pacificazione'' per il Meridione. Questo me lo ha detto un comandante partigiano; che mi disse che la legge era la stessa. Quindi, in quanti parteciparono all'azione, da una parte e dall'altra, questo era ben chiaro. I militari sapevano. Non so se questa legge ci sia ancora, ma dal momento che non hanno abolito nulla, anzi hanno potenziato...
Sono d'accordo nel fatto che quando si va ad esaminare un periodo che occorra vedere, dal momento che non si può perseguire un'ideale di perpetua vendetta... Quando si dice: siamo in guerra... Le prime volte, quando arrivavano a ``Linus'' delle lettere di ragazzi che scrivevano ``Siamo in guerra'', devo dire la verità non le ho pubblicate; mi pareva che, rispetto a tutto quello che scrivevano i giornali ``seri'', fosse una cosa irriverente. Poi l'ho sentito dire dalle maggiori autorità. Ecco, ci sono dei periodi in cui si dice: siamo in guerra. Poi però bisogna che la guerra finisca, se si vuole costruire quel paese di pace, di benessere e di tutte quelle cose che si raccontano fin dalla più tenera infanzia...
Questo della ``dolorosa necessità'' è importante che possa essere un criterio di clemenza, quando i fatti sono avvenuti; non nel corso del fatto. Non si può dire: io adesso compio un gesto di ``dolorosa necessità''. Perché vuol dire che allora, in quel momento, uno si rende conto di tutte le implicazioni che questo comporta. Non ci si può pentire prima: se no, si fa il favore di non compiere l'atto.
Forse sembrerà rozzo tutto ciò. Deriva da molte contraddizioni interne, mie e della gente a cui sono legato. Di tutto lo scandalo che ha suscitato l'intervento di Pannella... l'ho ascoltato, non mi sono fidato degli estratti riportati sui giornali, perché erano estratti che partivano anche dalla descrizione di come era vestito allora Pannella, e quindi cose che appartengono alla cronaca giornalistica, e noi tutti sappiamo che la cronaca giornalistica, per usare un eufemismo, è piuttosto ``latente''... Ho sentito attraverso la ``Radio Radicale'' l'intervento di Pannella, e corrispondeva a buona parte di cose che avevo sentito, nel riflettere su questo episodio che non avevo vissuto in alcun modo. Su quell'episodio non sono mai andato d'accordo sul fatto che chi l'aveva compiuto si sia sentito talmente indispensabile al proseguimento della vita nazionale, da non presentarsi. Questo lo dico perché avrebbe potuto, per ordini, per fedeltà, compierlo anche uno come me. Ora mi appare impossibile, però... Ia parte d
i responsabilità uno se la assume.
Sono nipote di una medaglia d'oro, morto a Malta, con i mezzi d'assalto. E' morto, proprio, perché vedeva quello per cui era vissuto cadere. Sono molto affezionato alla sua memoria, come uomo; però mi sono spesso chiesto perché nel momento in cui sacrificava la sua vita, non abbia pensato a salvare quella del suo secondo, un uomo credo con moglie, con dei figli... Penso che questi lo avrà voluto seguire nel suo gesto. Me lo auguro, ne sono convinto perché non riesco a capire come uno possa assumersi la responsabilità di trascinare al sacrificio anche altri. Io sono andato in guerra quando ormai la guerra era finita. Non ero antifascista, perché non ho avuto questa precocità. Ero semplicemente a-fascista, come molti ragazzi italiani in quel periodo; per stanchezza di determinate cose. Ci sono andato quando potevo imboscarmi perché provavo vergogna, veramente, a restare a casa... E' finita, però, senza il bisogno del mio concorso disfattista...
Antonio Lombardo
Indubbiamente, dal punto di vista nonviolento, qualunque atto violento dovrebbe esserlo. Io che non sono un teorico della nonviolenza, un seguace, constato semplicemente che quando è in corso una guerra durissima, evidentemente questi fatti avvengono; avvengono proprio perché rientrato in una sorta di spirale, in omaggio alla quale si può anche volere una strage di innocenti e una rappresaglia può essere calcolata, prevista a tavolino, appunto per suscitare delle reazioni che producano poi delle adesioni al movimento di resistenza. Naturalmente noi, oggi, nel mondo moderno, abbiamo ben altri casi: innanzi tutto dei veri e propri genocidi: si pensi alla Cambogia, all'Afghanistan... Poi c'è il terrorismo, il brigatismo, che sono indubbiamente una sezione della storia del comunismo italiano... appartengono alla tradizione dei Secchia...
Gli stessi comunisti a volte lo ammettono. In un fascicolo di »Rinascita del gennaio '81, si può leggere quanto segue: il numero dei detenuti condannati o imputati per reati connessi al terrorismo di sinistra è diventato tale da porre di per sé il problema della democrazia italiana... ormai abbiamo a che fare con un segmento delle nuove generazioni italiane... e così via. Quindi, non è che loro non lo ammettano mai. Solo che è una cosa imbarazzante. Questo segmento non si sa che potenzialità abbia, e così via. Ecco dunque che preferiscono esorcizzare il problema, come diceva Lama nei 55 giorni del rapimento Moro, per il quale non ci sono in Italia detenuti politici, ci sono solo criminali comuni.
Questo atteggiamento preclude anche a favore stesso del Pci una comprensione seria del fenomeno. Il terrorismo è figlio della cultura della violenza; è, appunto, la punta dell'iceberg della »giustificazione . Quando si dice: anche in Vietnam ammazzano la gente che fugge, si obietta che in fondo è ceto medio, persone che fuggivano. Oppure: non si può fare la rivoluzione senza rompere le uova. Ora, evidentemente, finché c'è questa mentalità diffusa tutte le perplessità sono lecite.
Domenico Settembrini
E' chiaro che quando il proprio Stato o uno Stato invasore, invece di mirare alla limitazione della violenza, ha come scopo dichiarato di sterminare qualsiasi opposizione e intere etnie, il ricorso alla violenza per distruggerlo è legittimo, nel senso che è l'unico modo attraverso il quale si può restaurare il regno della legge e dell'umanità. Dire che è legittimo, non significa tuttavia dire che qualunque impiego della violenza sia sempre giusto e opportuno. Dell'episodio di via Rasella si potrebbe, mi sembra, discutere semmai l'opportunità, non la legittimità.
Definendolo un episodio ``di dolorosa necessità'', Pannella sembra peraltro riconoscerne anche l'opportunità. Sicché il suo riferimento a via Rasella è stato veramente solo un pretesto. Resta tuttavia un mistero come individui e forze che si richiamano ai valori della Resistenza possano non riconoscere nei terroristi di oggi gli eredi del nazismo, e negare allo Stato il diritto di difendersi con tutti i mezzi ``dolorosamente necessari'' per prevenire il pericolo che il terrorismo possa di nuovo farsi Stato.
("QR n. 11-12")