SOMMARIO: Il volume edito dal "Centro Calamandrei" raccoglie gli atti di un processo per diffamazione relativo al "caso D'Urso". Nel corso del rapimento da parte delle Brigate Rosse del magistrato Giovanni D'Urso, due quotidiani accusarono il leader radicale Marco Pannella di aver portato in televisione la figlia del rapito Lorena e di averla costretta a leggere un comunicato delle BR in cui si definiva il giudice "boia".
Le querele che ne seguirono e l'intero processo, al termine del quale i due giornali furono assolti, illuminano come viene considerato oggi il reato di diffamazione ed offrono lo spunto per una riflessione aggiornata sul rapporto fra cittadini e mezzi di comunicazione di massa.
Nel volume, oltre alle querele, agli interrogatori di Marco Pannella e Lorena D'Urso, all'arringa dell'avv. Luca Boneschi e alla sentenza, sono riportati quattro pareri "pro-veritate" che il Centro Calamandrei ha chiesto ad altrettanti insigni studiosi della materia: Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco e Pietro Nuvolone.
La loro aspra critica della sentenza e dei suoi principi ispiratori fanno sperare che sia ancora possibile, in una società dominata dai mass-media, tutelare l'onore e la reputazione dei singoli e degli enti in cui si esplica la loro personalità.
("ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?" - Analisi di un clamoroso caso giudiziario - Centro di iniziativa Giuridica Piero Calamandrei - Edizioni di Informazione e Diritto, Roma)
Indice
Angiolo Bandinelli: Democrazia e persona (testo n. 3941)
Premessa (testo n.3942)
IL PROCESSO
L'articolo di Paese Sera del 13 gennaio 1981 (testo n. 3943)
L'articolo de L'Unità del 13 gennaio 1981 (testo n. 3944)
Le querele (testo n. 3945)
L'interrogatorio di Marco Pannella (testo n. 3946)
La testimonianza di Lorena D'Urso (testo n. 3947)
L'arringa di Luca Boneschi (testo n. 3948)
La sentenza (testo n. 3949)
I PARERI PRO VERITATE
Giorgio Gregori (testo n. 3950)
Ferrando Mantovani (testo n. 3951)
Enzo Musco (testo n. 3952)
Pietro Nuvolone (testo n. 3953)
APPENDICE (testo n. 3954)
Articolo da l'Unità dell'11 gennaio 1981
Articolo da l'Unità del 14 gennaio 1981
Articolo da l'Unità del 16 gennaio 1981
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Ferrando Mantovani
Mi è stato posto il quesito se gli articoli, pubblicati sui giornali l'Unità del 13 gennaio 1981, e su Paese Sera del 13 gennaio 1981, dal titolo rispettivamente: »Ignobile: Pannella induce la figlia di D'Urso a chiamare il padre boia e »Pannella costringe Lorena D'Urso a definire boia suo padre in TV , integrino gli estremi del delitto di diffamazione.
In scienza e in coscienza ritengo di dover rispondere nei seguenti termini.
1. Per impostare e risolvere correttamente il problema dei rapporti tra il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e il delitto di diffamazione non è forse superfluo ricordare che la »democrazia , se da un lato si differenzia dalla tirannide perché è »libertà , anche di parola, dall'altro si differenzia altresì dall'anarchia perché è »limite . Inquadrata in questa perenne dialettica, anche la recente storia democratica della informazione e della critica nel nostro paese si è andata sviluppando attraverso una duplice fase, comune del resto a molti altri paesi:
a) una iniziale fase di "liberalizzazione", che in aperta reazione ad un precedente regime autoritario e repressivo si incentrò innanzitutto sul momento garantista della "libertà" di informazione e di critica e sul suo conseguente graduale potenziamento;
b) una successiva e più recente fase in cui - acquistata la libertà di informazione e di critica come concreta realtà operante - si è andata criticamente accentuando l'attenzione anche sul momento degenerativo dell'"abuso" di tale libertà e si è avvertita la conseguente esigenza del rispetto di determinati "limiti" di civiltà da parte dei "mass media" e di tutti i cittadini. E' una incontestabile legge civile che quanto più la libertà è aperta e matura, tanto più vanno perseguiti i più facili e gratuiti abusi. E tale esigenza si è venuta imponendo anche perché si sta assistendo ad una crescente degenerazione della informazione e della critica, in quanto i "mass media" nella loro poderosa espansione, discostandosi in certa misura dall'ideale illuministico del diritto naturale della libertà di pensiero, sono altresì divenuti, da un lato, "impresa commerciale" che deve vendere ad ogni costo il proprio prodotto (anche attraverso il sensazionalismo, lo scandalismo facile e gratuito, la notizia incontrollata purch
é rapida), e, dall'altro, "strumenti di manipolazione e di indottrinamento ideologico-politico": con disinformazione programmata, tendenziosità e deformazione della verità, linciaggio più che dibattito delle idee e discredito delle persone dissenzienti, che portano ad una decrescente considerazione della altrui reputazione e prima ancora della verità dei fatti.
2. Premesso che un diritto illimitato è concettualmente e giuridicamente inconcepibile e premesso, altresì, che in un ordinamento personalistico, come il nostro, trova solenne riconoscimento e tutela costituzionale non solo il diritto di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), ma anche il "diritto al proprio onore" (desumibile, come è noto, non solo dall'art. 2 Cost., ma anche dall'art. 3, ove si tutela la »dignità sociale , di cui l'onore è componente fondamentale), il problema della necessaria ed imprescindibile "conciliazione", in caso di conflitto, di tali diritti è stato risolto, dalla dottrina e dalla giurisprudenza ormai consolidate, sottoponendo il diritto di manifestazione del proprio pensiero ai seguenti limiti (v. Delitala, "I limiti giuridici alla libertà di stampa", in Iustitia 1959, 386; Fois, "Principi cost. e libera manifestazione del pensiero", 1957, 83; Bettiol, "Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero", in "Legge penale e libertà di pensiero", 1966, II; Nuvo
lone, "Il diritto penale della stampa", 1969, 54, 58, 72, 246, 248, e "Cronaca", in Enciclop. dir., 1962, vol. XI; Vassalli, "Libertà di stampa e tutela dell'onore", in Arch. pen. 1967, 29-31; Cass. 19-2-71, in Mass. pen. 1972, n. 1660; Id 22-1-1971, in Cass. pen. 1972, 1555; Id., 17-3-1980, ivi 1981, 186):
1) il limite dell'"interesse" pubblico sociale dei fatti riferiti e delle materie trattate;
2) il limite della "verità storica" dei fatti riferiti od oggetto di critica;
3) il limite della "correttezza del linguaggio", cioè dell'uso di modi espressivi che di per sé stessi non siano lesivi dell'altrui onore (specificamente sul punto v. anche: Cass. 29-9-1964, in Cass. pen. 1965, 775; Id., 8-10-66, ivi 1966, 382; Id., 16-3-1971, in Giust. pen. 1971, II, 141; Id., 24-5-72, ivi 1973, 1216). Non sarebbe, infatti, conforme né alla genesi storica della libertà di manifestazione del pensiero, costituente una conquista non certo indolore nella storia umana, né alla solennità della proclamazione costituzionale della medesima ammettere che sia stato elevato a diritto la contumelia e volgarità del linguaggio, la falsità e menzogna sulle notizie riferite, la rivelazione di ciò che è privo di ogni rilevanza pubblico-sociale, perché attinente alla sfera meramente intima e privata del soggetto. La manifestazione del pensiero che violi anche "uno" soltanto dei suddetti limiti, perché riguardante fatti privi di rilevanza pubblico-sociale o non veri o riferiti con un linguaggio di per sé offen
sivo, esula dall'esercizio del diritto di cui all'art. 21 Cost., come tale non è scriminata ed è penalmente perseguibile, se lesiva dell'altrui onore.
Ebbene, i due articoli giornalistici in questione non violano uno o taluno, ma - a ben guardare - "tutti e tre" i limiti suddetti e, pertanto, integrano ampiamente gli estremi del reato di diffamazione.
3. Per cominciare, gli articoli violano già il limite della "rilevanza pubblico-sociale", pur se muovendo da fatti di interesse pubblico-sociale qual è incontestabilmente una trasmissione televisiva relativa alla vicenda D'Urso. Come viene autorevolmente insegnato (v. ad. es.: Nuvolone, "Il diritto penale della stampa", Padova 1968, 68), "la manifestazione del pensiero non presenta più l'interesse pubblico-sociale quando, prendendo lo spunto da fatti circoscritti (pur se pubblicamente e socialmente rilevanti) dell'attività di un individuo, si abbandona ad attacchi di carattere personale, che trascendono quei fatti ed investono, nella sua dignità, la persona del destinatario della critica. Se non può disconoscersi che più larga dev'essere la »zona di illuminabilità quanto più alta è la posizione pubblica della persona, è altrettanto incontestabile che anche l'Homo publicus" ha una sua intangibile sfera di onorabilità e che la integrità morale della sua personalità non può essere indiscriminatamente aggredita
, in ragione del carattere pubblico di certe sue particolari attività ed opinioni. Facendo propria questa elementare norma di civiltà, la Corte di Cassazione ha avuto modo fin dall'inizio di affermare (ad es. nelle Sent. 6-4-1949, in Giust. pen. 1951, II, 365; e 24-2-62, ivi 1965, II, 850) che »sussiste il reato di diffamazione quando taluno approfitta dell'opera altrui per denigrare volontariamente la personalità dell'autore .
Invero, gli articoli in questione non si limitano ad una critica anche aspra e polemica ma circoscritta pur sempre al ben specifico fatto della trasmissione televisiva e all'atteggiamento assunto dal partito radicale sulla vicenda D'Urso, differenziantesi dalla posizione degli altri partiti: il che avrebbe costituito incontestabilmente esercizio del diritto di manifestazione del pensiero. Ma al contrario, prendendo semplicemente spunto e pretesto dalla suddetta trasmissione televisiva, tali articoli si abbandonano indiscriminatamente ad un attacco personale, che trascende completamente lo specifico comportamento di Marco Pannella ed è rivolto direttamente, frontalmente, alla persona del medesimo, investendone la onorabilità e dignità sotto tutti i profili della sua personalità: umana e politica, morale e sociale.
Tutto ciò emerge, con evidenza, dalla serie di facili constatazioni, che subito Si impongono dalla analisi dei due articoli:
a) perché tali articoli dimostrano che ai due giornali non interessava e non premeva la verità dei fatti, ma una distorta e non veritiera versione dei medesimi, che costituisse l'occasione e in qualche modo l'"apparente supporto" per attacchi di fondo a Pannella, volti a squalificarne verso la pubblica opinione l'operato e la personalità per sottostanti motivi più generali e ben poco attinenti con la vicenda specifica;
b) perché i due articoli fra l'altro collocati non casualmente in prima pagina, sono privi di un qualsiasi "iter logico dimostrativo", ma procedono non per argomentazioni ma per affermazioni aprioristiche e indimostrate, pervengono deliberatamente a lapidarie conclusioni sui rapporti tra Pannella-radicali e Brigate Rosse, con la forza emotiva e la incisività delle lesioni all'onore inferte a colpi di sciabola, ma anche con la sbrigatività delle sentenze da »processi sommari ;
c) perché esiste un incolmabile "salto logico" tra premesse e conclusioni, in quanto il fatto della asserita induzione della figlia di D'Urso a chiamare, a definire il padre »boia , anche se per ipotesi avesse avuto un qualche fondamento di veridicità (ma vero non è), avrebbe potuto legittimare giudizi critici sulla opportunità o meno, sul buono o cattivo gusto, di un siffatto comportamento o sullo stesso tipo di trasmissione televisiva, ma non certo la conclusione circa l'esistenza (o la insinuazione del dubbio circa l'esistenza) di un qualche legame tra Pannella-radicali e B.R., di una qualche complicità o connivenza tra quelli e queste, attribuendo a Pannella la funzione di »compagno tirapiedi delle B.R. e collocandolo tra »coloro che si prestano ad appoggiare o a subire i loro ricatti : conclusione tanto più grave e denigratoria in quanto del tutto immotivata e gratuita;
d) perché il "movente" vero di un siffatto attacco a Marco Pannella e della astiosità del linguaggio usato va, pertanto, ricercato non nel fatto del tutto occasionale e sproporzionato per difetto della trasmissione televisiva in oggetto, ma nel proposito più generale di squalificare come uomo, cittadino e esponente politico, di fronte alla pubblica opinione, prendendo il pretesto dall'episodio televisivo deliberatamente travisato per fare presa sui facili affetti e sentimenti del pubblico, uno dei rappresentanti più significativi di un movimento politico che da tempo si è posto in posizione di critica nei confronti di un partito, di cui i due giornali incriminati costituiscono organi di stampa.
4. Ma altrettanto e ancor più manifesta appare la violazione del limite della "verità storica" degli addebiti. Presupposto logico ancor prima che giuridico del concetto di "cronaca", ma anche di "critica", è che i fatti, da cui questa prende le mosse, siano storicamente veri. La critica potrà concretarsi in un giudizio positivo o negativo, pacato o polemico, ma dovrà pur sempre muovere da dati reali. Senza di che si versa nella pura invenzione, nella mera immaginazione, nella fantacritica. Col proclamare la libertà di manifestazione del pensiero la Costituzione non può avere inteso proclamare il diritto di dire il falso e garantire la menzogna e la malafede. Dal canto suo la L. 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista, impone l'»obbligo inderogabile del »rispetto della "verità sostanziale" dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla "lealtà" e dalla "buona fede" .
Non solo indimostrati nella loro vuota genericità restano tutti gli epiteti ed affermazioni relativi ai rapporti con le B.R. Ma non privi di veridicità anche i più specifici fatti relativi alla trasmissione televisiva, attribuiti a Pannella e frutto di travisamento e distorsioni comprovati. E cioè:
1) l'accusa che Pannella »"ha portato" Lorena D'Urso, figlia del magistrato, a leggere un appello per la salvezza del padre , o »per ciò che ieri sera... "è stata costretta a fare" la figlia di D'Urso nei quattro minuti messi a disposizione con cinico calcolo dai radicali . Accusa che induce chiaramente il lettore degli articoli incriminati a ritenere che la trasmissione televisiva fu programmata, organizzata, gestita nei termini in cui si svolse, dal Pannella, regista presente alla trasmissione stessa, e dai radicali e che questi, in tale quadro programmato, posero in essere una autentica opera di condizionamento nei confronti dei familiari di D'Urso.
In altri termini, i radicali, approfittando dello stato di angoscia in cui versavano costoro per la sorte del familiare, avrebbero costretto Lorena D'Urso a subire le modalità della trasmissione, dai radicali stessi fissate, che ella avrebbe accettato pur di non lasciare nulla di intentato per la salvezza del padre. Il che non corrisponde in nulla a verità perché, dalla deposizione non solo di Pannella ma della stessa Lorena D'Urso e dai chiarimenti fatti dalla medesima all'Ansa dopo aver letto certi commenti stampa sulla trasmissione, risulta in modo inequivocabile:
a) che l'iniziativa dei radicali si limitò solo ed esclusivamente ad una "mera offerta telefonica", riguardante la messa a disposizione della famiglia D'Urso dei 4 minuti della Tribuna flash, per comprensibili ragioni umanitarie;
b) che non vi fu alcun altro contatto della famiglia D'Urso, con esponenti radicali;
c) che la decisione di accettare l'offerta radicale fu presa in assoluta libertà da parte della famiglia D'Urso, dopo consultazioni nell'ambito della medesima;
d) che parimenti la scelta in un primo momento di inviare alla trasmissione televisiva la moglie, e poi la figlia date le condizioni di salute della prima, fu decisa esclusivamente nell'ambito della famiglia D'Urso;
e) che pure la decisione sulle modalità di utilizzazione dello spazio televisivo furono assunte totalmente dalla famiglia D'Urso, che essa sola stabiliì che cosa sarebbe stato detto nella trasmissione;
f) che alla trasmissione partecipò soltanto Lorena D'Urso, senza l'intervento di Pannella o di alcun esponente radicale;
2) L'accusa, altresì, che »Pannella "induce" la figlia di D'Urso a "chiamare" »boia il padre ; che »Pannella "costringe" Lorena D'Urso a "definire" »boia suo padre in tv ; che »ha "costretto" la ragazza a leggere il comunicato dei terroristi ; che la medesima »E' stata costretta "PERFINO" a »leggere le parole dei suoi torturatori . Accusa anche questa risultata in atti del tutto priva di un qualsiasi fondamento di verità;
a) non solo perché si trattò anche qui di decisione presa esclusivamente e totalmente dalla famiglia D'Urso, la quale nel decidere le modalità d'utilizzo dello spazio televisivo ritenne di dare anche lettura del documento dei terroristi di Palmi, la cui diffusione era stata dai medesimi richiesta;
b) ma addirittura perché Pannella, nell'incontro presso la TV con i familiari di D'Urso, espresse il proprio "disaccordo" sulla loro intenzione di leggere il comunicato, consigliando di rivolgere invece un appello alle B.R. e rimettendo comunque ogni decisione ai familiari stessi (»Decidete voi ).
Non può essere condivisa la tesi del Tribunale quando esclude, sbrigativamente, »la possibilità che gli articoli incriminati abbiano leso la stima di cui Pannella gode nella opinione pubblica , poiché sarebbe »del tutto evidente che nemmeno il più sprovveduto dei lettori può avere dedotto dal titolo e dal testo degli articoli che Marco Pannella abbia formulato "minacce gravi" o abbia posto in essere raggiri fraudolenti allo scopo di ottenere che Lorena D'Urso leggesse dinanzi alle telecamere lo spregevole documento delle B.R. Sicché, a giudizio del Tribunale, »I giornalisti hanno descritto con l'uso improprio ma incisivo dei verbi »costringere e »indurre non una impensabile attività di coartazione... ma la condotta determinante di chi aveva "promosso" e reso possibile al comparsa in TV di L. D'Urso e la "conseguente inevitabile" lettura del documento B.R. .
A nostro avviso la tesi del Tribunale già non può essere condivisa "in diritto":
a) poiché per opinione dominante (Spasari, "Sintesi di uno studio dei delitti contro l'onore", Milano 1961, 71; Antolisei, "Manuale, parte speciale", I, Milano 1977, 147; Messina, "Teoria generale dei delitti contro l'onore", Roma 1953, 128) i delitti contro l'onore debbono considerarsi "delitti di pericolo" per la ragione che l'ingiuria non esige che il soggetto passivo si sia sentito offeso nel suo onore, abbia cioè provato una umiliazione, mentre »per la diffamazione non è necessario che il biasimo abbia trovato credito presso coloro che hanno appreso e, quindi, non esige che la reputazione sia distrutta o diminuita ;
b) poiché si riconosce comunque che i delitti contro l'onore si perfezionano, si consumano, allorché e per il fatto che gli addebiti che li concretano vengono a conoscenza di altre persone;
c) perché, come la Suprema Corte insegna, la diffamazione è esclusa solo nel caso in cui la »impossibilità o la incredibilità del fatto addebitato è ASSOLUTA (Cass., 18/12/55, Giust. pen. 1951, II, 1956, II, 385), onde »- il reato sussiste anche se l'addebito infamante sia espresso in forma tale da non dare la certezza, ma da suscitare il "semplice dubbio" che altri possa aver commesso una azione disonorevole - , (Cass., 7/12/1955, Giust. pen. 1956, II, 193). E nel caso di specie non può certo apoditticamente affermarsi, come invece si legge nella sentenza del Tribunale, la impossibilità e la incredibilità assolute degli addebiti e tanto meno il "semplice dubbio", trattandosi di articoli formulati in termini deliberatamente volti a squalificare verso l'opinione pubblica l'agire e la persona di Pannella, come subito diremo.
Ma la tesi del Tribunale non può essere, ancor prima, condivisa "in fatto":
a) perché la lettura degli articoli, nei termini in cui presentano i fatti, induce i lettori, compreso il sottoscritto, a ritenere che Marco Pannella abbia organizzato la trasmissione e si sia comportato durante la medesima in modo da indurre, con pressioni, condizionamenti, suggestioni od opera di convinzione, a tenere quei disprezzati comportamenti che diversamente non avrebbero o avrebbero difficilmente tenuto;
b) perché tale convinzione (e basterebbe il semplice dubbio) è ingenerata nel lettore dalla ripetitività, nel titolo e nel testo, dei termini »costringere , »indurre a partecipare alla trasmissione, a rivolgere l'appello alle B.R., a leggere il loro documento; ed è altresì rafforzata dell'eloquente avverbio »perfino a dai richiami alle »nostre terribili sofferenze e alla »nostra profonda umiliazione per il misfatto posto in essere attraverso gli schermi televisivi;
c) perché l'asserzione, fatta dal Tribunale circa l'uso improprio dei verbi »costringere ed »indurre costituisce, oltre ad un benevolo processo alle intenzioni non confortato dalla palese finalità denigratoria degli articoli, piuttosto un non dovuto atto di difesa degli imputati che una obiettiva valutazione giurisdizionale del contenuto degli articoli incriminati;
d) perché il Tribunale dimentica che l'opera di induzione o di costrizione si pone in essere non soltanto con le »minacce gravi o i »raggiri fraudolenti (indebita trasposizione nel giudizio in questione dei vizi del consenso negoziale!), bensì anche con altre più sottili e subdole forme di pressione, captazione, suggestione, e con lo stesso sfruttamento dello stato psicologico ad es. di angoscia, in cui versa il soggetto consenziente, di cui altri maliziosamente approfittano per fargli compiere ciò che serve ai loro fini.
E quando si leggono gli articoli incriminati il lettore comune non pensa certo - e non c'era bisogno di dirlo in sentenza - ad atti di »minacce gravi o a »raggiri fraudolenti compiuti da Pannella sui familiari di D'Urso e sulla povera Lorena, magari in TV sotto gli occhi di milioni di spettatori. Ma pensa alle suddette forme di captazione, di approfittamento dello stato di dolore, di angoscia, di debolezza psichica e ricattabilità dei familiari di D'Urso per indurli a tenere verso i brigatisti rossi quei comportamenti, da questi richiesti; stati d'animo che vengono strumentalizzati - »con cinico calcolo : non si dice così nell'articolo dell'Unità? - per finalità politiche e partitiche di Pannella e dei radicali. E tutto questo il lettore è indotto a pensare perché gli è stato tenuto nascosto che il Partito radicale si limitò alla messa a disposizione ai D'Urso del proprio spazio televisivo nel tentativo estremo di salvare una vita umana, proprio al limite dello scadere dell'ultimatum delle B.R. e perché es
si potessero disporne, come in realtà ne hanno disposto, nel modo da loro ritenuto più opportuno, senza alcun condizionamento radicale, né diretto né indiretto. E che a certa stampa interessi riferire al pubblico non la verità vera dei fatti ma le apparenti verità di comodo trova conferma nelle eloquenti parole della Lorena D'Urso, quando riferisce che dopo la messa in onda della trasmissione non vi fu alcuna richiesta sul modo in cui si era giunti alla trasmissione da parte dei giornalisti, taluni dei quali preferirono secondo un diffuso malcostume inventare anziché informare ed informarsi, "costringendola" - pur senza »gravi minacce ! - a dare chiarimenti alla Ansa per il ripristino della verità.
5. Manifesta è, infine, la violazione - ed essa sola basterebbe per la sussistenza della diffamazione - del limite della "correttezza formale" del linguaggio, che non solo è espressamente previsto dall'art. 596/4 c.p., ma costituisce la condizione prima dello stesso riconoscimento costituzionale e di un dibattito civile tra diverse ed opposte convinzioni. Come autorevolmente si insegna in dottrina e in giurisprudenza, la critica è "giudizio" e, pertanto, anche nella polemica non può degradare nella contumelia verbale, gratuita ed immotivata. Gli epiteti, le qualificazioni, il linguaggio già di per sé formalmente offensivi non possono assurgere alla dignità di manifestazione di un »pensiero critico . Se non si può pretendere che la critica sia oggettiva, trattandosi pur sempre di interpretazione soggettiva e, quindi, espressione di una visione individuale, che spesso è antitesi polemica, si può e si deve pretendere che essa non esorbiti nell'epiteto ingiurioso, avulso da motivazioni razionali (v. fra gli altr
i: Nuvolone, "Il diritto" pen. cit., 68, 72, nonché: Cass., 8/10/66 Cass. pen. Mass. ann., 1966, 382).
Non una critica legittima, ma un vero e proprio insulto alla personalità del querelante, una contumelia gratuita ed immotivata, debbono considerarsi gli epiteti, le qualificazioni, le espressioni già di per sé offensive ricorrenti nei due articoli e concentrati in così poche righe, parlandosi di cosa »ignobile , di »nostra profonda umiliazione , di »nostra terribile sofferenza , di »cinico calcolo , di »tutto il nostro disprezzo per Pannella, di »ignobile messa in scena , di »massima abiezione... di coloro che si prestano ad appoggiare o subire... i ricatti delle B.R., di »un flash allucinante , di una »azione che definire vergognosa è poco , di »compagno tirapiedi . E che più si può dire su quattro soli minuti di trasmissione?
E a questo proposito non si può non rilevare che il ragionamento del Tribunale è viziato da un'intima contraddizione, quando invoca la scorrettezza della stampa a giustificazione di se stessa.
Il Tribunale infatti:
a) da un lato, espressamente riconosce - e come avrebbe potuto fare altrimenti! - la scorrettezza del linguaggio dei due articoli, che definisce addirittura »deplorevole ;
b) dall'altro, »non vede ragione per censurare l'uso dei termini sopra indicati , in ragione del basso livello di costume cui talora scende la polemica politica e dell'uso corrente di espressioni ingiuriose tra avversari politici;
c) e, infine, fa rientrare per tali ragioni l'uso dei termini sopra riferiti nel diritto di critica.
A questo modo di argomentare è doveroso obiettare:
a) che esso è di principio estremamente pericoloso, perché porterebbe ad una decriminalizzazione di fatto degli illeciti penali sulla base della crescente frequenza degli illeciti stessi;
b) che il problema giuridico, invece, è di vedere se un articolo giornalistico rientri o meno nei limiti costituzionali del diritto di manifestazione del pensiero e, in caso negativo, di coerentemente considerarlo reato e perseguirlo se querela è stata promossa;
c) che eventuale disapplicazione della legge penale non può, notoriamente, mai portare alla abrogazione tacita della legge medesima o al venir meno dell'obbligo del giudice di applicarla;
d) che, scivolando sulla pericolosa china su cui muove la sentenza in oggetto, non si contribuisce certo a migliorare il costume giornalistico e ad elevare il dibattito politico, ma piuttosto si priva la legge penale della sua funzione generalpreventiva e propulsiva;
e) che se il costume giornalistico ed il dibattito politico sono degradati al livello, lamentato dal Tribunale, potrebbe esser dovuto anche al lassismo, al lasciar correre, alla tolleranza di certi giudici.
Quando poi il Tribunale invoca a sostegno della propria tesi il fatto che lo stesso querelante avrebbe fatto uso del diritto di critica in modo non ineccepibile, esso dimentica - per tacere di altre considerazioni - che il nostro ordinamento penale non è incentrato né sulla primordiale legge del taglione, né sul principio privatistico della compensazione delle colpe; onde ciascuno risponde delle proprie azioni illecite come pure degli abusi nell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, se abuso vi è stato e se, naturalmente, viene presentata querela. La verità è che l'intolleranza, la contumelia, il linciaggio morale degli avversari non possono - quale che sia il costume diffuso - non porsi al di fuori del diritto di cui all'art. 21 Cost., comunque siano contrabbandati. Confondere il diritto con il delitto è già pericoloso quando avviene da parte dei giornalisti e degli uomini politici. Ma è cosa ancora più pericolosa e pedagogicamente deformante quando la confusione è legalizzata da pronuncie g
iudiziarie.
E, per concludere, non può neppure accogliersi la distinzione, effettuata dal Tribunale, tra la attribuzione negli articoli in questione di »fatti determinati e le espressioni genericamente diffamatorie come »ignobile , »compagno tirapiedi , »cinico calcolo , »abiezione , rispetto alle quali la questione della loro rilevanza penale sarebbe divenuta secondaria per il suggestivo intervento del decreto di amnistia. Prescindiamo da quest'ultimo rilievo, che anch'esso non sarebbe da condividere perché l'accertamento della illecità penale di tali espressioni non è affatto secondario, né sotto il profilo di principio e della generalprevenzione perché una cosa è assolvere gli imputati per avere esercitato un preciso diritto e altra cosa è proscioglierli in applicazione di un mero provvedimento di clemenza; né sotto il profilo pratico degli effetti civili. Ciò che preme invece rilevare è che con siffatta distinzione si finisce per operare una forzata notomizzazione di un addebito offensivo che presenta una sua insci
ndibile unitarietà, formale e sostanziale. Si tratta infatti rispetto a ciascun articolo di un unico reato di diffamazione, che si articola:
a) nella "attribuzione dello specifico fatto" di aver costretto la figlia di D'Urso a leggere fra l'altro il documento dei terroristi e a chiamare »boia il padre;
b) nella formulazione di un "giudizio critico" pur sempre su tale "specifico fatto", attraverso espressioni di per sé offensive;
c) nel ravvisare in siffatto asserito comportamento di Pannella un fatto di appoggio o di accettazione del ricatto delle B.R., che lo qualifica come »compagno tirapiedi .
In altri termini, si tratta sempre di attribuzione non di mere qualifiche soggettive, svincolate da un qualsiasi fatto storico, né di epiteti ingiuriosi a sé stanti, né di fatti privi di ogni concretezza e individualità storica, bensì di fatti che presentano delle note di specificità e di concretezza tali da presentarli come qualcosa di storicamente individuato e che come tali integrano gli estremi del »fatto determinato di cui all'art. 13 L. sulla stampa, secondo la definizione che ne ha dato la dottrina e la giurisprudenza (v. per tutti Antolisei, "Manuale", cit., 145; Cass., 26/4/69, Giust. pen. 1970, II 322; Id., 15/12/79, Cass. pen., 1981, 1209; Id., 10/3/72, ivi 1973, 482)
E le espressioni ingiuriose, prive di una loro autonomia, si riconnettono ed anzi vengono presentate come logicamente conseguenti agli specifici fatti addebitati, che nei propositi degli autori degli articoli dovrebbero costituirne il supporto ed il fondamento. Sicché ciascun articolo è un insieme unitario di fatti determinati non veri e di giudizi contumeliosi espressi su tali fatti e sul loro autore, che come tali integrano insieme ed inscindibilmente l'aggravante del citato art. 13 e si pongono al di fuori del decreto di clemenza.