I tagli alla siderurgia, la Cee, i politici italianiSOMMARIO: L'analisi e il giudizio fatto dal direttore di "Repubblica" sulla crisi Cee-Governo italiano concernente la produzione dell'acciaio e l'industria siderurgica italiana, trova concorde il Partito Radicale. La disoccupazione è purtroppo un fenomeno con il quale siamo chiamati a convivere; gli si deve dare, quindi, una valenza sociale e governarla responsabilmente per superare la crisi produttiva sociale ed economica che ci sta mettendo in ginocchio.
(NOTIZIE RADICALI N. 32, 25 giugno 1983)
L'editoriale del 5 luglio del direttore di `Repubblica' sulla crisi CEE-Governo italiano a proposito della produzione dell'acciaio e dell'industria siderurgica italiana, ci trova sostanzialmente d'accordo nell'analisi e nei giudizi.
Bruxelles ha certo le sue responsabilità, gravi e generalizzate. L'ignavia politica e istituzionale della Commissione nei confronti del Consiglio, espressione dell'Europa delle corporazioni, delle retrovie ideologiche, politiche, produttive ed economiche dominanti nei singoli paesi, è troppo spesso la regola. Ma anche il Parlamento Europeo non scherza: quando si tratta di fare scelte davvero concrete diventa nella migliore delle ipotesi una palude.
E' possibile che i 79 parlamentari europei (oltre Emma Bonino e il sottoscritto, che ci siamo pronunciati), non abbiano sentito il dovere di intervenire a difesa della politica comunitaria e dello sviluppo politico ed economico oltre che europeo anche italiano?
Coloro che oggi mostrano di preoccuparsi delle conseguenze sui lavoratori e sull'occupazione delle pur inadeguate posizioni della CEE non sono altro che i primi responsabili di una politica che fa esplodere incontrollata e senza alternative la disoccupazione, anziché governarla responsabilmente, tempestivamente, in qualche caso anticiparla, per superare la crisi produttiva, sociale ed economica che ci sta mettendo in ginocchio.
La sinistra - per non parlare della destra, con la sua cecità e la sua sostanziale protervia - non può continuare a cianciare di cultura di governo se non ha la chiarezza e l'onestà di comprendere e far comprendere ai lavoratori ed ai democratici che occorre convivere, probabilmente per almeno un decennio, con la disoccupazione, darle una valenza sociale e un contesto civile ed esistenziale diverso, in alcuni casi - lo ripeto - addirittura "promuoverla contestualmente" alla creazione di nuovi posti di lavoro, di nuovi investimenti, di "protezionismi" (è inutile moralisteggiare!) che almeno valgano qualcosa, ad altro - cioè - che a protrarre, aggravando e generalizzando, il fallimento.
L'andiamo ripetendo da anni nelle "tribune politiche" ed "elettorali" di massimo ascolto, testardamente.
Peggio che parlare al vento. Occorre rivedere immediatamente - e non nel senso confindustriale, ma in direzione esattamente opposta - il significato e la pratica delle casse integrazione: servono al profitto più bolso o selvaggio, anziché all'economia ed alle finalità per cui sono state inventate. E il sindacato - vile - tace, o chiacchiera. Occorre una volta per tutte scegliere l'investimento massiccio, culturale, durissimo nella micro-informatica e nei micro-ordinatori. Su questo, piuttosto che sul plutonio dei Creys-Malville, sarebbe stato fondamentale investire gli oltre 15.000 miliardi che l'ENEL e il parastato italiani hanno gettato nella voragine finanziaria di questo mito energetico, senza senso e fallimentare senza il contesto e gli interessi militari che in Francia ne giustificano in parte la scelta.
Occorre investire, almeno l'1,5% del nostro prodotto nazionale lordo, nel terzo mondo, ma in modo assolutamente alternativo all'attuale metodo; occorre mirare ben fermi sulla "politica del territorio" di Leontieff, o - all'opposto - di Milton Friedman o di Hayek.
Ma questo vale anche per Bagnoli e Taranto, per il nostro "sud". Bruxelles, e qualcuno a Roma, non hanno nulla da dire, per esempio, sui problemi posti dalle opere del regime le più prestigiose, quali le centinaia di migliaia di ettari irrigui che ogni anno andiamo conquistando, con faraonico e signoriliano cipiglio, senza emetter fiato sul loro utilizzo nel quadro di una politica agricola, agro-industriale e agro-alimentare, comune e nazionale che vegeta e regredisce, e trova una sua possibilità di sussistenza solamente sotto la gestione di una mezza dozzina di multinazionali le più potenti del mondo?
Confesso che le elezioni dei Pirani e quelle dei "sinistri", per tacer d'altri, cominciano a parerci stucchevoli quanto tutte le altre. Possibile che non esista altro che il tumore della promozione dell'industria bellica, militare, delle armi oltre che della siderurgia a dover esser difeso, con il silenzio o con il comparaggio, come il vero tesoro della nostra politica produttiva?