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Negri Tony - 14 settembre 1983
SIGNORI DEI PARTITI
di Tony Negri

SOMMARIO: L'intervento di Tony Negri nel dibattito generale alla Camera dei deputati (seduta del 14 settembre 1983) sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro il deputato Tony Negri, eletto nelle liste del Pr, per i reati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, formazione e partecipazione a banda armata, promozione di associazione sovversiva, violazione delle norme sulle armi, tentativo di procurata evasione, sequestro di persona, lesioni personali, violenza privata a pubblici ufficiali, devastazione e saccheggio, furto. Affermando di essere imputato di responsabilità politiche e morali per quanto è avvenuto in Italia sul terreno delle lotte sociali degli anni '70 ma di non aver mai sostenuto né diretto attività terroristiche, riconosce gli errori compiuti dal movimento "Autonomia operaia", in particolare per quanto riguarda l'uso della violenza. Respinge quindi il tentativo di essere giudicato, insieme ai suoi compagni, non per queste responsabilità politiche ma per reati che non ha co

mmesso e di cui viene accusato in assenza di alcuna prova.

(NOTIZIE RADICALI N. 37, 7 settembre 1983)

(...) Il processo "7 aprile" è un processo politico. A differenza di molti garantisti, posso comprendere che lo Stato ed il suo potere giuridico normale, in presenza di un grave pericolo per l'ordinamento costituzionale, abbiano la possibilità di condurre processi politici, ma nel contempo nego che l'ipocrisia formalistica copra questa funzione. Rifiuto il fatto di dovermi difendere da accuse di altro genere ed in altra sede. Affermo il mio diritto di discutere politicamente ciò che è politico.

Mi permetto inoltre di ricordarvi che, quando il processo politico diviene una funzione propria dello Stato, il pericolo di degradazione delle istituzioni è molto forte, e che, quando vince la logica dell'amico - nemico, cadono inevitabilmente alcune regole fondamentali della legittimazione democratica.

Se poi dietro il conclamato pericolo per le istituzioni si nascondono interessi di parte, tali da subordinare un'altissima e delicata funzione dello Stato a finalità politiche contingenti; se di questa estrema necessità si fa merce di compromessi o di discutibili coalizioni, allora, onorevoli colleghi, il problema mi sembra molto grave.

Di ciò dobbiamo dunque discutere, non solo perché qui io sono come rappresentante del popolo e quindi esercitando un'intera rappresentanza politica del paese, ma perché dal giudizio che voi, onorevoli colleghi, siete chiamati ad esprimere non può essere espulsa la natura della cosa che giudicate.

Dunque sono imputato di responsabilità politiche e morali per quanto è avvenuto in Italia sul terreno delle lotte sociali degli anni '70. Non nego queste responsabilità, ed è di questo che dobbiamo parlare: voglio dare semplicemente il mio contributo.

Di quali responsabilità politiche e morali mi sento colpevole? Non certo di aver sostenuto o difeso o diretto attività, associazioni o bande terroristiche. Con il terrorismo non ho nulla a che fare, anzi contro il terrorismo ho sempre combattuto in maniera lineare e coerente e continuo, fuori e dentro la galera. Sono bensì responsabile d'aver partecipato, con scritti e con applicazione del mio pensiero, al Movimento di trasformazione sociale che ha percorso gli anni '70 sul lato delle classi sfruttate; movimento di trasformazione della vita e dei rapporti di produzione che dal 1968, sia pur per breve tempo, si era presentato come maggioranza sociale dinanzi alla minoranza istituzionale, che aveva espresso l'utopia concreta della modificazione delle coscienze e dei rapporti politici, e che si era sviluppato successivamente fino a determinare le durezze e le violenze di massa, che hanno contraddistinto la coscienza antagonistica negli anni della crisi.

(...) Questi problemi non sono stati tolti attraverso la repressione ed incombono ancora su questo Parlamento. la speranza non ha potuto realizzarsi. Certo, nello scontro con forze cieche e reazionarie - spesso, troppo spesso, annidate nella stessa struttura dello Stato, e comunque in alcune corporazioni burocratiche e partitiche - la volontà di trasformarsi ed il movimento si sono talora presentati come elementi eversivi delle istituzioni. Non lo nego, ma chi è senza peccato dentro questa nostra crisi, dentro il travagliato rapporto tra società ed istituzioni, che è senza peccato lanci la prima pietra.

(...) Non so se vi siano state specifiche collusioni tra alcuni giudici e gli apparati partitici e burocratici che sostennero l'operazione 7 aprile. So che, oggettivamente, quella operazione repressiva elevò un muro istituzionale contro alcune forze che chiedevano trasformazione e partecipazione. So che, oggettivamente, quella operazione repressiva valse ad aprire spazi politici ed omicidi al terrorismo. E so che quella operazione valse a salvare, nel nome dell'emergenza repressiva, coalizioni di forze vecchie e nuove che, dentro e fuori le istituzioni, ponevano il loro comune interesse nel blocco di ogni movimento di trasformazione.

(...) Onorevoli colleghi, non sono un pentito né un trasformista ed è per questo che, nel momento in cui rifiuto quanto i facili apologeti dell'operazione "7 aprile" sostengono, posso tuttavia svolgere il tema della responsabilità politica fino al riconoscimento dei mei errori. Illusioni, utopie e spesso effetti devastanti di queste pulsioni hanno attraversato la mia coscienza esattamente come hanno attraversato la generazione del '68.

Vivevamo dentro le cose. Di errori ne ho commessi, ma anche le cose si modificano e non mi vergogno di affermare il mio cambiamento dentro il movimento reale. Mi si accusa di essere stato il cattivo maestro degli studenti della mia università. E' possibile che lo sia stato, ma anche questa volta dentro le cose, dentro la terribile emarginazione di migliaia e migliaia di giovani, a fronte della impotenza delle istituzioni a rispondere alle richieste più elementari che venivano espresse. Non ho mai tuttavia indicato nella violenza la sola ed unica soluzione e, laddove si siano determinate risposte siffatte, queste non possono essere considerate come mio incitamento. Né ho mai ucciso, come ha irresponsabilmente dichiarato in questi giorni un membro di questa Camera, né ho mai organizzato azioni criminali contro la vita e la persona. Mi sono mosso nel mondo di allora tra utopie e reazioni d'ordine, tra domande convulse e risposte di blocco e di repressione. Il problema della responsabilità politica è dunque

più complesso di quanto troppo spesso si voglia ammettere, in particolare quando la mia eventuale responsabilità politica è stata immediatamente qualificata come responsabilità criminale.

Il 7 aprile - non dimentichiamolo mai, onorevoli colleghi! - si colloca in un punto cruciale della straordinaria produzione di leggi eccezionali. Ora, quali sono i contenuti di queste leggi? Li conosciamo. Carcerazione preventiva allungata fino ai limiti dell'ergastolo; divieto della libertà provvisoria, legge sui pentiti, estensione massima dell'efficacia repressiva dell'accusa associativa, ma, soprattutto, eccezionalità delle procedure, implicita configurazione di straordinari poteri dei giudici e degli organi inquirenti, sostanziale fine, dunque, del residuo rapporto di civile dibattimento nella fase istruttoria e di corretta articolazione del regime della prova. Le regole del gioco ne risultano stravolte.

Prendete ad esempio la legge sui pentiti, provate ad immaginare lo svolgimento di un processo in sua presenza. Anche supponendo che in taluni periodi dei diversi aspetti dell'ordinamento giuridico l'efficacia debba prevalere contro la validità, questa prevalenza non può essere portata fino a sconvolgere il regime della prova. Ho sempre considerato lo Stato di diritto una utopia, ne ho sempre sottolineato la fragilità dei meccanismi. Resta pur vero che, prima ed oltre qualsiasi ordinamento giuridico, debbano esistere regole che distinguono il processo dalla prevaricazione e che delimitano il potere.

(...) Dopo quattro anni e mezzo, nessuno di noi ha ancora visto in faccia i suoi accusatori che pure erano detenuti come noi. Vi sono imputati che in quattro anni e mezzo hanno subito un solo interrogatorio di qualche ora, pur essendo disponibili alla collaborazione processuale, ma volendo respingere le accuse che gli venivano mosse. Cito qui per tutti il caso di Luciano Ferrari Bravo, che oggi è denunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e da Amnesty International. Né si comprende perché ben due anni siano trascorsi dalla data del rinvio a giudizio alla apertura del dibattimento, nonostante le nostre insistenti richieste.

Non voglio tuttavia continuare a lamentare violazioni del e dell'opinione pubblica. Il problema è altro. In questo caso è stato infranto il principio della pluralità dei soggetti che partecipano alla giustizia, è stata distolta la condizione nella quale è possibile non solo esercitare il potere di rendere giustizia, ma anche quello di accettare quella giustizia.

Lo Stato democratico fa della divisione dei poteri, tradizionale nello Stato costituzionale, una propria funzione, ma l'ordinamento non è più semplicemente costituzionale, bensì democratico; ed in quest'ultimo non c'è concetto di giustizia che non sia solidamente o almeno conflittualmente stabilito.

Individualmente e collettivamente noi chiediamo di partecipare di questa solidarietà o almeno di questa conflittualità. C'è stato risposto che la rigidità della Costituzione materiale e degli equilibri e dei compromessi storici non o permettevano.

Di che responsabilità politica si parla allora? Di chi? Come e quando?

(...) La mia responsabilità politica la rivendico così, onorevoli colleghi; ma denuncio anche chi ha voluto atteggiarsi a salvatore della democrazia negandone i presupposti.

Posso aver sbagliato, è certo che ho sbagliato, ma questo non giustifica la solidarietà di chi ha prodotto, con il "7 aprile", le condizioni di un "ecologico" disastro del diritto e dell'ordinamento democratico.

Gli errori sono sempre impliciti nelle grandi vicende, ma sono anche presenti nella mia piccola vicenda. Non intendo negarlo. Nel momento in cui rifiuto l'affermazione che l'Autonomia è matrice di terrorismo, non posso negare che contiguità si siano create; ma questo non tanto in quanto il movimento sia stato dal punto di vista organizzativo verticalizzato, come intende l'accusa: al contrario, tanto più le contiguità vi sono state quanto più il movimento è andato sbandando per conto suo. Di morti nel Veneto se ne sono visti solo un anno e mezzo o due dopo il "7 aprile". Prima vi sono state violenze, che condanno, smentendo in quest'aula quanto mi è stato, anche recentemente, falsamente attribuito da alcuni giornalisti. Né mai allora ad oggi ho approvato quelle violenze o ne sono stato responsabile. Insisto tuttavia sul fatto che solo dopo il "7 aprile" la violenza è nel Veneto travalicata in barbaro omicidio, portatovi dall'esterno dai vari Savasta.

Sempre in tema di responsabilità politiche, voglio aggiungere, onorevoli colleghi, altri elementi di riflessione.

La tentazione dopo il "7 aprile" di accettare la solidarietà che nel carcere veniva offerta dai terroristi fu forte, per me e per i miei compagni, in sintonia con quanto la vicenda "7 aprile" aveva determinato nel movimento dentro e fuori le patrie galere. Ma noi resistemmo a questa offerta, contro tutti, davvero contro tutti, in terribile solitudine.

Il Ministero di grazia e giustizia mise i compagni del "7 aprile" nelle carceri speciali assieme ai terroristi. Il buon senso, che si coniuga normalmente alla necessità di sopravvivenza, avrebbe voluto che cercassimo un modus vivendi; la nostra storia, la nostra responsabilità politica non ce lo concessero; malgrado gli scontri quotidiani e le non sempre inefficaci condanne a morte, riuscimmo invece a costituire e a consolidare quel polo della dissociazione politica, a ricostruire quell'identità di militanti per la vita contro la morte, contro la violenza terroristica, e insieme contro il carcere e la tortura; insomma, un fronte della speranza per la trasformazione.

La dissociazione politica dal terrorismo non la dichiaravamo per noi, ma per tutti coloro che il combinato disposto della repressione e di una stravolta ansia di lotta aveva spinto nelle braccia del terrorismo. Erano migliaia e migliaia di giovani, di donne, di proletari. La dissociazione politica divenne la nostra bandiera, contro le leggi del pentitismo, per una soluzione politica di quegli anni di piombo.

Signori deputati, credete forse che questo sia facile , o addirittura ipocrita, come taluno ha detto, trattandosi di "semplici parole?" E allora provatevi voi a dire quelle "parole" nel carcere di Palmi nel 1979, o in quello di Trani dentro la rivolta del 1980, o in quello di Cuneo, dove furono assassinati due ragazzi, rei di aver ceduto alla tortura, o o in quello di Rebibbia, quando venivano, nel 1982, lanciati contro di noi reiterati messaggi di morte!

E credete che sia facile dire "parole" come ritrovamento di identità comunista e dissociazione politica, quando l'onore di questa dichiarazione è stravolto dai media, dai persecutori di regime, e la parola "dissociato" serve ad identificare 'o animale Pasquale Barra?

E allora provatevi voi a fare questa politica, quando la sordità dei giudici e degli uomini dei partiti distrugge le condizioni stesse della ripresa di una democratica riqualificazione dei soggetti che hanno condotto, con errori ma con qualche generosità, lotte di trasformazione!

Ma, nonostante tutti gli stravolgimenti, quella nostra battaglia ha conseguito positivi importanti successi, travalicando gli stessi margini del numero pur rilevante dei detenuti politici, per diventare indicazione di massa a tutta la popolazione detenuta. Oggi assistiamo a grandi lotte carcerarie, nelle quali sono venute meno le strategie delle grandi cosche e gli irresponsabili atteggiamenti degli irriducibili, che sempre spingono verso l'esasperazione della lotta, e si definiscono momenti di apertura all'ordine democratico e a quella dialettica oggi necessaria alla soluzione del problema del carcere.

(...) Le condizioni di civile trattamento carcerario e di pesante eccezionalità giurisdizionale, impostesi durante il periodo dell'emergenza, vanno sottoposte a critica e gradualmente eliminate. Che di questa tendenza ci sia un avvio va dato un segno. Una inversione di tendenza è necessaria e matura, anche per evitare (non è minaccia, Né ricatto, ma semplice previsione) che la disperazione, avvitandosi su se stessa, possa produrre nuove eccitazioni terroristiche e nuove pulsioni di morte, nelle carceri e fuori.

Ma non guardiamo tanto alla disperazione quanto alla speranza di una generazione travolta nel circolo vizioso terrorismo - repressione; schiacciata, senza altri mezzi di espressione, dal blocco istituzionale dello sviluppo politico; portata dalla vicenda storica italiana ad una ricchezza di desideri e di spinte trasformative che non trovavano soddisfazione. Guardiamo alla speranza di una generazione che ha, con gravi errori, concepito un sogno di giustizia. La peste ha toccato questi giovani, ma non li ha uccisi.

I miei compagni, io, tutto quello che attorno alla cifra "7 aprile" viene ricondotto, onorevoli colleghi, siamo questo. Un rapporto tra passato e presente, una speranza di trasformazione che chiunque ha desiderio di operare può con noi coltivare. Una tragedia politica, di cui tutti siamo per la nostra parte responsabili, che va risolta.

Non incarcerateci nuovamente, onorevoli colleghi: sarebbe un segno negativo, il senso di un arresto di una tendenza necessaria, una nuova terribile delusione sulla capacità della democrazia di risolvere le sue contraddizioni.

 
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