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Sciascia Leonardo - 14 ottobre 1983
Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: I giudici, per non essere inibiti ad esercitare la propria professione, respingono ai margini della coscienza la preoccupazione dell'errore, e vogliono sentirsi confortati da un'assenza di critica sul loro operare: questa situazione di privilegio ha fatto sì che in Italia i tribunali siano diventati altari: l'amministrazione della giustizia ha assunto un che di religioso, di imperscrutabile e l'opinione pubblica ha perso il diritto di vigilanza e di critica sui casi che presentano oscurità. Anche questo è un problema che riguarda il caso Tortora, non solo quello della sua colpevolezza o della sua innocenza.

(Il Corriere della Sera del 14 ottobre 1983)

Jacques de Pressac, diplomatico cui debbo ottime traduzioni in francese di alcuni miei libri, una diecina d'anni addietro, parlando del caso Calas e del "Trattato della tolleranza" di Voltaire, di cui si dibatteva nel "Contesto" che avevo da poco pubblicato, mi disse: "Ma sa che Voltaire può essersi sbagliato?"; e mi promise di farmi avere un libro in cui si ragionava del possibile errore di Voltaire. E puntualmente me lo inviò in dono.

E' un volume della serie "Enigmes et Drames judiciaires" che l'editore parigino Perrin pubblicò intorno al 1930. S'intitola "L'affaire Calas", autore Marc Chassaigne. Ma confesso di non essere andato, nella lettura, molto al di là della prefazione: e non per il timore di scoprire che Voltaire si era sbagliato. Lo ammetto anzi, il suo errore, come probabile. Ma che importanza ha che si sia sbagliato? Importante è che sulla giusta o errata visione dei fatti sia nato il "Trattato della tolleranza".

Come epigrafe alla prefazione, Chassaigne mette una frase di una lettera in cui Voltaire, nel 1762, dice di conoscere soltanto gli elementi in favore di Calas: il che gli par poco per prendere decisamente partito. E', da parte di Chassaigne, una insinuazione. Vero è che Voltaire, alla data della lettera, aveva già preso partito, ma non mancò, nei mesi successivi, di prendere conoscenza anche degli elementi di accusa: che lo confermarono nel partito già preso.

Con questa preliminare insinuazione, che Voltaire abbia preso partito senza conoscere tutti gli atti del processo, riesce impossibile credere a Chassaigne quando nella prefazione dichiara di voler rimettere al lettore la scelta tra le ipotesi che il libro svolge del caso Calas e di non preferirne, per conto suo, alcuna. Di queste tre ipotesi - dice Chassaigne - una, quella di Voltaire, ha avuto la meglio e corre per il mondo; ma sembra dimenticare che su una delle altre due, che gli pare siano rimaste in ombra, Jean Calas fu impiccato. In quanto alla terza, non avendo letto tutto il libro, ho l'impressione, però non infondata, che sia un'ipotesi media, volta a non dare intera ragione a Voltaire e non intero torto ai giudici: e par di capire che il segreto desiderio di Chassaigne sia quello che, ove il lettore non si convinca dell'errore di Voltaire, accetti almeno l'ipotesi di un torto e di una ragione non nettamente assegnabili ma di cui in ugual misura partecipano i giudici che hanno condannato a morte Cal

as e Voltaire che ne ha riscattato l'innocenza. E in ciò dimenticando che, presentando come dubbioso il caso, il torto resta sempre da assegnare ai giudici: poiché il dubbio è assiomatico che vada sempre in favore dell'imputato.

Per mio conto, formulo una ipotesi su Chassaigne: che fosse uno di quei funzionari della pubblica amministrazione o un giudice che - come frequentemente in Francia - marginalmente alla loro attività, o una volta in pensione, si occupano di cose che stanno tra la letteratura, la storia e la loro professione.

Inclino anzi a credere fosse un giudice: poiché soltanto un giudice può avere tanta sensibilità professionale e corporativa da assumersi, anche a tanta distanza di tempo, la difesa di altri giudici e muovendo, in definitiva, dalla più o meno sommersa convinzione che gli errori giudiziari non esistano o che sempre e comunque abbiano delle giustificazioni.

E pur laicamente combattendo contro una simile credenza o presunzione, bisogna ai giudici concedere qualcosa, almeno nel senso di capirli: esercitano una professione che per definizione deve stare "al di sopra", e quindi in condizione di isolamento; una professione difficile e di quotidiana inquietudine. E sarebbero inibiti ad esercitarla se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell'errore. Hanno bisogno anzi, singolarmente e ancor più in quanto corporazione, di credere impossibile l'errore.

Poiché la società li ha delegati a punire la violenza con la violenza (la violenza di condannare un uomo alla perdita della libertà, senza dire di dove lo si può ancora condannare alla perdita della vita), hanno bisogno di sentirsi sicuri, confortati, se non da un continuo e generale consenso, da una generale indifferenza e comunque da un'assenza di critica sul loro operare. Da ciò l'afflato corporativo, per cui soltanto da loro e tra loro può farsi distinzione tra i migliori e i peggiori, e l'irritabilità ad ogni critica che venga dal di fuori.

E li si può capire, ripeto: ma al tempo stesso senza cedere di vigilare su questa loro credenza o presunzione e di combatterla quando con più evidenza si manifesta. La delega di giudicare non è stata data a tutti i giudici e a ciascuno una volta per tutte; la società, l'opinione pubblica, ha il diritto di vigilanza e di critica su ogni caso giudiziario che presenta oscurità e contraddizioni e di far distinzione tra i giudici migliori e i giudici peggiori; e la loro professionalità (parola oggi abusata: e forse per il fatto che in ogni branca e categoria la si sente venir meno) non è così assoluta e invalicabile da non consentire che l'occhio estraneo o, se si preferisce, profano, vi penetri e vi si soffermi. E anzi: nessuno, anche se sprovvisto di ogni supporto diciamo tecnico, si può considerare estraneo e profano riguardo all'amministrazione della giustizia.

Presupponendo la scienza del cuore umano alla pari di quella dei codici, e magari in maggior misura quella del cuore umano, l'amministrazione della giustizia riceverebbe anzi danno da una eccessiva professionalità. Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur rassegnarsi al paradosso - doloroso per quanto sia - che non si può essere giudice tenendo conto dell'opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto. Alla somma delle proprie inquietudini, bisogna preventivare l'aggiunta di quelle che verranno dall'attenzione che l'opinione pubblica dedica a certi casi. E questo vale per ogni latitudine, per qualsiasi paese in cui i tribunali non siano stati mutati in are.

Ma appunto in Italia si manifesta una certa tendenza a tal mutamento. E forse è da dire, meno foscolianamente, in altari: ricordando quella proverbiale espressione per cui lo scoprirli è operazione di verità (e lo scoprire altari e altarini dovrebbe essere funzione assidua di coloro che hanno a che fare con la carta stampata e con altri mezzi che comunicano e formano opinione). L'amministrazione della giustizia, insomma, viene assumendo un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile - e con conseguenti punte di fanatismo.

Elementi che hanno contribuito a questo stato d'animo, che ormai circola come sangue nel corpo della magistratura, a questa situazione di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza ad ogni critica in cui pare la magistratura tenda ad arroccarsi, sono stati - a dirla sommariamente - questi: l'ordinamento di assoluta indipendenza che si è voluto - giustamente - dare al potere giudiziario e in cui però, di fatto, è insorta la dipendenza partitocratica; il vuoto che è venuto in sé promuovendo il potere esecutivo e che è stato come un invito (e una necessità) a che il potere giudiziario lo riempisse; la confusione in cui il potere legislativo si è abbattuto.

Con quanto ho detto finora non credo di aver divagato rispetto al caso di cui oggi si dibatte e che va sotto il nome di Enzo Tortora. Ho voluto dire che il problema non è soltanto quello dell'innocenza o colpevolezza di Tortora, ma d'ordine generale, di tutti gli italiani e di ognuno. Quand'anche Tortora risultasse, al di là di ogni dubbio, responsabile dei reati di cui è imputato, il problema sussisterebbe negli stessi termini e coloro che lo agitano e continueranno ad agitarlo resterebbero comunque nel giusto.

A chi domanda - e si irrita - perché proprio sul caso Tortora lo si agita, è facile rispondere: perché appunto su questo caso, per la notorietà del protagonista, abbiamo avuto le informazioni necessarie alla formazione di una opinione, di un giudizio.

Anni addietro, un mio amico - e amico di tanti "intellettuali" - è stato arrestato con grave imputazione. A tutti coloro che lo conoscevano, un giornale chiese opinione sul caso: e tutti abbiamo risposto che lo credevamo innocente (come era e, grazie a Cesare Terranova, fu riconosciuto). Dopo di che il giornale mosse un demagogico attacco a tutti quelli che si erano dichiarati per l'innocenza, accusandoci di spirito di consorteria, e che non avremmo fatto le stesse dichiarazioni per un qualsiasi poveraccio. Attacco, come si vede, di assoluta gratuità; e della stessa natura di quelli che oggi vengono mossi a chi esprime critiche al comportamento dei magistrati nel caso Tortora. Vi occupate di Tortora - hanno l'aria di dire - perché è un privilegiato e lo volete privilegiato anche di fronte alla giustizia. E si insinua persino che agiscano, in chi lo difende, interessi economici. Ignobile insinuazione, bassamente intimadatoria. Si difende Tortora per difendere il nostro diritto, il diritto di ogni cittadino, a

non essere privato della libertà e a non essere esposto al pubblico ludibrio senza convincenti prove della sua colpevolezza.

Personalmente, dell'innocenza di Tortora sono sicuro. Ma mi sarei trattenuto - a meno che non me lo avessero chiesto, come allora quel giornale - dall'esprimere pubblicamente questo mio giudizio se, un giorno dopo l'altro, attraverso quella che si suol chiamare fuga di notizie (e non è, poiché evidentemente alle notizie viene dall'interno aperta la porta e consegnate a fidate mani), non mi fossero stati forniti gli elementi che rendevano oggettivo il mio giudizio.

La magistratura campana può protestare quanto vuole se non ammette che quella che definisce "un'iniziativa giudiziaria contro la malavita organizzata" è stata, a dir poco, frettolosa e caratterizzata da un'allarmante percentuale d'errori.

Invece che rivolgersi alla stampa con qualcosa di simile al "Ragazzino, lasciami lavorare!", dovrebbe almeno rispondere, se non a tutti gli italiani al Consiglio superiore della magistratura (e ci sarebbe poi la fuga di notizie), se è vero che duecento persone sono state arrestate per omonimia (arrivando a trattenerle in carcere anche per tre mesi, come un povero marittimo di Eboli, e speriamo non ce ne siano in carcere altri); se è vero che in un paese campano una diecina di persone di uguale cognome sono state arrestate per trovarne una sola accusata di appartenere alla camorra; se è vero che al momento in cui contro Tortora è stato spiccato mandato di cattura a suo carico c'era soltanto la denuncia di due "pentiti" e il numero di telefono trovato nella rubrica di un non pentito; e se un siffatto modo di fondare un mandato di cattura non finisca con l'incoraggiare coloro che non hanno nulla da perdere al divertimento di far mettere in galera quanti e chi a loro piace; se è vero che la trovata di accusare T

ortora di aver profittato dei soldi raccolti per i terremotati sia stata provocata da un anonimo e afferrata a volo come diversivo; se è vero che la testimonianza del Margutti, il cui passato gli è stato sbandierato in televisione, faccia parte dei cardini dell'accusa; se è vero che tutti gli elementi che si crede valgano a dare immagine di un Tortora dedito a delinquere escano sollecitamente, e in violazione del segreto istruttorio, dall'ufficio stesso che quel segreto dovrebbe mantenere (e non si vede da quale altro ufficio possano uscire, se camorra o servizi segreti non vi hanno nascosto microfoni). Sono domande che attengono alla "professionalità". E lasciamo da canto quelle che riguardano la coscienza.

 
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