di Leonardo SciasciaSOMMARIO: Esclude che la categoria degli intellettuali in quanto tale possa essere chiamata a precise responsabilità in ordine all'impegno profuso (o non profuso) dopo l'assassinio del generale Dalla Chiesa: non c'è una categoria degli intellettuali, "ogni intellettuale è una monade" che risponde solo di quel che fa lei stessa. Ma si sente chiamato in causa dall'"accusa" del figlio del generale, il quale deplora che solo dopo l'assassinio lo scrittore abbia rivelato che ad ispirare la figura del capitano dei carabinieri di "Il Giorno della civetta" non era stato Dalla Chiesa. Dichiara di non aver sentito il bisogno di una smentita o precisazione fino, appunto, alla morte del generale, quando lui, Sciascia, rischiò di apparire un "profeta". Ugualmente respinge il rimprovero fattogli, di aver deplorato che Della Chiesa non prendesse sufficienti precauzioni. Così, affermando che Della Chiesa non aveva capito la trasformazione della mafia in "multinazionale del crimine" non si sente responsabile di fare "il gioc
o della mafia". Occorre comunque evitare di mitizzare la figura del generale, come tende a fare anche il figlio. Per questo, lamentare che a Dalla Chiesa non fossero stati dati "certi poteri" è una "mistificazione". In Sicilia la polizia ha già fin troppi poteri. Ribadisce peraltro certi suoi dubbi sul comportamento del generale nell'episodio della morte del brigatista Peci, a Genova, come anche per la sua affiliazione alla Loggia P2.
(L'ESPRESSO, 20 febbraio 1983)
Per ragioni di salute, in questi ultimi tempi ho letto pochissimo i giornali e i settimanali. Avevo già sperimentato, e ora ne sono certo, che a non leggerli si sta forse un po' meglio e sicuramente non peggio. Ma il non leggerli non basta a tenerci lontani dalle notizie: c'è sempre qualche samaritano che ce le porta. Sicché non ignoro che sui giornali è corsa una polemica, avviata da una lettera che ho poi letta del figlio del generale Dalla Chiesa agli intellettuali, all'intellettuale ("Caro intellettuale..."). E la polemica stava tra chi ritiene che l'impegno degli intellettuali sia stato, dopo l'assassinio del generale, non molto vibrante e chi invece ritiene che gli intellettuali non sono tenuti a simili impegni e anzi meglio sarebbe se non li prendessero.
La polemica a me appare alquanto astratta e gratuita. Non solo non riesco a vedere gli intellettuali come corpo a sé, come categoria o corporazione, ma ho del mondo intellettuale una nozione così vasta da includervi ogni persona in grado di intelligere, di avere intelligenza della realtà. Non mi pare si possa restringere il mondo dell'intelligenza a coloro che hanno a che fare con la carta stampata o con altri mezzi di comunicazione: e credo se ne abbia prova nel fatto, quotidianamente verificabile, che tanti che scrivono libri o articoli non sono minimamente in grado di leggere la realtà, di capirla, di farne giudizio. Conosco persone di astrale cretineria che trovano spalancate le porte di case editrici e giornali; e presumo ce ne siano in circolazione, da noi, più di quanti una società bene ordinata possa sopportarne senza cadere in collasso.
Fintanto, dunque, che si parla all'intellettuale come a uno che partecipa di una categoria o corporazione, non mi sento chiamato in causa. Anche ammettendo la restrizione che intellettuali siano quelli professionalmente e sindacalmente definibili in quanto tali, credo si possa senz'altro affermare che ci sono, all'interno della corporazione, tanti singoli tipi d'intellettuale quanti sono per cosi dire gli iscritti. Ogni intellettuale è una monade. E c'è la monade con porta e finestre, e c'è la monade chiusa. E nessuno dovrebbe azzardarsi a giudicare stante le non lontane e nefaste esperienze che la monade chiusa (la propria camera, la biblioteca, il labirinto) merita ostracismo o disprezzo mentre da coltivare, da preferire e da privilegiare è la monade aperta. Ci sono monadi spalancate che sono del tutto cieche, e monadi chiuse che vedono tutto.
Non credendo, dunque, di far parte di una categoria, corporazione o sindacato, se qualcuno mi corre dietro chiamandomi intellettuale, non mi volto nemmeno. Mi volto e rispondo se mi si chiama per nome e cognome: ma a patto, si capisce, che le domande abbiano un senso; che non siano dettate da imbecillità o malafede; che non riguardino cose da me già dette, e cioè già scritte. Il ripetere può essere di giovamento agli ignoranti; ma nell'ambito della carta stampata, di coloro che vi lavorano, l'ignoranza anche se c'è non è da ammettere, come non è ammessa di fronte alle leggi.
Sarebbe, per esempio, una domanda sensata quella che è invece, nei miei riguardi, da parte del figlio del generale Dalla Chiesa un'accusa (non nella lettera al "caro intellettuale", ma nell'intervista ad un settimanale): perché per anni ho lasciato credere che ad ispirarmi la figura del capitano dei carabinieri, nel "Giorno della civetta", fosse stato Dalla Chiesa e solo dopo che Dalla Chiesa è stato assassinato mi sono deciso a smentire?
Confesso che è una domanda cui rispondo di controvoglia, come tirato per i capelli. Ma è una domanda legittima. Ed ecco la risposta: che il generale si identificasse in quella figura, mi faceva piacere e mi pareva (per me e per ogni cittadino che tenesse alle istituzioni democratiche) un fatto rassicurante; e in questi termini una volta ne ho parlato, prendendomi i rimproveri de l'Unità. E mi pareva inutile ristabilire la piccola verità che allora (1961) io non sapevo dell'esistenza di Dalla Chiesa e che, se mai, a darmi l'idea del personaggio era stato il maggiore Renato Candida. Che differenza faceva? Di ufficiali dei carabinieri di quel tipo evidentemente allora ce n'erano più di uno. Ma quando Dalla Chiesa fu assassinato e non solo si scatenò intorno a me, in quanto veggente profeta, la caccia giornalistica, ma il mio editore stesso tornò a fare la pubblicità al libro indirettamente avallando la veggenza, la profezia, mi sono sentito in dovere di dichiarare quella piccola verità che avevo fino allora tac
iuta. Detesto passare per profeta: sono uno che sommando due e due dice che fa quattro. Ma proprio dal Giorno della civetta in poi, quasi puntualmente ad ogni libro che pubblico e ad ogni intervento di un qualche rilievo che faccio, ora da una parte ora dall'altra, c'è sempre chi salta su a dire che ho sbagliato la somma. Salvo poi, di fronte all'accertamento dei fatti, a riconoscermi il dono della profezia. Che non ho.
Sta accadendo la stessa cosa intorno ad un mio articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 19 settembre dell'anno scorso: è saltato su qualcuno a rimproverarmi che due e due non fa quattro, ma tre o cinque. Il figlio del generale arriva ad affermare, in una intervista, che con le mie dichiarazioni avevo fatto "il gioco della mafia", poiché avevo sostenuto che suo padre non aveva capito cos'è il nuovo fenomeno della mafia. E aggiunge: "Mentre è vero proprio il contrario." Affermazione che si può giustificare nell'ordine dei sentimenti e dei risentimenti, ma del tutto inconsistente, di vacua retorica, in ordine alla verità effettuale. Il generale Cappuzzo, uomo d'esperienza e siciliano, ha detto il 29 settembre le stesse cose che io avevo detto il 19. Era stato anzi più esplicito, se ad un certo punto aveva detto: "Questo ufficiale che alla sua età sposa una giovane donna, non voleva probabilmente far pesare su di lei il suo ambiente di precauzioni, di mancanza di libertà, di coercizione, per cui avrà proba
bilmente ecceduto nel senso opposto. In più, confidava che non osassero attentare alla sua vita."
Non aveva capito, insomma, la mafia nella sua trasformazione in "multinazionale del crimine", in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere dei siciliani. La frase che i giornali riferirono come pronunciata dal presidente Pertini "Potevano almeno risparmiare la signora" in effetti muoveva dalla stessa ingenuità da cui il comportamento di Dalla Chiesa è stato dettato: la mafia ormai non solo uccideva giudici, ufficiali dei carabinieri e della polizia, uomini politici dei partiti che la combattevano, ma anche le signore (la moglie di Sirchia davanti al carcere dell'Ucciardone).
Ora io non riesco a capire perché dicendo queste cose si faccia "il gioco della mafia" (lo fa anche il generale Cappuzzo?). Non si fa il gioco della retorica nazionale e familiare, questo sì. Ma dire che si fa il gioco della mafia è gratuita e sciocca diffamazione. Se il figlio del generale Dalla Chiesa continua ad affermare che le cose stanno esattamente al contrario, ha due doveri da assolvere: primo, dimostrare documentalmente che il generale aveva messo le mani su qualcosa che costituisse per la mafia pericolo immediato; secondo, mettersi lui a lavorare stante il suo mestiere di sociologo a una descrizione della mafia attuale che contraddica quella che io ho sommariamente cercato di tracciare. Se non fa né l'una né l'altra cosa, il suo agitarsi e inveire produce nell'opinione pubblica soltanto confusione. Già il generale Cappuzzo, nell'intervista che ho ricordato, constatava che la retorica rischiava di deteriorare la figura di Dalla Chiesa: "Tutto quello che mettiamo di contorno, che tende, diciamo
così, a farne un personaggio da romanzo, finisce col danneggiarlo. Quindi io sarei molto cauto. Stiamo ai fatti. E i fatti sono quelli che conosciamo."
La cautela raccomandata dal generale Cappuzzo non c'è stata. Sicché tirato, come ho già detto, per i capelli debbo, a chi crede di poter dire quello che vuole, dire quel che certamente non ama sentire. Ed è questo: che l'accusare e il drammatizzare sui poteri che in Sicilia non sono stati dati al generale Dalla Chiesa, il far credere che appena avuti certi poteri il generale avrebbe tirata fuori dalla manica una radicale panacea contro la mafia, è una mistificazione. Non si sa quali poteri uno stato democratico può dare a un prefetto, anche se investito di particolari funzioni, senza venir meno alla propria essenza. Già in Sicilia polizia e magistratura hanno poteri sufficentemente acostituzionali, se non anticostituzionali, come quello del ripristinato confino di polizia. Che cosa si vuole oltre: il coprifuoco, la deportazione in massa, la decimazione? Io sono convinto che di poteri il generale Dalla Chiesa ne ebbe già troppi nella lotta contro il terrorismo: e ne è discesa quella legge sui pentiti che
nessuno, spero, verrà a dirmi abbia a che fare con l'idea della giustizia e con lo spirito e la lettera della Costituzione.
Nella relazione che ho consegnato al presidente della commissione Moro il 22 giugno dell'anno scorso (si badi: il 22 giugno 1982) è brevemente fissato un giudizio sul generale che la sua tragica morte non può mutare. Pirandello chiamava i morti "pensionati della memoria": ma dobbiamo sempre pensionarli di verità, non di menzogna. La menzogna è offesa ai morti quanto ai vivi. E lasciando da parte quel che tutti potranno leggere nella mia relazione e sui verbali di audizione che la suffragano (una volta che usciranno dal segreto non segreto in cui per ora stanno), mi fermerò a quel che molti sanno, che se hanno luce di memoria ricordano, che se hanno amore anche minimo alla verità non possono rimuovere: la vicenda Peci e la vicenda P2. Molti sono i punti della vicenda Peci che non mi convincono; e non ultimo quello dell'uccisione dei brigatisti in via Fracchia, a Genova. Non sono per nulla convinto, voglio dire, che quelle persone non potessero essere catturate vive e senza rischi per quei carabinieri che part
ecipavano all'azione. Né posso ammettere che un corpo di polizia bene addestrato, quale il generale diceva fosse il suo, si fosse fatto sfuggire Peci una prima volta semplicemente perché la casa in cui Peci abitava aveva due porte. "Elementare," direbbe non dico Sherlock Holmes, ma qualsiasi sottufficiale dell'Arma, "quasi tutte le case hanno due porte." E in quanto alla P2: non mi convince per nulla che il generale ci fosse entrato (dietro consenso del generale Mino, che era già della P2) per andare a vedere quel che vi succedeva. C'era già suo fratello: poteva farselo dire da lui.
Non sto facendo delle postume malignità. Sto soltanto ricordando cose che, nella euforia celebrativa, si vogliono dimenticare e far dimenticare. Cerchiamo di tirare il collo alla retorica, per come prescrive una buona regola. E cerchiamo di andare avanti, anche senza la retrospettiva illusione (che sarebbe un alibi) che soltanto il generale Dalla Chiesa sarebbe stato in grado di debellare la mafia. Io mi sono rallegrato, e l'ho pubblicamente dichiarato, della sua nomina a prefetto di Palermo; e la sua morte mi ha dato apprensione e dolore e sul piano umano e sul piano della valutazione delle cose siciliane. Ma non bisogna né farne un mito né conseguentemente affogare nella disperazione. Qualche speranza c'è ancora.