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Sciascia Leonardo - 19 settembre 1982
Mafia: così è (anche se non vi pare)
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: Lo infastidisce esere ritenuto un esperto di mafia, e gli spiace dover rilasciare tante interviste in merito. Così, " a una decina di giorni dall'assassinio del generale dalla Chiesa", dopo aver rilasciato una gran quantità di interviste, non sa se Bocca abbia ragione o meno di essere irritato con lui per dichiarazioni che egli avrebbe rilasciato, ma che non può controllare se siano state riferite esattamente dal giornalista. Bocca gli rimprovera di avere della mafia "un'immagine indefinibile, cangiante, misterica, raffinatissima". Sciascia rivendica solo l'aggettivo "cangiante, e ricorda quanto ebbe a scrivere "più di vent'anni fa"; oggi bisogna constatare che, "in fatto di droga, la mafia non è più intermediaria, ma produttrice", un fatto di cui Bocca non si è accorto. Bocca gli rimprovera anche di aver sostenuto che Dalla Chiesa andava in giro "senza protezione e precauzione". Ma questa è' la verità, e Sciascia ritiene che Dalla Chiesa si comportasse così per una sua visione letteraria e comunqu

e "arretrata" della mafia. Dalla Chiesa si riconosceva, erroneamente, nel capitano dei carabinieri protagonista del "Giorno della civetta" (che invece era modellato sull'allora maggiore Renato Candida, poi trasferito al nord). Dalla Chiesa escludeva ogni collusione tra mafia e terrorismo politico, ma non prendeva in sufficiente considerazione il nuovo carattere "eversivo" dei delitti mafiosi. La mafia di oggi non è quella di ieri, è cambiata: il problema di oggi è la droga, ed è la droga che ha spaventato e spaventa alcuni politici e che fa sì che i partiti cerchino di ritrarsi dalle vecchie, usuali commistioni. Di questo tentativo di "sganciamento" la mafia ha paura, e questo giustifica "la catena di omicidi che va da Boris Giuliano a Dalla Chiesa".

(CORRIERE DELLA SERA, 19 settembre 1982)

Non c'è nulla che mi infastidisca quanto l'essere considerato un esperto di mafia o, come oggi si usa dire, un "mafiologo". Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte. E non amo le interviste ex abrupto: preferirei rispondere per iscritto ad ogni domanda, tranquillamente, ponderatamente.

Eppure ad ogni avvenimento di matrice mafiosa accondiscendo a tante interviste all'improvviso e improvvisate, sforzandomi, facendomi violenza. E per due ragioni: mi pare di venir meno a un dovere civico rifiutandomi di parlare; e mi pare di venir meno alla cortesia, e di non rispettare quello che è l'altrui lavoro, chiudendo la porta in faccia a una persona che ha fatto un centinaio di chilometri per venire a registrare la mia opinione. Cosi, a una diecina di giorni dall'assassinio del generale Dalla Chiesa, mi trovo ad aver fatto interviste a un grado di inflazione; né le ho tutte viste sui giornali in cui sono apparse. Non so dunque se qualcuna delle cose che ho detto è stata amplificata o ridotta o falsata: e perciò non riesco a rendermi conto se l'irritazione che Giorgio Bocca manifesta nei miei riguardi (la Repubblica del 10 settembre) ha fondamento su mie affermazioni imprecisamente riferite o se invece su cose che ho effettivamente detto e che sono state esattamente riportate. Ma può anche darsi si si

a irritato per il gusto di irritarsi.

Qualche anno fa, in un suo libro sul terrorismo, Bocca ha riconosciuto che io sono stato il solo, al momento del sequestro Sossi, ad aver capito che il terrorismo rosso era propriamente rosso, e non nero camuffato da rosso come molti si baloccavano a credere; e lo riconosce aggiungendo che io a quella verità ero forse arrivato per intuizione di letterato. Ora io non so se i letterati hanno intuizioni specialissime. Io non credo di averne: e magari non sarò un letterato. Per me c'è chi capisce e chi non capisce, chi ha volontà di capire e chi di capire se ne infischia.

E il riconoscimento di Bocca, di essere stato il solo a capire, mi deprimerebbe invece di esaltarmi, se non sapessi che come me tanti allora avevano capito che non scrivono sui giornali e non fanno libri.

Comunque, oggi sembra proprio che sia il mio intuito letterario a irritare Bocca. Secondo lui, io avrei della mafia un'immagine indefinibile, cangiante, misterica, raffinatissima. Troppi aggettivi: e soltanto uno cangiante potrebbe cautamente andare; ma a misura di un cangiamento oggettivo, non soggettivo. Più di vent'anni fa, ho dato della mafia una definizione che credo resti di sintetica esattezza. "La mafia è un'associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo stato.

Dopo più di vent'anni, quel che vedo di cambiato è questo: che in fatto di droga la mafia non è più intermediaria, ma produttrice; e che nell'intermediazione tra il cittadino e lo Stato, e nel servirsi lei stessa dello Stato, nello stare dentro lo Stato, non gode della stessa sicurezza di cui godeva prima. Se di questi mutamenti e particolarmente del secondo Bocca non si accorge, nonché dell'intuito di letterato, è sprovvisto dell'intuito di storico (qualche suo libro porta nel titolo la parola storia) e dell'intuito di giornalista. Che peraltro non occorrono, bastando il semplice buon senso, per arrivare a questa ipotesi. Ed è soltanto questa ipotesi che spiega la qualità eversiva dei delitti di mafia degli ultimi anni.

Sospetto che proprio questa ipotesi a Bocca non piaccia, così come certamente non gli piace sentir dire che il generale Dalla Chiesa non si proteggeva sufficentemente e accortamente. Nulla di più evidente: il generale Dalla Chiesa andava per le strade di Palermo senza protezione e precauzione; ma pare che il dirlo venga considerato un'offesa alla memoria del generale e una remora alla lotta contro la mafia.

Non molti anni fa, a rendere impronunciabili certe verità, si diceva che facevano il gioco di qualcuno o di qualcosa che bisognava invece combattere; oggi l'interdetto sulle verità cade con l'espressione di "alleanza oggettiva". Ricatto insopportabile e che non sopporto. La verità, piccola o grande che sia, non stabilisce "alleanze oggettive", con ciò di cui non si vuole essere alleati e fa soltanto il gioco della verità. E dunque ribadisco: il generale non si proteggeva per come avrebbe dovuto. Dire che lo facesse ragionevolmente, poiché inutili sono tutte le protezioni, inutili tutte le scorte, è una sciocchezza: agguati come quello in cui il generale è caduto sono soggetti a elementi imponderabili. Chi poi crede che la mafia sia in queste operazioni perfetta e infallibile, finisce col conferirle quella onniveggenza, onnipresenza e onnipotenza che non ha, che non può avere. Si è parlato e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto della "geometrica" perfezione di certe operazioni delle Brigate ros

se: e si è poi visto di che pasta son fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione almeno lo spero anche con la mafia.

Non posso dire di aver conosciuto bene il generale Dalla Chiesa. L'ho incontrato un paio di volte a Palermo, quando comandava la legione, e le due volte che è venuto alla commissione Moro. L'ho seguito, per come potevo, durante il caso De Mauro. La sua linea era diversa da quella di Boris Giuliano. La linea dei carabinieri, la linea della polizia: come, purtroppo, quasi sempre avviene. Ma avevo l'impressione che quella di Giuliano fosse la più concreta: e tante cose, perciò, credo siano scattate a fermarlo. Erano uomini di uguale dirittura, di uguale passione, facevano fino in fondo il loro dovere: ma Giuliano aveva il vantaggio di essere siciliano.

Negli ultimi tempi, dalle confessioni di Peci in poi, c'è stata la tendenza a fare di Dalla Chiesa un mito. Il più bravo di tutti contro il terrorismo, il più bravo di tutti contro la mafia. E ancora di più si tende a farne un mito da morto. Non c'è dubbio che nell'attuale dissoluzione le sue qualità facessero giustamente spicco. Era un ufficiale dei carabinieri di vecchio stampo: onesto, leale, coraggioso. E intelligente. Ma aveva i suoi limiti e ha fatto i suoi errori. In un vecchio, indimenticabile film di Duvivier che si svolge in una casa di riposo per attori, alla morte di Michel Simon (non ricordo i nomi dei personaggi, e perciò do loro quello degli attori), Victor Francen ne deve fare l'elogio: comincia col dirlo grande attore, inarrivabile interprete; ma ad un certo punto si ferma, dice: "No, non posso dire questo"; e allora sorge, dalla verità l'elogio più vero e commovente. E così dovrebbe essere sempre e per tutti. Il generale Dalla Chiesa ha fatto i suoi errori, dunque: e l'ultimo, fatale, è s

tato quello di non avere stabilito un sistema di vigilanza e protezione intorno alla sua persona. Dire che sarebbe stato inutile è tanto più insensato del dire che sarebbe sicuramente servito.

Domandarsi perché non ha voluto creare intorno a sé un tale sistema è del tutto naturale e legittimo. E la risposta che ci si può dare potrebbe anche essere di un qualche lume e servire. E dunque: perché? Come diceva Savinio, avverto gli imbecilli che le loro eventuali reazioni a quanto sto per dire cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza. E la mia risposta è questa: il fatto che il generale Dalla Chiesa si fosse identificato nel capitano dei carabinieri del "Giorno della civetta" è dimostrazione, piccola quanto si vuole, di quel che pensava di sé e della mafia.

In questi giorni, per ristabilire la verità (e anche per abito di discrezione), sono stato costretto a dire che l'ufficiale dei carabinieri dalla cui conoscenza e amicizia mi era venuta l'idea di scrivere il racconto non era Dalla Chiesa, ma l'allora maggiore Renato Candida, comandante del gruppo di Agrigento. Candida aveva acquisito una tale coscienza e nozione del problema mafia, che si trovò a un certo punto a scrivere un libro molto interessante, che fu pubblicato dall'editore mio omonimo e che io recensii sulla rivista "Tempo presente".

Più tardi mi si accusò, su un giornale siciliano, di essermi adoperato presso Candida, e per sollecitazione di un deputato comunista, a fargli eliminare dal libro una parte che riguardava certe collusioni tra partito comunista e mafia. Accusa assolutamente falsa: e lo dimostra il fatto che, nel libro, certe collusioni locali tra comunisti e mafiosi (non tra partito comunista e mafia) vi sono registrate.

Pubblicato il libro, Candida fu regolarmente trasferito: alla scuola allievi carabinieri di Torino. Ed è da notare come allora ufficiali dei carabinieri e commissari di polizia, non appena mostrassero intelligenza e volontà nel combattere la mafia, venivano prontamente allontanati dalla Sicilia; mentre si è ora verificato, col generale Dalla Chiesa, esattamente il contrario: lo si è fatto ritornare in Sicilia appunto per la sua competenza in fatto di mafia. Per la sua intelligenza e volontà di combatterla.

Tirato in scena da me (e me ne scuso con lui), Candida, su La Stampa del 12 settembre, giustamente dichiara di non riconoscersi nel capitano Bellodi del "Giorno della civetta". Dice, in effetti, quello che io, in autocritica, ho sempre detto: che il capitano vi è troppo idealizzato, che è un portatore di valori e non un personaggio reale. "Il boss," dice Candida, "è personaggio reale, anche il maresciallo che opera accanto a Bellodi è credibile. Bellodi lo è meno." In questo personaggio idealizzato e non credibile. Dalla Chiesa invece si riconosceva. Questo era il suo limite. Nobilissimo limite, ma limite. Aveva di sé e dell'avversario immagini letterarie e comunque "arretrate".

Che tali immagini non agissero sul concreto lavoro che andava svolgendo, si può senz'altro ammettere; ma che fossero condizionamento al suo comportamento personale, è senz'altro possibile. E s'intende che sto parlando di Dalla Chiesa come era come probabilmente era a prescindere dalla sua lettura del "Giorno della civetta" e dal suo riconoscersi nel personaggio del capitano Bellodi. Il riconoscersi, insomma, è da considerarsi come un segno, una manifestazione, un sintomo. E non di vanità, sia ben chiaro.

So per certo che il generale escludeva la possibilità di una collusione tra mafia siciliana e terrorismo politico. Giustamente. Ma credo che non prendesse in sufficiente considerazione la qualità "eversiva" dei delitti di mafia avvenuti negli ultimi anni e da cui è possibile arrivare alla constatazione di un mutamento. Di un tale mutamento si può cogliere un riflesso anche nel solo parlare della mafia da parte di quegli uomini politici siciliani di partiti ritenuti infeudati alla mafia o infeudanti la mafia: che mentre prima e fino agli anni in cui il generale lasciò il comando della legione di Palermo della mafia parlavano leggermente e persino spavaldamente, minimizzando o negando, facendo ironia su chi ci credeva e la temeva, negli ultimi tempi hanno preso a parlarne non solo credendoci, ma visibile anche nelle loro facce con paura.

Ciò vuol dire che il tentativo di districarsi dalla mafia, e di districarne i loro partiti, è in atto. Che poi qualcuno non sappia districarsene o non voglia, può essere di turbativa o di remora a questa specie di volontà generale: ma tant'è che questa volontà c'è e che, per renderci conto di quel che accade, dobbiamo prenderne conoscenza.

Ci sarebbe a questo punto da riassumere tutto quello che della storia della mafia sappiamo, dalla relazione del procuratore Ulloa (1838) ai saggi di Hobsbawm ed Hess: ma anche chi questa materia conosce per sentito dire facilmente si accorge che tra Portella della Ginestra e l'assassinio del generale Dalla Chiesa corre un grosso divario. Il rapporto di reciproca protezione tra uno stato in sclerosi di classe e una mafia in funzione di sottopolizia e avanguardia reazionaria, cui veniva lasciata a compenso l'esazione di determinati tributi, si è certamente infranto. Per due ragioni. Una, perché lo stato disordinato, inefficiente, disfatto quanto si vuole non è più in sclerosi di classe. Ragione politica, dunque. L'altra ragione che si potrebbe dire morale, anche se nasce da precauzione e da calcolo che la gestione della droga, pur essendo fonte di redditi ingenti, ha spaventato quegli uomini politici che, ormai appagati di quel che già avevano in potere e in beni, non volevano correre ulteriori e meno pr

otetti rischi.

A parte i figli, i nipoti, i familiari che nell'uso della droga potevano essere coinvolti (la famiglia è ancora un valore piuttosto ossessivo) non ci vuole grande perspicacia per capire che quello della droga è un nodo che deve venire al pettine, anche in un paese come l'Italia in cui pare che il pettine non ci sia. Verrà, comunque, al pettine di altri paesi: e conseguentemente del nostro. E qui è il caso di chiarire che molto probabilmente gli uomini politici indicati generalmente come mafiosi dall'Unità ad oggi non sono mai stati propriamente "dentro": l'hanno protetta e ne sono stati elettoralmente protetti, ne hanno agevolato gli affari e sono stati compartecipi dei profitti: che poi i loro successi, nelle fazioni interne di partito e nelle elezioni, e i loro profitti negli affari, comportassero violenze ed omicidi, loro hanno finto di ignorare: così come il Sant'Uffizio ignorava la sorte degli eretici affidati al braccio secolare. Ma la droga non era più "qualche omicidio"; era una rete di omicidi v

asta e continuata. E credo che anche una parte della mafia, pur minoritaria, sentisse allo stesso modo. La parte ancora radicata nel mondo contadino.

In coincidenza all'emergere di questo crinale di divisione, c'è stata l'enunciazione della teoria del "compromesso storico". Teoria che non ha fatto bene al partito comunista, ma ne ha fatto alla democrazia cristiana. Coloro che, nella democrazia cristiana, alla realizzazione del "compromesso storico" aspiravano, hanno coinvolto tutto il partito nell'ansietà di farsi assolvere, dal rigoroso e quasi ascetico partito comunista, dai tanti peccati commessi dal 1948 ad oggi, il peccato di mafia incluso.

Da queste cose insieme, e da altre, viene il tentativo di sganciarsi, di defilarsi: ma senza un effettuale processo di autocritica, quasi che il tentativo sia una somma che tirerà poi lo storico di casi personali, di personali calcoli e paure.

A sua volta, da questo tentativo di sganciamento dei politici, la mafia ha paura. Non solo il tessuto protettivo intorno le si dismaglia, ma si accorge che anche gli strumenti per combatterla vanno facendosi concreti e precisi. Il fatto che le istituzioni siano in disfacimento non basta alla sua sicurezza: ci sono degli uomini che possono farle funzionare e che non sono facilmente sostituibili. Da ciò la catena di omicidi che va da Boris Giuliano a Dalla Chiesa. Da ciò l'assassinio a carattere ammonitorio di Pio La Torre: ad ammonire il partito che nella lotta contro la mafia ha posizione di punta.

Ho ricordato altre volte il vecchio capomafia Vito Cascio Ferro che, condannato per un omicidio, disse ai giudici che per un omicidio non commesso stavano condannandolo, mentre per i tanti che aveva commesso non erano riusciti a condannarlo. Alla democrazia cristiana oggi sta accadendo qualcosa di simile. Non in quanto partito, ma attraverso un certo numero di singoli che ne partecipano, per anni ha dato alla mafia protezione, sicurezza e prosperità; oggi che vuole distaccarsene, come non mai è accusata di esserci dentro. Le si volge contro anche la Chiesa: fatto che meriterebbe lunga disamina. E forse la faremo.

 
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