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Notizie Radicali - 5 febbraio 1983
Caso D'Urso: una sentenza infame assolve la menzogna
Alla III sezione del Tribunale di Roma

SOMMARIO: Assoluzione per "Paese Sera" e "L'Unità": accusavano Pannella di "aver costretto" Lorena d'Urso a definire il padre "boia" durante la Tribuna politica che il Partito radicale aveva messo a disposizione della famiglia D'Urso, nei giorni convulsi del rapimento del giudice da parte delle Br. Inutili le testimonianze di Lorena e dei familiari: sentenza aberrante del Tribunale di Roma. Le motivazioni e i commenti.

(NOTIZIE RADICALI N. 4, 5 febbraio 1983)

"Pannella costringe Lorena D'Urso a definire boia suo padre in TV". Questo titolo campeggiava su Paese Sera del 13 gennaio 1981. Lo stesso giorno, l'Unità non era da meno: "E' stata costretta perfino a leggere le parole dei suoi torturatori, di quegli assassini che, sequestrato il padre da un mese, decisi ad ucciderlo, lo definiscono boia... Per Pannella c'è tutto il nostro disprezzo... questa ignobile messa in scena segna il punto di massima abiezione delle BR e di coloro che si prestano ad appoggiare o a subire i loro ricatti".

Sono giorni del caso D'Urso, tutti li ricordano: il Corriere di Gelli e Rizzoli, Scalfari e il PCI, l'aedo della pena di morte Valiani si uniscono all'ombra della "fermezza". Per merito dei radicali si dipana la sporca matassa: la P2 sta aspettando un nuovo cadavere eccellente, è già pronto uno strano "governo di tecnici". Ma D'Urso torna vivo. Grazie alla famiglia, grazie ai radicali, grazie all'appello drammatico di Leonardo Sciascia, Eleonora Moro e Stella Tobagi che inducono alcuni giornali a pubblicare un delirante comunicato delle BR, del quale nessun democratico potevo davvero aver paura. Ma per la stampa comunista Pannella è un boia. Ha obbligato Lorena D'Urso ad andare in TV a leggere il comunicato delle BR.

Poco importa che Lorena e tutta la famiglia smentiscono. Su Pannella i "toni" sono quelli; e non sono leggeri, visto che sembrano un invito al linciaggio fisico. Pannella e i radicali naturalmente si querelano. Dopo anni, stranamente (vedi NR precedente) i processi vengono tutti riuniti. Il 5 febbraio, l'infame sentenza, degna di magistrati felloni. Il Pubblico Ministero aveva chiesto 8 mesi di carcere (in tali casi evidentemente con la condizionale) per Zollo e Pratesi, rispettivamente direttori dell'Unità e di Paese Sera. Dopo la sentenza, il P.M. si è ovviamente appellato. La partita non è dunque chiusa, e Notizie Radicali intende seguirla fino in fondo: questa sentenza getta fango sulla magistratura, è un affronto alla giustizia, istituzionalizza il diritto alla menzogna e al falso pubblico. Secondo la terza sezione del tribunale di Roma e secondo il giudice Giancarlo Millo, questi giornalisti altro non avrebbero fatto che esercitato un loro "diritto di cronaca". Dei giudici trasformano così il diritto d

i cronaca in diritto di mentire.

Pubblichiamo comunque, di seguito, le motivazioni della aberrante sentenza:

Il querelante lamenta che nei due pezzi redazionali pubblicati il 13 gennaio 1981, si informavano i lettori della partecipazione della figlia del dott. D'Urso alla trasmissione televisiva Tribuna-Flash riservata la sera precedente al Partito Radicale e che i redattori degli articoli gli hanno attribuito fatti specifici lesivi alla sua reputazione. Sottolinea, in particolare, il Pannella, che con l'uso dei verbi "portare", "costringere" ed "indurre", i giornali gli hanno attribuito una coartazione della volontà di Lorena D'Urso, "costretta" a chiamare "boia" il padre nel corso della trasmissione televisiva, allorché diede lettura di una parte di un documento delle Brigate rosse.

Il quesito pregiudiziale che il Tribunale si deve porre è quello relativo alla possibilità che gli articoli incriminati abbiano leso la stima di cui Pannella gode nell'opinione pubblica.

La risposta è negativa.

E' del tutto evidente che nemmeno il più sprovveduto dei lettori può aver dedotto dal titolo e dal testo degli articoli, per cui vi è processo, l'opinione che Marco Pannella abbia formulato minacce gravi o abbia posto in essere raggiri allo scopo di ottenere che Lorena D'Urso leggesse dinanzi alle telecamere lo spregevole documento delle BR.

Appare chiaro anche ad un lettore frettoloso, e certo anche a qualche eventuale disistimatore del Pannella, che allo stesso non veniva addebitato il comportamento criminoso di chi fa violenza all'altrui volontà, ma invece la scelta di mettere uno "spazio" televisivo a disposizione della figlia del dott. D'Urso, ponendo così la stessa nella condizione (necessitata dato il suo comprensibile stato psicologico) di leggere lo scritto delle B.R. e "costringendola" a chiamare "boia" il padre; infatti altra scelta non aveva una figlia cui era offerto l'accesso al mezzo di comunicazione se non quella di tentare di ottenere la salvezza del padre, piegandosi alle richieste di pubblicità dei sequestratori.

I giornalisti, dunque, hanno descritto con l'uso, improprio ma incisivo, dei verbi "costringere" ed "indurre" non un'impermeabile attività di coartazione, come sostenuta semplicisticamente in querela, ma la condotta determinante di chi aveva promosso e reso possibile la comparsa in televisione di Lorena D'Urso e la conseguente inevitabile lettura del documento BR.

Sembra chiaro, a chi non voglia dare una lettura farisaica dei due articoli, che questo era l'unico "messaggio" in essi contenuto, cioè una valutazione di decisa condanna e di aspra critica politica e non una attribuzione di fatti illeciti.

La diffamazione lamentata non sussiste, quindi, sotto il profilo dei fatti attribuiti, per i quali si è esercitato il diritto di cronaca, sia pura accompagnato dall'uso di espressioni di ferma ripulsa della condotta del querelante.

Una questione che viene proposta dalla lettura degli articoli, e che è divenuta secondaria per il successivo intervento del decreto di amnistia, è quella relativa all'uso di espressioni genericamente diffamatorie come "ignobile", "compagno tirapiedi", "cinico calcolo", "abiezione".

L'uso delle espressioni citate non è certo conforme a canoni di anglosassone compostezza nell'esercizio della critica politica.

Peraltro il Tribunale, che nel rendere le sue decisioni non può prescindere dal momento storico in cui opera, deve prendere atto del basso livello di costume cui talvolta scende la polemica politica e dell'uso corrente di espressioni ingiuriose tra avversari politici.

Così si è assistito allo scambio di epiteti non propriamente estimatori tra ministri o si è ascoltato un esponente radicale definire "associazione a delinquere" un altro gruppo politico.

Lo stesso querelante si è distinto per l'uso alquanto esuberante del diritto di critica allorché ha rivolto l'epiteto di "ladri" e "assassini" ad esponenti della maggioranza o ha qualificato come una "infamia" la presente sentenza.

Preso atto di questo squalificante modo di far politica, il Tribunale non vede ragione per censurare l'uso dei termini sopra indicati, che sono considerati come enfatica, pur se deplorevole, espressione di dissenso politico; essi rientrano, dunque, nell'esercizio del diritto di critica, manifestato nella forma più aspra, ma non lesivo dalla personale reputazione del destinatario degli apprezzamenti.

Per queti motivi, visti gli artt. 120 C.P., 9, 10, 136, 470 C.P.P., assolve Zollo e Pratesi dalle imputazioni loro rispettivamente ascritte ai capi D e G perché trattasi di persone non punibili per aver agito nell'esercizio dei diritti di cronaca e di critica.

Condanna il querelante Pannella al pagamento delle spese processuali.

Come si potrà notare, la sentenza fa riferimento ad una dichiarazione di Marco Pannella, che qui riportiamo. Il che è un altro aspetto semplicemente paradossale e abominevole di questa vicenda, visto che con incredibile faccia tosta i giudici equiparano i giudizi su un comportamento all'attribuzione di una cosa falsa (l'aver appunto costretto Lorena D'Urso). Questa comunque la dichiarazione di Pannella: "La sentenza di assoluzione di coloro che usarono linciarmi e linciare il PR, con la violenza di menzogne staliniste e naziste suscettibili di provocare anche il linciaggio fisico per l'enormità e la bestialità di quanto mi veniva attribuito, mi appare ed è una sentenza che aggiunge infamia all'infamia. Tutti gli atti processuali, senza eccezioni, hanno provato che io tentai semmai di dissuadere, in parte riuscendoci, la famiglia e Lorena D'Urso dal leggere il comunicato delle BR che insultava il magistrato da loro detenuto e in procinto, di temeva, di essere assassinato. Il tribunale ha stabilito invece che

coloro che mi attribuivano l'aberrante comportamento di avere costretto - e in quali circostanze - Lorena ad insultare come boia il padre sequestrato, e ad insultarlo dinnanzi a tutta l'Italia, hanno fatto il loro dovere di cronisti esercitando il diritto di cronaca. Mai, credo, un tribunale italiano ha testimoniato di una così infamante e aberrante concezione e del giornalismo e della giustizia. E' mia opinione, infatti, che i tribunali fascisti degli anni trenta non abbiano mai disonorato tanto la verità e la giustizia quanto quello che oggi ha osato emettere questa sentenza, essendo pienamente libero di farlo o di non farlo. Dovrà pure esistere la possibilità di denunciarli per qualcosa, questi signori che così hanno operato.

Mi auguro di trovare uomini e donne giuste e di giustizia che vogliano ora aiutarmi in questo compito, per aiutare la giustizia e vendicarla per la giustizia".

 
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