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Bandinelli Angiolo - 1 dicembre 1982
Prassi e teoria dei radicali
Giornate di studio su "Diritto di resistenza e nonviolenza", promosse da "Critica liberale", Lavinio, dicembre 1982.

Relazione di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Rievoca innanzitutto tre convegni teorici, svoltisi in anni precedenti, dedicati alla nonviolenza: essa è "figlia dell'ideologia e della storia liberale, o dell'ideologia e della storia del movimento democratico...?". Oggi queste discussioni non avrebbero senso, perché è crollata del tutto l'ideologia, la speranza, la praticabilità del "socialismo". In Italia, mentre in realtà tutte le ideologie e anche il progetto dello "Stato sociale" sono in crisi, si dilata l'arroganza della partitocrazia che esercita il suo potere in nome della "governabilità", comprimendo in ogni modo possibile i diritti e il diritto. Qualcosa di simile accade anche altrove, ma non in queste forme parossistiche, pericolosissime, come ha dimostrato il "caso D'Urso".

Come reazione alla crisi democratica, è stato notato da autorevoli studiosi, ovunque nel mondo proliferano i nuovi associazionismi, l'ecologismo: ma essi sono inadeguati a gestire le nostre società complesse. La vera arma per la trasformazione delle società dell'occidente, sostiene Bandinelli, è la nonviolenza, spogliata di elementi "profetici"e non ridotta alla funzione "correttiva" che le ha affidato la tradizione anglosassone. La nonviolenza radicale è null'altro che "l'esercizio strenuo del diritto", anche attraverso la "scommesa processuale della giurisprudenza": e, per questa via, della stessa "etica", un'etica concreta e messa continuamente a rischio. Questa idea della nonviolenza si riflette sul Preambolo dello Statuto del partito radicale: che non è un appello "metapolitico" e dunque poco "laico", come si è detto. E' invece il richiamo puntuale, storico, alle analisi (che sono proprie anche di Bobbio) sulla crescita storica, in termini di diritto positivo e non meramente "giusnaturalistici", dei dir

itti dell'uomo. Purtroppo, in tutto il mondo, la crescita e l'ancoraggio dei nuovi diritti viene messa in forse: la erodono i nuovi nazionalismi e la conseguente crisi dell'ONU.

Ancora: il fondamento della nonviolenza poggia sulla convinzione sicura che "nemmeno lo Stato sia titolato a chiedere al cittadino, all'uomo, una fedeltà [...], una cittadinanza esclusiva". L'individuo, il cittadino, ha come sua ricchezza costitutiva le molte fedeltà (la cd. "doppia tessera"): al diritto positivo ma anche, ad es., alla Chiesa che in occidente è storicamente antagonista dello Stato in difesa di "altri" valori; in definitiva, alla sua coscienza. La nonviolenza è dunque al centro del concetto di "persona", nella tensione del cittadino di oggi a vedere riconosciuta la propria "identità", quella che egli afferma, non quella che altri vorrebbe appiccicargli. In queste forme, inedite e specifiche, proprie della lotta radicale, la nonviolenza fa appello all'individuo, e non ai partiti in quanto tali. Nella odierna crisi del sistema politico, la nonviolenza fornisce un grande arricchimento di valori, di modelli progettuali, ecc.. Con il suo appello alla "qualità della vita" è, essa è la vera "uscita

di sicurezza" rispetto all'impasse etico-politico di oggi, quando è in pericolo anche, essenzialmente, la "vita". In definitiva, conclude Bandinelli, "la nonviolenza è, puramente e semplicemente, l'alternativa" nei confronti dell'"uso violento delle istituzioni".

(DIRITTO DI RESISTENZA E NONVIOLENZA, Lavinio, dicembre 1982, Critica Liberale)

In anni ancora non lontani, anche se già spiacevolmente sfocati, e cioè nel 1971, nel 1975 e nel 1978, si tennero in Italia nel clima di interesse suscitato dalle battaglie per i diritti civili allora in pieno svolgimento sotto i vessilli, nuovi per i nostri cieli, delle teorie e delle tecniche nonviolente tre convegni, che avevano come argomento i temi, appunto, della nonviolenza e del diritto di resistenza. Il primo si svolse per iniziativa, mi pare, di "Critica Liberale"; gli altri due furono organizzati, congiuntamente con altri gruppi e con l'appoggio di Enti locali, dal Movimento Nonviolento di eredità capitiniana.

Uno dei relatori al primo convegno affrontava l'elegante questione se il diritto di resistenza fosse figlio dell'ideologia e della storia liberale o non piuttosto della ideologia e della storia del movimento democratico. Se ne può leggere il testo sul N. 16 (gennaio febbraio 1982) dell'omonima rivista (Mario A. Cattaneo: "Il diritto di resistenza"). I due dibattiti del Movimento Nonviolento furono invece dedicati ai rapporti di vicinanza o di diversità tra nonviolenza e marxismo, e tra pratica non violenta e conquista violenta del potere: si disputò su quale delle due teorie, quale dei due movimenti e modelli di lotta fosse preferibile e auspicabile, nella situazione odierna, per rendere spedito e garantito il cammino verso l'obiettivo finale: che veniva dato comunque per scontato, ed era nient'altro che il socialismo. Il secondo dibattito, quello del 1978, si intitolava infatti, esplicitamente, "Nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo"; tanta era la fiducia, dei promotori, della ineluttab

ilità, sia logica che storica, del percorso, e della desiderabilità dell'obiettivo. Per quanto riguarda il primo convegno, quello di impulso liberale, la relazione che abbiamo ricordato rispondeva al quesito assegnando la legittima paternità del diritto di resistenza alla tradizione liberale.

Credo che di poche cose possiamo oggi essere più tranquillamente certi che della inutilità di quelle discussioni. Non perché non sollevassero importanti questioni di filologia e di critica. Ma perché sono bastati i pochissimi anni trascorsi per fare avanzare al proscenio una realtà storico politica tanto più drammatica e brutale da porre, come urgenti e primari, ben altri temi e problemi. Ad esempio, possiamo dare per scontato che almeno uno dei termini allora venuti in esame sia oggi pressoché privo di senso, come liquefatto: parlo evidentemente del termine "socialismo" e più in generale della teoria politica marxista, di cui non vi è oggi in giro quasi più traccia, mentre suoi accaniti propositori di quattro anni fa navigano ora disperatamente verso un qualsiasi porto, aggrappati a zattere di fortuna le più svariate e impensabili. Il precipitare della crisi, non solo del nostro paese, mi pare escluda che l'una o l'altra di quelle filosofiche dispute si riaccenda presto, almeno in quei termini. Personalment

e non sono riuscito a rintracciare da un pezzo, ad esempio, un qualche episodio di reale confronto tra liberalismo e una superstite scuola democratica, o qualche forma di teoria socialista ancora orgogliosa della vantata primogenitura, del suo spessore storico.

Al posto di quelli, altri problemi sono divenuti urgenti. E non per un provvido rimescolamento culturale. Ciò di cui si discute oggi non è già quale via debba essere percorsa per raggiungere la terra promessa d'una società migliore, e migliore anche perché più libera. Partiti liberali, partiti socialisti, partiti laici e cattolici, liberisti o populisti, sono in altro affaccendati; o, forse, in altro disorientati e smarriti. Spogli ciascuno dei propri vessilli e della propria carta d'identità, ciascuno reso o fattosi eguale agli altri, tutti assieme si affollano verso il centro del potere, in una zuffa caotica e desolante.

Dentro questo massacro generale di certezze e di idealità appare conclusa, nel nostro paese, l'epoca delle riforme "progressiste", spenta la speranza di un lento ma inarrestabile sviluppo della società coi suoi diritti e coi diritti di tutti sotto l'egida sicura e sempre meglio dispiegata della Costituzione repubblicana. Invece di questa, e al suo posto, si dilata e prende forza quella Costituzione materiale che è venuta acquistando lineamenti e peso sotto la spinta del potere partitico e della classe politica.

Così ciò che arriva in discussione, oggi, è l'equilibrio dell'edificio costituzionale, la struttura dello Stato repubblicano. Lo richiedono i partiti: tutti i partiti dell'arco definitosi "costituzionale". La riforma urgente delle istituzioni viene suggerita da alcune delle massime autorità dello Stato, ed è parte integrante di programmi di governo.

In termini di contenuto, credo anche si possa dire (e lo dicono, infatti, tutti) che quel che è in difficoltà è il progetto complessivo dello Stato moderno, il cosiddetto Stato assistenziale o sociale quale nacque in occidente nel corso degli anni '20. Questa dissoluzione invoca non, come si dice, il ritorno all'individuo del vecchio liberalismo, ma il ripristino della privatizzazione e del profitto, con la compressione di diritti dell'individuo che sembravano invece definitivamente acquisiti dalla moderna democrazia sociale. Questa grave crisi vede il montare inarrestabile di paure drammatiche e irrazionali: la paura dell'instabilità e dello sconvolgimento sociale, della sovversione degli equilibri, come anche delle gerarchie di potere, nati e consolidatisi in mezzo secolo circa di abbastanza lineare storia.

E i partiti i partiti divenuti, in questo Stato, parte dello Stato, Stato essi stessi nella convinzione di essere essi soli ormai in grado di garantire la ragione e la ragionevolezza della storia chiedono a gran voce, agitando il ricatto di una governabilità confidata loro in esclusiva, la liquidazione o la compressione di diritti e garanzie. Forse, del diritto in sé; certo, di gran parte di quei diritti di libertà dei quali si dava come ormai a portata di mano il conclusivo radicamento, attraverso quel "controllo diffuso" i cui promotori sarebbero proliferati nella società con le libere articolazioni dei cittadini e delle forze "emergenti". Il riflusso offende e colpisce proprio questi diritti di libertà. E inutile esemplificare: sappiamo quel che accade nell'amministrazione della giustizia, nella produzione legislativa, nell'uso delle istituzioni, nella crisi del Parlamento (di cui si promuove la riforma magari attraverso la manipolazione sperimentale dei regolamenti) e così via.

In generale, la pressione è verso il rafforzamento del potere dei partiti e della loro corporativa presa di possesso della società e dello Stato, nella messa in mora delle istituzioni. In questo, credo che la situazione italiana sia qualitativamente diversa da quella di paesi, come l'Inghilterra e gli Stati Uniti, pur essi investiti di problemi analoghi per intensità e difficoltà. Qui, infatti, il ripristino dell'accumulazione e del privatistico è ottenuto mediante l'imposizione di un quoziente maggiore di coercizione, ricavato dall'uso violento, diciamo "reazionario", delle istituzioni; mentre da noi è dichiaratamente in corso il tentativo, ripeto, di modificare le istituzioni stesse, con il contemporaneo rafforzamento dei partiti e dei privilegi della loro classe politica. Il disegno prende forma da più parti, suoi spezzoni sono stati già resi noti. Alcuni elementi hanno del clamoroso: un imprenditore come De Benedetti, riecheggiato (sia pure blandamente) dai Merloni e dagli Agnelli, nella stessa pagina in

cui denuncia le gravissime difficoltà in cui versa l'azienda Italia può fiduciosamente affermare che entro il 1983 la situazione dovrà essere rovesciata: perché subito dopo abbia via libera quello che egli definisce il "management" e lo "sviluppo". Queste nemmeno tanto oscure allusioni non mettono in allarme partiti e sindacati: si ha piuttosto la sensazione che partiti e sindacati facciano ressa per allinearsi dietro di esse, e per coprirsene. In America, il partito democratico che negli anni '30 raccolse l'adesione degli emarginati e dei diversi per ridurre o bilanciare l'egemonia dei ceti WASP (white anglosaxons, protestant) entra in profonda prostrazione, ma attorno ad esso emergono i nuovi movimenti alternativi in Inghilterra il Labour si spacca e si sgretola alla ricerca di nuova identità; in Germania la SPD tratta con i Verdi. In Italia i partiti dell'arco costituzionale, i sindacati della gestione degli Enti e dello scambio politico si tengono per mano per non lasciarsi scavalcare dalla "società rad

icale", per non lasciar filtrare tra le loro maglie nessun diverso od altro, e per una sola "alternativa" nutrono preoccupazione, quella dell'astensione e della scheda bianca o nulla.

Credo che non si possa assimilare l'attuale involuzione ad un mero ammodernamento, comunque continuazione di quella pratica conservatrice o "reazionaria", strenuamente volta ad impedire lo sviluppo dell'area garantista, che fu propria della Democrazia Cristiana degli anni '50 e '60. Quella DC fu conservatrice e reazionaria; ma oggi possiamo vedere con chiarezza che l'occupazione della società e dello Stato non fu vizio o colpa di questo partito preso isolatamente. Fu invece il portato di un insieme di rapporti complessi, nei quali troviamo coinvolti tutti i partiti dell'arco "costituzionale", come blocco che ha quale obbligato passaggio la distruzione della "società civile" e dell'opinione pubblica nella loro accezione classica.

Il quadro istituzionale e costituzionale si deteriora non solo per colpa della DC, ma anche per attivo impulso delle sinistre. E' in quest'ambito che si conclude e si liquida il discorso delle riforme sperate e delle lotte per l'attuazione e il completamento della Costituzione. E non è un caso se nel loro ambito, nell'ambito della loro cultura, logoratisi tutti quei punti di riferimento di tipo storicistico democratico liberale che hanno costituito per due o tre decenni il substrato - contraddittorio ma insostituibile delle loro teorizzazioni oltreché della loro prassi reale, cominciano ad affacciarsi, mutuate ai teorici dello Stato totalitario, le tesi dell'avvento necessario del "dominio", autosufficiente nel reggere e giustificare la gestione della Statualità in sé l'autonomia del "Politico", insomma del Dominio eretto a Spettacolo di cui sia sola protagonista una classe politica che ha esteso le proprie immunità fino all'impunità del delitto e della cospirazione violenta: come accadde durante il ca

so D'Urso, una vicenda le cui implicazioni non cessano di operare e sono esplosivamente presenti nei sotterranei della Repubblica di oggi. Lo Stato totalizzante è così in piena marcia, come storica prosecuzione a nostro avviso di quella drammatica ma reale trasformazione dello Stato liberale operata in Italia dal fascismo, "il più grande contributo dato al nostro secolo - come ha scritto lo storico Galasso dall'Italia": la definizione e la realizzazione dello Stato contemporaneo, dello Stato "moderno".

In un quadro di riferimenti siffatto non c'è spazio per discussioni che hanno l'occhio puntato indietro, verso condizioni storiche non più esistenti, di cui si è persino persa la memoria. E quindi ci pare anche che sia oggi necessario parlare di nonviolenza, di un diritto di resistenza, in termini diversi da quelli usuali e più accessibili: almeno se se ne vuol salvare il valore e la necessità profonda. Occorre trovare termini nuovi, rigorosi e puntuali.

E' innanzitutto evidente che vanno scartate le interpretazioni che danno della nonviolenza un'immagine "profetica", storicamente inaccettabile se non in via di metafora; come quella di una nonviolenza che sia tramite, portatrice di "socialismo", di un "autentico" socialismo della pace e della cooperazione; o anche matrice di una nebulosa "terza via". Troppo spesso ci si è serviti, magari strumentalmente, di queste interpretazioni e immagini proprio per liquidare la possibilità stessa dell'azione e della presenza nonviolenta nella nostra cultura. Diciamo anche inadeguata una lettura della nonviolenza quale strumento privilegiato, o esclusivo, o caratterizzante di quelle lotte alternative (ma anche, vedremo, settoriali) che si sviluppano dallo sfaldamento in atto delle "alleanze storiche per la

crescita" come scrive Offe, ("Ingovernabilità e mutamento delle democrazie", Il Mulino, 1982), cioè del blocco storico che ha caratterizzato lo stato assistenziale, e si dilatano sui fronti cosiddetti "postmateriali".

Secondo Offe, sempre più politicamente rilevanti si fanno queste moderne forme di conflitto sociale dai contenuti "postmateriali" e "postacquisitivi", dirette alla affermazione in primo luogo di valori più che di bisogni. Attraverso queste lotte osserva lo studioso - la gente cerca di acquistare uno spazio "di tale natura da non poter essere soddisfatto mediante il potere statale". Un obiettivo a raggiungere il quale i tradizionali strumenti del conflitto politico, in primo luogo i partiti, non sono più agibili; ed ecco che continuando a citare la stessa fonte "elementi della nuova borghesia" combinano "valori postmateriali" con "determinate idee ereditate dalla tradizione anarchica e sindacalista del pensiero politico. Questo modello implicherebbe che le funzioni dello Stato assistenziale possano essere rilevate da comunità libertarie, egualitarie e fiduciose di sé, operanti dentro una struttura ampiamente decentralizzata e deburocratizzata". Secondo Offe, questa ipotesi di fuoriuscita dallo Stato socia

le, prefigurata e promessa dalle lotte ecologiste, dei Verdi, delle donne, dei diversi, ecc., in Europa e in America, è inadeguata.

Non vi è dubbio, certo, che lo sviluppo tumultuoso di nuovi diritti sostanziali nati dalla complessità della società postindustriale realizzi una piattaforma di interessi reali (e di valori) che stanno scardinando il tradizionale tessuto degli interessi e dei valori sui quali crearono i propri poteri i vecchi ceti, le vecchie classi dirigenti. Ma mantengo più di una riserva. I partiti hanno già avviato il riassorbimento di queste energie collocate attualmente in posizione centrifuga, in Francia come in Germania o in Italia. Il riassorbimento e il recupero può avvenire per via di consenso, o anche di repressione e coercizione. La coscienza dei nuovi diritti appare debole, non sufficiente a resistere alle pressioni congiunte della repressione di tipo reaganiano e della manipolazione. E, sopratutto, non sempre "piccolo è bello", così come i valori emergenti non sono sempre all'altezza della gestione di società tanto complesse: a volte sembrano addirittura espressione di una fuga in avanti.

Ancora, non più adeguata ci pare la riduzione della nonviolenza alla precettistica della tradizione anglosassone. Secondo Bobbio (cfr.: "Dizionario di Politica", a cura di Bobbio e Matteucci, UTET ed.) questo è il modello tipico della nonviolenza poiché l'altro possibile predicherebbe piuttosto il rovesciamento integrale del sistema. E un'osservazione che vale la pena di esaminare da vicino, per poter sviluppare il nostro discorso. Dice infatti Bobbio che questa nonviolenza - la nonviolenza in sé? ha assolto e assolve anche la funzione di rendere complessivamente più efficiente il sistema.

Come non ricordare, a questo proposito, che i radicali rivendicano da venti anni il vanto di aver lottato con la loro strategia nonviolenta, con la disubbidienza civile, con l'applicazione puntigliosa del diritto di resistenza, proprio per rendere efficiente il modello democratico sancito dalla Costituzione? E' certamente attorno alla Costituzione che si è svolto lo scontro dei radicali. Con i loro sit in, i digiuni, gli ostruzionismi e l'ossessivo richiamo ai regolamenti e alla legge, così come con il richiamo al "dialogo" durante il caso D'Urso e lo scontro con il partito della fermezza uno splendido episodio di lotta nonviolenta il loro obiettivo era quello di far funzionare nelle sue articolazioni la Costituzione. I partiti fin da allora tutti, compresa la sinistra si sono strenuamente opposti a questa interpretazione del dettato costituzionale. Ma già in quella fase i radicali rifiutavano il ruolo di "orologiai" del sistema, cui essi avrebbero prestato solo la loro funzione "correttiva". L'artic

olazione della loro battaglia era più profonda, e proprio sull'interpretazione del proprio ruolo la frattura tra i vecchi radicali del Mondo" e i nuovi e stata decisa e irreparabile.

Ma la situazione si è da allora, in pochissimi anni, aggravata. Gli spazi di confronto si sono ridotti, quasi del tutto chiusi. E ridotta enormemente è la stessa agibilità politica delle istituzioni nel loro complesso. Il modello consociativo è subdolo. Esso conosce a differenza del vecchio totalitarismo, di cui pure ha ereditato i problemi storici - l'arte della tolleranza come "instrumentum regni", ed è proiettato al conseguimento del consenso "dei tutti" attraverso la manipolazione delle coscienze piuttosto che attraverso la loro coercizione violenta. Al manganello si è sostituito lo Spettacolo (che scoperta! Ma il "politico" e sempre, per definizione, stare in "pubblico"!) immanente ad ogni momento della vita e del quotidiano. La nuova persuasione concede spazio a forme di dissenso: purché esse non parlino il linguaggio del valori e dell'alternativa. Con parole altrui (ancora Offe) avvertiamo che in definitiva, oggi, "lo Stato entra in contatto fisico con il corpo e la psiche degli individui" e persino

"la natura", la "natura stessa è divenuta oggetto di politica statale".

Noi non siamo dei pessimisti, né scegliamo l'atteggiamento dei "piagnoni" dinanzi alla fenomenologia della società postindustriale; anche in questo profondamente differenti, nel punto di partenza e in quello di arrivo, dalla cultura marxiana, anche quella più raffinata e aristocratica, quale è stata la scuola francofortese, che ha tracciato il panorama desolante

e impietoso della antropologia del moderno e della eclissi della ragione. Possiamo essere non pessimisti, però, solo se riusciremo a fornire una definizione rigorosa della nonviolenza e a farne, non per noi ma per tutti, un dato essenziale della lotta per la trasformazione dello Stato moderno. Grave è infatti il rischio che di questo strumento si spunti l'incisività e la forza, nello scontro terribile con la violenza contemporanea. Non resterebbero allora altre vie d'uscita e di salvezza.

Diciamo allora, subito, che quel che si contrappone alla violenza non è la nonviolenza. La violenza è storicamente al centro della fondazione e della costituzione degli Stati. La nonviolenza è un concetto negativo, privativo; è assenza di violenza. Ma nel positivo della storia ciò che si affaccia e si percepisce come la forza che si oppone all'istituzionalizzazione della violenza è altro: è il diritto. Sacrificio della violenza e patto sociale nascono assieme, sono i due volti necessari della struttura statuale storica. Vichianamente se ci è lecito diciamo che l'uomo accetta il sacrificio violento di una parte di sé, nella certezza che questo patto darà vita ad una legge di giustizia, atta a mutare la violenza originaria prima in coercizione, poi in rispetto e diritto di libertà.

Se così è, l'opposizione alla violenza la si fa restaurando il diritto ogniqualvolta esso sia violato. Non c'è altra via, per esorcizzare e ridurre la sfera della violenza, se non l'esercizio strenuo del diritto, anche attraverso la scommessa processuale della giurisprudenza. Allo stesso scopo non arriva invece la violenza, nemmeno la violenza rivoluzionaria. Ma neanche la nonviolenza senza oggetto, la nonviolenza quale stile e pratica autosufficiente; che non a caso appare essere caricatura della vita reale, della quale la violenza è parte ineliminabile, e non solo e sempre come volto negativo.

La nonviolenza al positivo è dunque il rigoroso richiamo al valore e alla prassi continua del diritto; e dell'etica, che sulla certezza del diritto deve poter fare il suo riferimento costante, se non vuole essere astratto appello a quella falsa infinità che Hegel giustamente dileggiava. Questo è il senso della indicazione che ci viene dallo Statuto del Partito Radicale, quando accoglie, a suo preambolo, la parte essenziale della mozione approvata nel Congresso straordinario di Roma del 1980; in particolare là dove essa "proclama il diritto e la legge diritto e legge anche politici del partito radicale"; e "proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni". Io non credo che sia stata analizzata quanto meriti questa che è formulazione statutaria di un partito che pure opera nella realtà istituzionale del paese. Ma circola una indifferenza, una insensibilità al valore delle parole che ormai è segno palese di una crisi culturale e politica di proporzioni troppo vaste per esse

re tollerate; e direi, anzi, che anche questa consapevolezza rende fondante e necessaria la proclamazione statutaria radicale.

Alcuni, invece, hanno sollevato perplessità ed obiezioni verso questa formulazione. Muove di qui, anzi, una delle più specifiche critiche alla "nuova" linea del partito radicale: quella di aver assunto carattere e obiettivi più o meno consapevolmente religiosi, "assoluti", metapolitici o ultrapolitici, quindi non laici, fuori del tempo politico, irrealizzabili per definizione. Penso che tale critica sia particolarmente cieca e ottusa. Il preambolo radicale del 1980 è saldamente ancorato ad un giudizio scientifico, storico e politico portato sulla realtà del nostro tempo; le sue formulazioni discendono da una puntuale analisi del dramma storico politico che stiamo vivendo: con la denuncia della strage di Costituzione e di verità perpetrata ogni giorno dai partiti di regime, con la denuncia dello sterminio per fame, del rinascere cioè della politica, della cultura nazista sancita nel patto di Monaco, e così via. Concordo, in questo, con analisi provenienti da altri settori culturali e politici, da altre forze.

Non sono portato ad ipotesi di ritorno al "diritto di natura", ad un nuovo giusnaturalismo o contrattualismo, anche se nello sfacelo della cultura marxista di questi ritorni se ne contano già parecchi e certi segnali hanno pure, nella stanchezza e nelle delusioni che denunciano, un qualche senso che va preso in considerazione. Chiamato a scegliere tra queste teorizzazioni, non saprei quale preferire; amerei rifarmi, allora, alla coerenza incomparabilmente più autorevole di Carlo Antoni, il quale in epoche non sospette rivendicò la legittimità del ritorno al diritto di natura per respingere le pretese assolutiste dello storicismo e per cercare insieme riparo alla crisi heideggeriana dei valori, che già allora faceva vacillare le certezze della società borghese. Non c'è forse bisogno di arrivare a tanto.

Abbiamo oggi gli strumenti concettuali, politici e storici per mettere a fuoco alcuni punti, e per fondare le pretese che abbiamo visto affermate nel preambolo statutario. In un suo recente saggio ("Il problema della guerra e le vie della pace", Il Mulino Ed.) Norberto Bobbio dichiarava di dover ritenere che "rispetto ai diritti dell'uomo, il problema grave del nostro tempo è non già quello di fondarli, ma di proteggerli". ''Il problema che ci sta davanti aggiungeva non è filosofico, ma giuridico, e in più largo senso politico". Perché? Ma perché sottolineava il filosofo il problema del fondamento "ha avuto la sua soluzione con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo approvata dall'Assemblea Generale delle N.U. il 10 dicembre del 1948. Tale dichiarazione si fonda sull'unica prova "con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso generale circa la sua validità".

Certo, un tale universalismo non ha le sue solide radici in una eterna natura, originaria o "razionale" dell'uomo, ma solo, come dice Bobbio, in una "lenta conquista" della storia. Non è però una conquista astratta, che resta nel limbo di iperurani principi. A quella dichiarazione altre ne sono poi seguite, rafforzandola e ampliandone la giurisdizione, intrecciandola in un sistema di valori, e ormai anche di comportamenti, in settori i più diversi, da quello del lavoro a quello dell'infanzia, fino e cito non casualmente alla "Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio" approvata dalla Assemblea Generale il 9 dicembre 1958; e su di esse si è dispiegato un ventaglio spettacoloso di lotte, di avanzamenti, che formano parte imponente della storia di liberazione dei popoli, delle classi come degli individui, in questo dopoguerra. E non è un caso se, accanto alla crisi negli Stati, nello Stato, oggi noi constatiamo anche la crisi profonda di queste istanze internazionali e sovrannazionali

ONU in testa la cui esistenza avviò il dialogo tra gli uomini che ha reso possibile la definizione di quei principi quali obiettivi di un progresso non impossibile. La crisi è voluta dal risorgere prepotente degli egoismi nazionali più pericolosi e retrivi, per colpa dei quali rischia di essere disperso un patrimonio di certezze e di speranze importanti per la crescita del diritto e dei diritti dell'uomo; rischia di diventare grottesco anche il ricordo del Tribunale di Norimberga, che condannò i responsabili dei delitti nazisti; rischia di saltare, in definitiva, l'ONU e rischiano quindi di regredire al più primitivo bellum omnium contra omnes i rapporti tra Stati. Rischia di perdere fondamento la speranza di una lotta possibile contro lo sterminio per fame.

Per i radicali questi richiami non sono trovata dell'ultima ora. Nel 1962, l'allora "nuovo" partito radicale si rifaceva a Norimberga per invocare il processo internazionale ai responsabili dei massacri d'Algeria, esattamente come oggi chiede, nel preambolo, l'incriminazione per "crimini contro l'umanità" dei capi di Stato e degli Esecutivi i "responsabili della politica di armamento e di sterminio", "secondo i principi legittimi e legali che possano essere desunti dal processo di Norimberga". C'è una coerenza in tutta la storia del partito radicale, nel partito cioè della nonviolenza e del diritto. Non c'è invece la crisi di un partito che come ritiene di rilevare Baget Bozzo sarebbe passato da una politica dei "bisogni" ad una politica dei "valori": passaggio dannato e improvvido che ne avrebbe affievolito la capacità di presa tra la gente. Se si riesce a leggere la storia intera di questa forza politica al di fuori degli schematismi sociologici vi si ritrova una sorprendente e lucida continuità.

Questa divagazione ci consente in realtà di ricordare che il fondamento della nonviolenza poggia sulla convinzione sicura che nessuno nemmeno lo Stato - sia titolato a chiedere al cittadino, all'uomo, una fedeltà esclusiva, diremmo una "tessera", una cittadinanza esclusiva. Non si è mai cittadini di un solo Stato e rispetto ad una sola legge. Almeno nella nostra storia occidentale la "doppia tessera" è fondamentale e costitutivo principio della persona. Benedetto Croce aveva ragione nell'affermare che la storia dell'Europa è storia del conflitto tra Stato e Chiesa: nel senso, proprio, che l'intera storia dell'occidente è storia del conflitto tra il diritto positivo dello Stato e quell'altro diritto, "eterno", che la identica storia ha elaborato ed elabora dal suo seno, al fine di porre un freno di cui avverte l'assoluta trascendente necessità al diritto dello Stato, e di circoscriverne le pretese sulla coscienza. Il richiamo fatto alle tesi di Bobbio circa la "fondazione" dei diritti dell'uomo ci ha co

nsentito insomma di riscoprire la teoria della doppia cittadinanza e della doppia legge, e di porla a fondamento della nonviolenza, del diritto di resistenza, della noncollaborazione in termini moderni e attuali. Così, la radice della nonviolenza si inserisce durevolmente nella nostra storia e nella nostra cultura, né vi è ironia del realista o cinismo che possa strapparla via.

Attraverso queste analisi, mi illudo si possa arrivare a cogliere altri nodi centrali del nostro tempo. Ad esempio, per questa via ci è dato approfondire il concetto di persona. Pensiamo alla necessità di definire, nella teoria giuridica e nella prassi giudiziaria, il concetto di identità, il concetto e il valore dell'identità personale, oggi offesa e misconosciuta dalla violenza delle istituzioni, dalla crisi del diritto e dalla dilatazione di vecchi e nuovi corporativismi. Uno degli aspetti più intollerabili della violenza istituzionale è infatti, a nostro avviso, la negazione del diritto all'identità, del singolo come delle "persone" politiche e storiche. Intense battaglie per i diritti civili hanno, a guardar bene, avuto come loro obiettivo primario proprio la rimozione degli ostacoli che si frapponevano al riconoscimento di "persone", nuove o antiche, che si affacciavano alla ribalta della storia e della vita civile. Esemplari, in tal senso, le lotte per i diritti civili in America, che hanno portato a

fare emergere l'identità e la soggettività negra, l'identità e la soggettività di gruppi e classi di emarginati, portatori in quanto tali (oltreché come insiemi di cittadini) di diritti, nuovi diritti; del diritto ad essere riconosciuti nella loro specificità storica: negri ed omosessuali, donne e consumatori di nondroghe portatori della richiesta del diritto ad una felicità non regolamentata da norme eteronome. E l'obiettore, categoria generalissima di queste altre categorie, l'obiettore di coscienza è appunto il portatore di una coscienza che non si riconosce in quella degli altri, e rivendica la propria identità anche rispetto alla legge, anche nel momento in cui le obbedisce.

Qui è anche, essenzialmente, il fondamento delle lotte radicali per il diritto all'informazione. Questo è un terreno sul quale la logica del confronto e la rivendicazione della nonviolenza vivono in intreccio saldo e non casuale. La rivendicazione del diritto all'identità esige la rivendicazione del diritto all'informazione; io ho diritto a che l'informazione su di me sia tale da restituire agli altri la mia identità, così come gli altri hanno il diritto a conoscermi per quello che io sono o rivendico di essere. La più drammatica forse delle violenze esercitate nei confronti della società civile dal "Politico", nella sua pretesa all"'autonomia", è quando esso sottrae alla società civile l'identità, il diritto all'identità mentre questa viene manipolata, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, dalla classe politica. In questo senso, è vero che "il mezzo è il messaggio". La manipolazione del "mezzo" assicura l'omologazione dell'identità, la sua sparizione; impedisce lo sviluppo storico delle identità, ne

lla specificità delle loro diversità.

Considerazioni conclusive, non marginali anche se necessariamente un po' affrettate. E' stato osservato che una caratteristica della lotta nonviolenta è di essere svincolata dalle strutture partitiche, di essere forma di presenza civile peculiare a forme aggregative "altre" rispetto ai tradizionali canali partitici. La cosa è vera, ma occorre darne un'interpretazione diversa da quella corrente. La lotta nonviolenta può sperare di sfuggire alla banalizzazione e al tritume dell'episodio "tecnico" solo se riesce a conquistare un consenso potenzialmente universale, rispetto sia agli obiettivi che si propone che allo strumento e all'occasione in cui essa si esercita. Questo credo sia molto importante. Ma perché obiettivi e mezzi acquistino questa rilevanza universale è evidente che debbano essere letti in chiave esclusivamente etica (etico politica), svincolati da ipotesi o sospetti di strumentalismo. Dunque, occorre che il confronto che essi impongono sia centrato su valori, e che i mezzi puntino, anche essi, su

valori. Ecco l'essenzialità della personalizzazione di questo tipo di confronto politico. Ecco perché esso non può essere mero strumento di partito.

Ma questo non è difetto, privazione. Il fatto che i partiti siano tolti di mezzo non va letto nell'ottica della politologia, che ha l'occhio solo ai partiti quali protagonisti della lotta politica. E non possiamo dimenticare che l'esistenza stessa dei partiti esige prioritariamente in termini logico teorici, ovviamente l'esistenza di una "parte", che si contrappone ad un'altra su una scelta di valori. Lo spessore e la grandezza storica dei partiti di massa, d'altronde, riposa sull'aver essi rappresentato valori, prefigurazioni universalizzanti di società ideali, giuste: questo vale per il socialismo e il comunismo o per la dottrina politica dei cattolici. Nell'odierna, lamentata incapacità dei partiti ad esprimere valori, il confronto nonviolento, impostato sui grandi temi di principio, rappresenta un arricchimento dello scontro politico; non un arretramento. E' in questa aggiunta di valore che la lotta nonviolenta, l'obiezione di coscienza, il diritto di resistenza, l'azione diretta, sfuggono al rischio

dell'iconografia e dell'agiografia carismatica.

In definitiva la lotta nonviolenta, nella sua ricchezza e complessità, può rappresentare una uscita di sicurezza rispetto all'impasse etico politico in cui ci dibattiamo. Personalmente, ritengo che le lotte per la qualità della vita possano trovare il loro fondamento alternativo reale, sconvolgente e rivoluzionario, solo se saranno capaci di dare forza al secondo dei due sostantivi che le definiscono. E' in pericolo la "qualità della vita" perché è in pericolo, essenzialmente, la "vita". Il valore "non politico" (che viene a sconvolgere il terreno della politica, fino a ieri abituato alla sola logica dello scambio, che si esercita solo su ciò che è scambiabile) è quello della vita, come contrapposta alla politica della morte che ovunque imperversa. Ciò di cui oggi la gente ha fame è il valore della vita, su cui costituirsi in parte e, successivamente, in partito per realizzare una alternativa adeguata alla crisi politica del nostro tempo. Non credo di peccare in patriottismo di partito quando affermo, con um

iltà, che il tentativo che sta compiendo il partito radicale, con la sua battaglia contro lo sterminio per fame, contro l'olocausto del nostro tempo, è proprio quello di individuare, di creare, fare sorgere la parte alternativa, adeguata alle rivoluzioni strutturali del nostro tempo, che abbia l'autorevolezza necessaria ad impedire che queste prendano la forma assoluta e totalizzante di politiche e regimi "tecnocratici", sostanzialmente antidemocratici, in nome magari del primato della governabilità, dell'efficienza e della produttività.

C'è da provare raccapriccio dinanzi alla volgarità di molte critiche mosse ai radicali per l'iniziativa contro l'olocausto. La più rozza è quella secondo la quale essi avrebbero dovuto occuparsi dei morti e della miseria di casa nostra, di Napoli o del Sud, o magari dell'ecologia nostrana e dei parchi nazionali. Ebbene, almeno questo dovrebbe risultare chiaro: che, cioè, una politica per la vita (e quindi per la qualità della vita) è una politica indivisibile, che postula il diritto e il dovere di intervento là dove la vita è più minacciata. Sotto pena di scadere a politica di egoistico interesse per la mia soggettiva e "particulare" vita, edificata sulla morte dell'altro, la "tua" morte: magari per omissione. Una politica della vita, nonviolenta, tale da riverberare la sua potenza e la sua credibilità sulle lotte anche per la qualità della mia, della nostra vita, è una politica che dilata i suoi obiettivi, oggi e subito, all'Est e nel Sahel, ma dovunque sotto diverse forme la vita, nella sua universalità di

valore, è posta a repentaglio e rischia di essere negata e travolta.

In definitiva, e in breve: la nonviolenza è, puramente e semplicemente, l'alternativa. Se il nostro tempo, e il nostro tempo nel nostro paese, sono caratterizzati da un uso violento delle istituzioni e dalla violenza delle istituzioni, la indicazione nonviolenta deve essere il tentativo di una politica diversa, delle e nelle istituzioni; una politica del diritto, che ecciti la formazione di leggi che non vietino, che non siano coercitive, ma solo giuste e forti nel rispondere alle domande della nostra epoca; una politica capace di realizzare, nella storia, il massimo di nonviolenza possibile, in una dimensione leggibile e fruibile dal massimo numero di individui.

Questo è il compito storico cui solo la nonviolenza può adempiere, come prassi quotidiana di esercitazione, di cammino verso una realtà e una storia nelle quali le necessarie e ineluttabili scissioni che segnano l'uomo possano essere riguardate con la calma e la serenità dei giusti e dei forti. Questo è un senso non minoritario della nonviolenza, l'unico quindi accoglibile in pieno: creare, rendere visibile e agibile l'alternativa, che dovrà essere alternativa di vita alla gestione del reale che è gestione di morte praticata oggi attorno a noi.

 
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