Governo e partiti immobilizzati dal debito pubblicodi Mario Signorino
SOMMARIO: L'articolo intende mettere in evidenza come la legge finanziaria di quest'anno aggravi le situazioni verificatesi negli anni passati quando il Governo, avendo una grande propensione a giocare con i numeri, fissò cifre prive di qualsiasi giustificazione sapendo già in partenza di non poterle rispettare (in realtà il Governo più che governare i fatti economici, si preoccupa di governare l'informazione delle sue manovre finanziarie). Il deficit della Stato ammonta a 400 mila miliardi e ogni governo ha sempre affermato che sua preoccupazione maggiore era quella di ridurlo. Si può invece constatare che la legge finanziaria non fa niente di tutto ciò; si finisce quindi col tagliare le spese essenziali (sanità, pensioni, investimenti). In sintesi, il Governo può solo controllare in qualche modo gli effetti di un meccanismo su cui non riesce più ad intervenire e quando ciò si verifica vuol dire che si è entrati in una fase di estremo pericolo per la democrazia.
(NOTIZIE RADICALI n. 44, 25 novembre 1983)
Quando si tratta di cifre (e dei soldi dei cittadini) governo e parlamento battono tutti i record dell'opinabilità. Così il bilancio dello Stato e la legge finanziaria diventano una sorta di generale finzione, in cui il governo finge di fissare traguardi e obiettivi, il parlamento finge di discuterli, la maggioranza finge di crederci, l'opposizione di opporsi.
L'esperienza degli anni scorsi ci aveva convinto che i governi hanno grande propensione a giocare con i numeri, a fissare cifre prive di ogni giustificazione, sapendo già in partenza che non le rispetteranno. La legge finanziaria di quest'anno conferma la regola, anzi l'aggrava.
Il testo della legge era stato da poco reso noto che già cominciavano le critiche e le smentite dei centri studi diretti da rappresentanti della maggioranza (Ruffolo, Andreatta). Poi la relazione di maggioranza redatta dal senatore Carollo: il governo afferma che nel l984 l'indebitamento dello Stato non supererà i 130 mila miliardi? Il relatore di maggioranza si chiede: "E' realistico immaginarlo?". Il governo fissa un "tetto" di 90 mila miliardi per il fabbisogno di cassa; il relatore di maggioranza si chiede: "E' realistico inmaginarlo?". Anzi precisa: il "tetto" non sarà inferiore a 105 mila miliardi.
Questa legge viene dunque votata da una maggioranza che dichiara in documenti ufficiali che essa dice il falso. Non c'è da meravigliarsi: in privato neanche i ministri economici credono a quello che dicono in pubblico. In realtà, più che di governare i fatti economici, il governo si preoccupa di governare l'informazione sulle sue "manovre" finanziarie. Il maestro in quest'arte pubblicitaria resta Spadolini, che ha costruito le sue fortune elettorali fissando un "tetto" dopo l'altro con clamore, salvo a far passare nel silenzio gli sfondamenti ad opera dei soliti ignoti.
Ma se è la stessa maggioranza a mettere in discussione la reale portata della manovra economica del governo, qual è la giustificazione dei tagli della spesa sociale, dei sacrifici imposti ai cittadini? E' semplice sadismo? Nient'affatto, il problema è molto più grave: il governo non controlla quasi più nulla, non controlla la spesa pubblica, le "manovre" sono tali solo di nome; sicché la situazione continua fatalmente ad aggravarsi.
Lo Stato italiano ha un debito di 400 mila miliardi (secondo le affermazioni del ministro Goria in Commissione bilancio del Senato). Il governo di Craxi, come tutti quelli che l'hanno preceduto, dichiara che la riduzione di questo debito è la
sua preoccupazione principale. Ma quando si va a verificare le cifre reali, si vede che la nuova legge finanziaria non affronta assolutamente il problema, non alleggerisce la situazione, ma anzi l'aggrava.
Bastano poche citazioni. Anche se, per assurdo, le cifre date dal governo fossero veritiere e attendibili, le conclusioni non cambierebbero: l'indebitamento per il 1984 passerebbe da 95 mila a 130 mila miliardi, il 50 per cento in più rispetto al 1983. Il saldo netto da finanziare passerebbe da 73 mila a 92 mila miliardi; gli interessi sul debito pubblico da 43 a 57 mila miliardi; e rimborso prestiti da 19 a 51 mila miliardi. Queste ultime cifre sono impressionanti: nel prossimo anno lo
Stato dovrà pagare 108 mila miliardi di lire, un terzo della spesa totale, per interessi passivi e rimborso prestiti.
C'è un piano del governo per ridurre questo vincolo spaventoso? La legge finanziaria dice che non c'è. Non resta quindi che tagliare le spese essenziali - la sanità, le pensioni, gli investimenti -, e non per attuare riforme o migliorare la condizione dei cittadini, ma solo per mettere pezze a una situazione ormai incontrollabile e in via di costante peggioramento. La parola d'ordine è: "tirare a campare".
E campano infatti, quelli dei partiti, anche bene. Hanno una filosofia che pare ispirata dal direttore del Censis e consigliere del segretario dc, Giuseppe De Rita, con trovate di sapore hegeliano-idealistiche o, se più piace, panglossiane. In questi anni De Rita ha rifatto la storia economica e sociale d'Italia giustificando qualunque stortura e qualunque squilibrio. Avviene il "boom" economico, nei modi che conosciamo, provocando enormi contraddizioni e squilibri nella società italiana? Niente paura, De Rita assicura che tutto va bene perché era quello l'unico modo in cui poteva determinarsi il "boom" economico. Finisce il "boom" e inizia la rincorsa delle richieste di servizi pubblici, infrastrutture, sicurezza sociale, cioè la corsa allo Stato assistenziale? Anche su questo il sociologismo di regime invita a una riflessione in positivo, in quanto lo Stato assistenziale ha superato gli squilibri prodotti dal precedente "boom", irrobustendo così la struttura sociale. Viene meno la possibilità stessa dell'a
ssistenzialismo, i servizi pubblici (già molto carenti, del resto) vengono sgretolati poco a poco dall'iniziativa dei privati? Anche in questo caso De Rita ci invita a non essere pessimisti perché "il pendolo ha ripreso a nuoversi" e ci sarà infine una sintesi positiva anche in questa vicenda. Soprattutto invita a non preoccuparsi troppo del debito pubblico, perché le percentuali non sono in realtà quelle ufficiali, le statistiche non tengono conto del sommerso e così via. Peccato che, quando la spesa per interessi e rimborsi assorbe un terzo delle uscite dello Stato, non c'è sommerso che tenga.
La macchina dello Stato non regge più, è bloccata anche sul piano economico. Si parla di bancarotta e non si esagera per niente. C'è un debito pubblico enorme che non si riesce in alcun modo a frenare; abbiamo problemi sociali sempre più acuti, esigenza di nuovi progetti di sviluppo che mancano. E' con questo fallimento delle istituzioni che bisogna fare i conti, al di là delle speranze nella vitalità della società italiana. Ed è su questo punto che le proposte e le critiche avanzate dal Pci in parlamento lasciano insoddisfatti: non disegnano un progetto alternativo a quello del governo, non indicano alcuna soluzione al problema del debito pubblico.
Così l'azione del governo si esaurisce nel tentativo di controllare in qualche modo gli effetti di un meccanismo su cui non riesce più a intervenire. E' come se il governo fosse un operatore che non conosce né controlla la macchina che è in funzione e la macchina andasse avanti per conto suo, con l'operatore attento solo a "limare" qualcuno degli effetti prodotti.
Perché succede tutto questo? Perché controllare la spesa significa governare nel vero senso del termine, mentre in questo caso ci si limita ad attendere, in un tentativo di durata che non ha alcuna possibilità di riuscire, se non per pura casualità.
E badate che stiamo parlando solo di entità della spesa, non della sua qualità o produttività, non dell'efficienza dei servizi che dovrebbero essere assicurati dalla macchina statale, a cominciare dalla sanità. Eppure è da questo che nasce un problema che comincia ad avere effetti devastanti nel rapporto tra le forze politiche, il sistema dei partiti nel suo complesso, e i cittadini: il problema della burocrazia pubblica, che sperpera le risorse del paese senza fornire in cambio alcun servizio apprezzabile. Si formano così reazioni di intolleranza crescente nei confronti di una politica che appare tanto più dura quanto più è irragionevole; i sacrifici che si impongono non sono mai finalizzati in maniera chiara, non rientrano mai in un progetto cui si possa indovinare l'esito, sono solo inevitabili perché i margini di manovra del governo sono sempre più ridotti al minimo. Non potendo tagliare la spesa dovuta al lievitare del debito pubblico, al governo non resta che tagliare la spesa sociale. In cambio, i ser
vizi peggiorano sempre più. Se ne preoccupano? Certo, ma tutto va bene purché si riesca ad evitare di fare scelte serie, di cambiare la politica e, quindi, in primo luogo i partiti. Continuando così di anno in anno, a chi si rinviano le scelte?
Ci sono interlocutori, assenti dalle sedi istituzionali, che attendono. Un anno fa, ad esempio, il problema del debito pubblico è stato posto in maniera ultimativa da De Benedetti. Nessun governo - affermava in un'intervista alla "Repubblica" è capace di superare con mezzi democratici questo problema; occorre perciò sottoporre lo Stato a un periodo di "amministrazione controllata". Tutti i maggiori leaders industriali, del resto, mostrano velleità crescenti d'intervento diretto nella politica. Agnelli parla di un "progetto di sviluppo" che dovrebbe avere a protagonisti i grandi industriali. Fantasie?
Quando l'incapacità (l'impossibilità, forse) della classe politica di governare i fatti economici si salda con la crisi ornai verticale del sistema partitico, vuol dire che si è entrati in una fase di estremo pericolo per la democrazia.
E' quello che tentiamo di far capire da tempo. Da anni proponiamo nuove priorità per la politica di bilancio e la politica generale del governo, chiediamo "riforme senza spesa" capaci di dare un senso alla stessa azione dello Stato. Ci chiamano utopisti, eppure la cosa più utopica è sperare di poter controllare la spesa pubblica, mettere ordine nelle finanze dello Stato, nell'attuale quadro partitico, senza un rinnovamento radicale della politica.