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Sciascia Leonardo - 24 luglio 1982
Il suicidio di Roberto Calvi
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: La mafia non ha avuto nessun rapporto con la morte di Roberto Calvi. A partire da questa tesi, l'autore analizza gli elementi che portano a suffragare l'ipotesi del suicidio contro quella dell'assassinio.

(Il Globo del 24 luglio 1982)

Una delle cose più sensate e più chiare che siano state dette in questi giorni su mafia e finanza è la nota di Pino Arlacchi su La Repubblica del 10 luglio, appunto intitolata: "Nuova mafia e grande finanza." Partendo da questa nota, si può formulare l'attendibilissima ipotesi che dal Sessantotto in poi (perché non dare anche alla "nuova mafia" questo dato anagrafico?) la mafia si è trovata ad avere più denaro che idee sul che farne. Dice Arlacchi: "La rapidità con cui i capitali mafiosi sono stati accumulati ha impedito finora una loro massiccia trasformazione in beni d'investimento. Essi si trovano ancora in buona parte in "forma liquida" e richiedono - per essere convenientemente amministrati - la mobilitazione di competenze finanziarie di ordine molto elevato." Insomma: la mafia in sé, internamente, era impreparata a gestirli; e nel sistema americano non poteva ottenere collaborazioni o complicità di ordine molto elevato. Fu costretta dunque a servirsi di sistemi finanziari e bancari più aperti e meno co

ntrollati, e che sembravano in incremento, in ascesa, appunto per la loro incontrollata mobilità. E qui è il caso di dire che cascò l'asino, L'illusorio processo d'incremento di sistemi siffatti ha analogia con la storiella della contadinotta che porta la ricotta al mercato e per strada va fantasticando di quel che ricaverà dalla ricotta, e di quel che dal ricavato ricaverà, e così via, progredendo di ricavato in ricavato fino alla ricchezza e alla potenza: alla quale potenza inchinandosi, così come gli altri si sarebbero a lei inchinati, la ricotta le cascò dalla testa su cui in bilico la portava. Ma l'analogia ha senso se diciamo che nei sistemi di cui parliamo o la ricotta non c'era o da un pezzo era cascata: e senza che nessuno se ne accorgesse o volesse accorgersene.

Non ho in materia nessuna competenza ed esprimo soltanto delle impressioni: ma sistemi simili, in un paese come il nostro e anche, è da credere, in qualche paese sudamericano, sono escogitati da persone di squallida mediocrità e che, favorite ai primi colpi dalla fortuna, riescono a credere e a far credere di aver genio e competenza: e tutto invece si riduce a momenti di fantasia non dissimili da quello della contadinotta che portava la ricotta al mercato - solo che loro continuano imperterriti anche quando la ricotta non c'è più.

E direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l'intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone, la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D'Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo d'imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l'imbecillità appare - e in un certo senso e fino a un certo punto è - fantasia. in una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica e mansione di "impiegati d'ordine"; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati - non resistendo alla competizione con gli int

elligenti - come poveri "cavalieri d'industria"; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.

Incapace d'inventare un proprio sistema d'investimenti e impossibilità a trovarne uno più affidabile, più sicuro, la mafia non ha potuto che rivolgersi a quelli del basso rischio e dell'alto profitto, che del resto le erano congeniali e si potrebbe anche dire fatti a sua immagine e somiglianza. E s'intende che uso la parola "mafia" nel senso di una confederazione di associazioni criminali non più definibile - dall'esterno - come definibile era la vecchia mafia e cioè secondo i suoi interessi, i suoi bersagli, l'estrazione delle persone che vi si affiliavano. Oggi tutte le associazioni criminali, in ogni parte del mondo, hanno interessi disparati, occulte e contraddittorie intrusioni, appaiono amorfe e in amorfo processo di aggregazione. Un processo di aggregazione irreversibile: soltanto reversibile, cioè, nella pace mondiale, nell'operosa e vigile collaborazione degli stati, dei popoli.

Il modello - insuperato - ne è la vecchia mafia siciliana; ma nel fatto organizzativo, non in quella che è venuta in moda di chiamare "cultura" e che si può convenire fosse una visione della vita, un modo di essere. Chi oggi primeggia in una associazione criminale avrà pochi punti di somiglianza con uomini come don vito Cascio-Ferro e don Calogero Vizzini. E con ciò non s'intende riconoscere "nobiltà" alla vecchia mafia (la minore quantità di omicidi e la minore efferatezza nel commetterli non si iscrivono certamente nella "nobiltà"), ma soltanto dire che era diversa.

Ma non è della mafia che voglio ora parlare. Di Calvi, della sua morte. E non escludo, e posso anzi senz'altro ammettere, che capitali mafiosi siano entrati nel suo sistema e siano stati avventurosamente dilapidati: ma al contrario di quel che dice Arlacchi a conclusione della sua nota ("Il non rispetto delle promesse di bassi rischi ed alti profitti, ed ogni altra essenziale infrazione delle regole del gioco, non si risolve - presso questi ambienti - davanti ad un tribunale, ma sotto le arcate di un ponte londinese"), io credo che la mafia non ha avuto niente a che fare con la morte di Calvi. E' un caso che appare complicatissimo: ma ho avuto fin dal principio l'impressione che lo fosse al modo del berretto di Charles Bovary. Flaubert lo descrive per mezza pagina, ma ad un certo punto, come rendendosi conto della "indescrivibilità" dell'oggetto, si ferma ad assomigliarlo alla faccia di un imbecille. Del resto - e giustamente - l'imbecillità e gli imbecilli sono apparsi sempre, a Gustave Flaubert, maledetta

mente complicati. L'intelligenza - che come Poe ci insegna è meno mente matematica e più mente poetica - è semplice e semplifica: come appunto nel racconto della lettera rubata, in cui il ministro (che è matematico, ma soprattutto poeta) escogita la semplice e grande trovata dell'invisibilità per eccesso di visibilità; e l'investigatore (che è poeta con cognizioni matematiche: come Edgar A. Poe) facilmente, per semplice intuizione, lo scopre. Insomma: il caso Calvi, più che sotto il segno di una potente e onnipresente associazione criminale, mi è subito apparso sotto il segno dell'imbecillità. Macabra quanto si vuole, ma imbecillità. E posso anzi dire che appena saputo della scomparsa, prima che arrivasse la notizia della morte, su Il Secolo XIX di domenica 13 giugno, concludevo una mia breve nota con la considerazione, che al momento poteva apparire inconsulta, di quanto fragile fosse la personalità di Calvi, in contraddizione al fatto che si era trovato a capo di una banca di così spericolate e rischiose o

perazioni. Mi era apparso subito chiaro, dunque, che il mistero della sparizione di Calvi fosse da spiegare attraverso Calvi, attraverso la sua fragilità mentale e psichica. E in ciò Calvi poteva non apparire esemplare unico: Virgillito, Giuffrè e Sindona non erano da meno; e uguale tempra credo si riveleranno coloro che, esaltati dallo stesso contesto di corruzione, si troveranno domani ad esserne ingoiati.

Di questa mia convinzione - che è stato proprio Calvi a complicare il caso Calvi e che, in definitiva, nessuno vi abbia concorso se non nella presunzione di aiutarlo a fuggire - ho parlato a Michele Tito, a Moravia e a Siciliano, ed altri amici. E debbo confessare che ho avuto una certa remora a scriverne. Sono stanco di essere frainteso, di essere accusato di "alleanze oggettive" con questi o con quelli: che a fraintendermi e ad accusarmi siano degli imbecilli o dei maligni. Ed è il caso di dire, qui ed ora, che questa trovata delle "alleanze oggettive" mosse in accusa a chi difende certi diritti civili che si vogliono dimenticare o a chi discorda da opinioni che si vogliono totalitarie, è uno dei ricatti che più pesa nella vita italiana, che di ricatti non si può dire povera. E debbo aggiungere che mi ha quasi spaventato il discredito gettato sulla polizia inglese da parte degli organi d'informazione italiani: subito, appena si è capito che a Londra la tesi sembrava la più probabile. E non sarà, la polizia

inglese, quella dell'ottantesimo distretto di Ed McBain, ma un certo credito mi pare che l'avesse anche in Italia, prima che mostrasse di credere che Calvi si era suicidato.

Da quel momento, è diventata una delle polizie più inefficienti e confusionarie del mondo; senza dire dei sospetti di corruzione di cui si è cominciato a gravarla. calvi era stato ammazzato: e basta.. Chi osava mettere in discussione una simile certezza era un "alleato oggettivo", e magari "soggettivo", della mafia, della massoneria, della mafia-massoneria... E qui credo che insorgesse l'indecisione: di chi proclamare alleati coloro che pensavano Calvi si fosse suicidato? In Inghilterra, si sa, la massoneria è piuttosto forte; ma non pare abbia apprezzabili precedenti criminali. Però insinuare qualcosa su quella forza, alludere alla simbologia dei mattoni che Calvi aveva in tasca, ad ogni buon conto si poteva...

Che Calvi sia stato giudicato psicologicamente fragile da un collegio di periti non mi pare sia una ragione per credere il contrario. Lo era. E lo era anche da prima che, l'estate scorsa, un mandato di cattura dismagliasse la sua sicurezza. Si credeva potente, sicuro, intoccabile; e questa immagine di sé riusciva a dare a coloro che lo circondavano, adoranti o timorosi. Ma un mandato di cattura e qualche giorno di carcere erano bastati a precipitarlo nella disperazione: il che vuol dire che dentro non era così sicuro di sé come appariva e come era stato creduto. Non si volle credere che davvero, nel carcere di Lodi, avesse voluto darsi la morte: ma soltanto sulla base del fatto che non riuscì a darsela.

Non voglio scrivere un libro su Calvi, né suggerire ad altri di scriverlo (anche se ci vorrebbe): ma basta metterselo di fronte come personaggio, e con quel tanto di pietà che l'operazione comporta, perché i fatti trovino, per così dire, l'ordine del suo disordine. Che trova specchio, se appena vi si fa attenzione, nello sconvolgimento mentale e nel suicidio (indubitabile) della sua segretaria.

Nel momento in cui Calvi scopre che in Italia, se non la legge in assoluto, ci sono dei magistrati che l'amministrano e che possono amministrarla contro di lui, annientandolo, ecco che cade in un vero e proprio processo schizofrenico,: l'uomo di gelida scaltrezza che credeva di essere (ed era creduto) che vuole salvare l'uomo fragile e vacillante che era diventato. Uscito dal carcere di Lodi, tornato alla presidenza del Banco, parla soltanto per ritrattare una dichiarazione fatta in carcere e che - dice - gli era stata suggerita, e in un momento di particolare fragilità aveva accettato di fare, a pegno di ottenere la libertà: per il resto tace, ma nutrendo nella sua schizofrenia il proposito di pagare, di pagare, di pagare tutti; e forse anche quello - stando all'attentato a Rosone e alle dichiarazioni di Rosone - di eliminare fisicamente qualcuno.

Ma non ce la fa. Si accorge anzi, ad un certo punto, di trovarsi in un vicolo cieco. E cioè di trovarsi sul punto che un altro mandato di cattura incombe su di lui: e non per i garbugli finanziari, ma come mandante nel tentato omicidio del direttore generale del Banco, quel Rosone che prima lo credeva un dio e ora lo considera un pover'uomo impazzito per il potere, bugiardo, imbroglione e imbrogliato, rovina di un'istituzione prima solida e onesta. Ma anche Calvi, bisogna dire, riteneva di essere a capo di un'istituzione solida e onesta.

Non si capisce nulla, del suo comportamento, del suo stravolgimento, se non si tiene conto dell'immagine - appunto solida e onesta - che Calvi aveva del Banco e che trasmetteva ai suoi collaboratori, Rosone compreso e, al massimo grado, la sua segretaria. Il ragioniere lombardo che si era fatto da sé (e tutti gli uomini che in Italia si fanno da sé è evidente che si fanno piuttosto male) viveva nella corruzione patria come ogni essere vivente nella propria pelle.

E qui vien fatto di ricordare quel saggio di Henner Hess sulla mafia: con quella semplice ed essenziale scoperta che il mafioso non sa di essere mafioso nella nozione che "esternamente" si ha della mafia; è un buon cittadino di uno stato che "esternamente" viene denominato mafia e considerato eslege. Così Calvi si considerava un buon cittadino del sistema di corruzione che conosceva, accettava e incrementava. Il che vale a dire che ci sono responsabilità d'ordine generale, non soltanto sue.

Calvi aveva terribile paura del carcere. Molti ce l'hanno, e fino alla follia. Tenendo d'occhio le date, si può capire perché intorno ai primi di giugno la paura gli si ingigantisse, la follia gli esplodesse. Venerdì 18 giugno , Rosone è chiamato dal giudice che indaga sull'attentato da lui subito nell'aprile. Dalle domande, Rosone si fa chiarissima l'idea che è stato Calvi a dare mandato ad Abbruciati di ammazzarlo o di ferirlo ammonitoriamente. Per come vanno le cose nei nostri uffici giudiziari in quanto a lentezza e non segretezza, è mai possibile che Calvi non sappia - al momento in cui decide di scomparire - che non ci vorrà molto a che lo arrestino come mandante? Escogita dunque una forma di suicidio che appaia omicidio non solo, ma che lo faccia apparire vittima di un intrigo complesso ed oscuro, in cui malversazioni finanziarie e mandato d'omicidio appaiono mossi da forze potenti e nascoste. Una forma di suicidio complicatissima (il berretto di Charles Bovary); e che voleva forse essere anche vendic

ativa.

Ma accettiamo per un momento l'ipotesi che Calvi sia stato ammazzato, teniamone la dimostrazione per assurdo. E magari, per agevolare la dimostrazione, facendo a meno del movente: che è sempre essenziale, ma è da credere sia in questo caso introvabile (dire che Calvi non ha mantenuto certe promesse ed è stato punito, è quanto di più vago e di inconsistente si possa immaginare). Diciamo dunque che c'è un'organizzazione criminale che vuole Calvi morto. Ma siamo di fronte ad un dilemma: lo vuole morto esemplarmente, in modo che se non tutti almeno gli associati più vacillanti capiscano il perché e il da chi dell'esecuzione o lo vuole morto in modo da far credere a un suicidio? Dilemma insolubile. E bisogna, per continuare a credere nell'omicidio, lasciarlo da canto insoluto. E lasciamolo. Poniamoci ora questa domanda: quali sono, al momento in cui Calvi decide di scomparire, i suoi rapporti con questa associazione? Se ne fida o la teme? Se la teme, l'elementare precauzione sarebbe quella di fare in modo di non

essere, di fronte a lei, solo e indifeso; se invece se ne fida, bisogna ammettere che alvi aveva una sola preoccupazione: quella di fuggire dalla giustizia italiana.

Si può, naturalmente, fare una terza ipotesi: che non se ne fidasse né la temesse, che ne ignorasse l'intenzione e che non ne tenesse conto nel suo piano di fuga. Ma è possibile? Se conosceva l'esistenza di una simile associazione - e ancora di più se ne era parte - e se sapeva di essere di fronte a lei in torto o in debito, non poteva non valutare la possibilità che gliene venisse qualche impedimento o deviazione nel piano di fuga.

A meno che non si voglia attribuire a questa associazione tutto quel che succede a Calvi dalla sera del 10 giugno all'impiccagione sotto il ponte di Londra: e cioè cattura nel suo appartamento romano, rasatura di baffi, viaggio da Roma in Austria, dall'Austria in Inghilterra. Ma non pare si possa: e perché tutto lascia credere che Calvi se ne sia andato da Roma senza costrizione; e perché se si volesse credere il contrario bisognerebbe ammettere che coloro che l'hanno aiutato nella fuga sono stati complici volontari, o addirittura più o meno diretti esecutori del suo assassinio. Ma ciò non è nemmeno sospettabile: coloro che lo aiutano nella fuga dall'Italia e fino all'arrivo a Londra operano evidentemente nella convinzione di non commettere reato di fronte alla legge italiana (non gravando su Calvi un mandato di cattura) e nella sicurezza che la fuga non finirà nella morte, o per assassinio o per suicidio, sotto un ponte di Londra. Tant'è vero che lo aiutano in un modo scoperto, e comunque in un modo che ci

vuole poco - da parte della polizia - a scoprirlo.

Di questa catena di ipotesi e domande, l'anello più saldo (ma sempre nell'avvertimento che è il primo quello che non tiene) potrebbe essere questo: Calvi disponeva di due distinte linee di amicizie: una di cui servirsi per l'espatrio, diciamo clandestino, fino a Londra; l'altra cui consegnarsi, una volta a Londra, per una più stabile e sicura sparizione. Una sparizione alla Gelli, insomma. Senonché proprio tra questi amici gli si preparava la morte. E qui insorge un altro problema. Nella presunzione (del tutto ovvia in coloro che sostengono la tesi dell'omicidio) che il Calvi morto ammazzato sia stato più compos sui di quanto non sarebbe stato il Calvi suicida, com'è che poteva così ciecamente fidarsi di persone (o di un'organizzazione) che avevano delle ragioni per volerlo morto? Poteva, ignaro, non averne paura; ma fidarsi a che lo mettessero in salvo era un po' troppo.

Ho detto: avevano delle ragioni per volerlo morto. Ma aquì està el busillis: quali erano queste ragioni? La più evidente a coloro che sostengono che Calvi sia stato assassinato sembra essere questa: che Calvi aveva dilapidato i capitali che loro gli avevano affidato. A questo punto, la necessità di trovare un movente, che avevamo messa fuori dalla porta, ci rientra dalla finestra: e non è un movente attendibile. Calvi non era ancora un uomo insolvibile; e da un Calvi vivo c'era più speranza di recuperare, magari parzialmente, quei capitali che sarebbero diventati sicuramente irrecuperabili con la sua morte. E si può anche addurre un precedente.

Nessuno si è chiesto, mi pare, perché Sindona sia stato fatto scomparire e portato rischiosamente in giro per il mondo per un certo tempo: quasi si fosse trattato di un capriccio o di uno svago turistico suo e dei suoi accompagnatori (la storia della preparazione di un movimento separatista in Sicilia è una fantasia cui magari può credere qualche giornalista o qualche membro della commissione parlamentare; ma certamente non ci credevano Sindona e i suoi compagni di viaggio). C'è una sola, possibile e probabile ragione da attribuire a quel peregrinare: che si volesse costringere Sindona a tirar fuori del denaro dai buchi in cui si credeva o si sapeva che lo avesse nascosto. Che si sia o no ottenuto tanto, non possiamo dire: certo è che finito il viaggio, Sindona è stato abbandonato dai custodi al suo destino.

Il solo movente serio che si può immaginare per l'uccisione di Calvi è, da parte di una associazione per delinquere di stampo mafioso, quello di una punizione per un tradimento perpetrato attraverso rivelazioni di segreti che potevano compromettere la sicurezza di essa associazione. Ma Calvi non ha fatto rivelazioni di tal natura. La sola rivelazione che ha fatto - e poi ritrattato - riguardava dei miliardi prestati al Partito Socialista. E non si vede perché una rivelazione simile, anche se veritiera, dovesse far scandalo, dal momento che non ne facevano altri miliardi, certamente a quanto pare, dati al giornale Paese Sera.

La cosa più interessante che mi sia capitata di leggere sul caso Calvi l'ha scritta Lietta Tornabuoni (La Stampa, 24 giugno). Ha sottilmente intuito che la morte di Calvi fosse da mettere sotto il segno della cattiva letteratura: e ha iniziato la sua ricognizione londinese intervistando Penelope Wallace, figlia di Edgar. Dice Penelope: "L'unica cosa che fa di questa storia un brutto thriller è il suicidio finale: un romanzo che si conclude con il suicidio è un cattivo giallo, un imbroglio ai danni del lettore. Adesso lei mi dice che in Italia molti sono convinti che sia stato un assassinio: allora sì che è un bel giallo, allora Edgar Wallace l'aveva già scritto." Il giallo di Wallace s'intitola "L'uomo sinistro": "Racconta di un banchiere che viene trovato impiccato e considerato suicida, che in realtà è stato ucciso." Perfetto. Solo che noi, non avendo alcun legame di sentimento verso Edgar Wallace ed avendo soltanto quello di lontani lettori, diciamo che è un brutto thriller quello del suicidio, ma sarebbe

un cattivo giallo quello - ad imitazione di Wallace - dell'omicidio. Wallace, che fu considerato un fenomeno e quasi un genio, era un pessimo scrittore di gialli. Complicato, macchinoso; e noioso (provatevi a leggerlo o, ancor peggio, a rileggerlo).

Far richiamo ai suoi libri per il caso Calvi va dunque benissimo. Suicidio o omicidio che sia stato, il caso ha la gratuita complessità e la non ingegnosa macchinosità di un racconto di Wallace. Non pare, dunque, ci siano nemmeno ragioni diciamo estetiche per preferire la tesi dell'omicidio a quella del suicidio. Ce ne sono invece - come si può dedurre da certe dichiarazioni - di politiche: ma sarebbe spudorato e pericoloso il farle prevalere sulla verità. Quando uomini politici italiani, con un candore degno di migliore causa e caso, dicono di aver spiegato a uomini politici inglesi che quello di Calvi è un "caso politico", fierissime preoccupazioni ci assalgono.

Per gli inglesi il caso non può e non deve essere "politico", deve essere soltanto poliziesco. Una pressione a che gli inglesi scelgano il bel giallo dell'omicidio invece che il cattivo thriller del suicidio, gli organi di informazione italiani effettualmente la fanno: che se ne rendano conto o no. Ma sarebbe imperdonabile che lo spiegare agli uomini politici inglesi, da parte di uomini politici italiani, che "il caso è politico" si prefiggesse lo stesso fine. A meno che, con le spiegazioni, non si forniscano anche delle prove che indubitabilmente portino a concludere che Calvi è stato ammazzato; ma non pare che gli inglesi ne abbiano finora avute. E valga questa dichiarazione dell'investigatore Tarbun all'inviato di un giornale italiano: "Di spiegazioni contrastanti se ne sono dette e scritte tante. Ma è stata la stampa in Italia, con la televisione, a raccogliere semplici voci come se fosse vangelo. Noi non possiamo permetterci di procedere così. E dall'inizio alla fine abbiamo ripetuto sempre la stessa co

sa: fino a questo momento non c'è nessuna prova seria, nessun dato oggettivo per suggerire una ipotesi diversa da quella che Calvi si sia suicidato. Se in Italia ci sono dei fatti reali che mi possono indurre a indagare su piste diverse da quella del suicidio, anche adesso le assicuro che lo farò. Ma dal vostro paese non è venuto nessuno coi fatti concreti a dirci: sappiamo questo e quello, e adesso indagate di più..." Questa dichiarazione è del 15 luglio. Ieri c'è stata l'udienza pubblica e la sentenza del coroner. Investigatori e coroner non si sono convinti nel frattempo che Calvi è stato ammazzato. Ma forse continueranno a dire, testardamente, che Calvi si è suicidato.

Gli indizi che si crede favoriscano la tesi dell'omicidio, si riducono in effetti a questi: che a un uomo dell'età di Calvi sarebbe stato difficile raggiungere il luogo in cui è stato trovato impiccato; che l'ora data dai periti come quella del decesso non era tarda e che qualcuno avrebbe dovuto vederlo; che Calvi non sapeva fare il nodo alla marinara; che la sua giacca era abbottonata non in giusta corrispondenza alle asole, come diceva Borgese dei versi di D'Annunzio.

Riguardo al primo punto: la difficoltà non è impossibilità; e una tensione nervosa quale quella di un uomo che ha volontà suicida fa superare difficoltà anche più grandi. Al secondo: il posto è, a quanto tutti dicono, piuttosto eccentrico: può darsi benissimo non vi sia passato, in quei minuti, nessuno; o che chi vi è passato tirasse via, indaffarato o distratto; al terzo: che di nessuno di noi, familiari o strettissimi amici credo siano in grado di asserire se sappiamo o no fare il nodo alla marinara. E al quarto: che un uomo che sta per darsi alla morte non è nello stato d'animo di uno che sta per entrare in un salotto e che verifica se sta a posto con l'abbottonatura. Assolutamente reversibile, anzi, quest'ultimo indizio. Senza dire che lo è anche il primo: poiché ammettere che Calvi sia stato ucciso in un posto e poi trasportato al ponte presuppone difficoltà e rischi di esser visti maggiori di quelli che Calvi da solo ha affrontato.

Si potrebbe continuare. Ma quel che urge è questa domanda: perché in Italia si vuole il bel giallo invece che il cattivo thriller?

Inquietante, molto inquietante domanda.

 
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