A proposito di fascismo e regole del giocodi Angiolo Bandinelli
SOMMARIO: In questo articolo Angiolo Bandinelli riprende la polemica a cui hanno dato vita Marco Pannella e Mario Signorino su Notizie Radicali n. 39 del 21 settembre 1983 (testo n. 2215), in cui Pannella metteva in risalto il profondo senso delle regole del gioco e della certezza del diritto di Mussolini rispetto alla mediocrità della classe politica postfascista che "che sgoverna e dilapida la nostra società". Per Signorino non si può fare un'analisi storica in maniera semplificata solo per mettere in risalto i mali dell'attuale stagione politica. Del resto Signorino ricorda come nella mozione del Congresso di Torino del 1972 si disse che la Dc aveva consolidato l'eredità del partito fascista nelle istituzioni politiche italiane. Per Bandinelli l'analisi di Pannella si muove su quella linea di revisione storica secondo la quale il fascismo fu una "coerente" risposta ai problemi posti dalla crisi storica dello stato liberale; »almeno fino ad un certo punto, il fascismo appare come uno sforzo convergente di
posizioni laiche, giuridiche, teoriche, statuali che cercano di costruire lo Stato "moderno" .
(NOTIZIE RADICALI n. 44, 25 novembre 1983)
Dunque, meglio Mussolini e, con lui, la sua classe dirigente e il suo Stato corporativo-fascista del codice Rocco oppure la classe dirigente del post - e antifascismo, con il suo Stato corporativo-assistenziale e l'attuale sfascio delle istituzioni? La domanda potrebbe appartenere ad uno di quei giochi "culturali" oggi in voga, grazie ai Placido e ai Biagi, in TV.
Ma a formularla è stato, ricapitolando un ventennio di riflessioni e di giudizi radicali, Marco Pannella. Pannella, anzi, non pone la domanda, vi risponde: "...A farlo (Mussolini n.d.r.) tragicamente grande fu il suo profondissimo - al punto di essere forse quasi inconsapevole - senso del diritto, delle regole del gioco, dello Stato. In questo senso egli fu ed è infinitamente più vicino alla grande tradizione della destra storica, della civiltà giuridica, della certezza del diritto come fondamento del patto sociale, in una parola ad un aspetto costitutivo della civiltà moderna ed alla richiesta dei popoli, degli umili, dei cittadini, di quanto non sia la classe dirigente postfascista, che è frutto putrido ed anche ``la forza'' del regime che da un quarantennio sgoverna e dilapida la nostra società..." ("Notizie Radicali", n. 39, 21 settembre '83). Sulla stessa pagina di "N.R." questo giudizio, dalla cui bilancia esce vittorioso il duce del fascismo, viene almeno in parte respinto, tra diffidenze e repulsioni
, da Mario Signorino. A suo parere, il "richiamo al passato" è fatto da Pannella in modi "semplificati e unidimensionali", per la preoccupazione preminente di "far risaltare, per contrasto, la mediocrità dell'attuale stagione partitocratica". La semplificazione "ostacola - secondo Signorino - la comprensione di una analisi che nelle sue grandi linee rimane valida". Per correttezza, sempre secondo Signorino, un giudizio storico non può essere fatto "a dispetto della cronaca"; e la cronaca del fascismo è piena di avversari politici eliminati non "di diritto" ma "di fatto", in modo estremamente "pesante"; come è possibile parlare di un "profondissimo" senso delle regole del gioco, del diritto e dello Stato, quando si giudica un dittatore?
Per capire quanto afferma Pannella, io credo non si debba dimenticare che un certo tipo di analisi storica, decisamente controcorrente, non è nel Partito radicale un fatto occasionale. Il Partito radicale è nato su una profonda, complessiva rilettura della recente storia italiana cui si devono importanti risultati (e basti qui pensare alle analisi sul significato e l'importanza del clericalismo, anche nelle vicende legate alla nascita e al consolidarsi del fascismo). E uno dei capisaldi di questa rilettura storica è stata, sempre, la profonda, drastica pregiudiziale "anti-antifascista". Per il Partito radicale, i partiti "antifascisti", tutti, hanno la responsabilità di aver proseguito e persino perfezionato nelle sue principali eredità il fascismo, ben oltre la Resistenza. Ricordiamo qui la mozione del congresso di Torino del 1972 ("...il regime corporatico, interclassista, autoritario, clericale, violento e corrotto della Dc mostra d'essere sempre più solidamente insediato, così come lo fu, negli anni '30,
il PNF, nel nostro paese..."). Il giudizio portato oggi su Mussolini sembra anzi, almeno in apparenza, capovolgere quello del 1972. Ma, forse, solo in apparenza.
La revisione del fascismo è oggi non solo di Pannella; ad essa lavora, puntuale, la critica storica, specialmente quella non italiana: il fascismo fu una "coerente" risposta ai problemi posti dalla crisi storica dello Stato liberale e dei suoi valori, differenziandosi in questo, profondamente, dal nazismo. Tale differenza viene unanimamente riconosciuta. Almeno fino ad un certo punto, il fascismo appare come uno sforzo convergente di posizioni laiche, giuridiche, teoriche, statuali che cercano di costruire lo Stato "moderno", alla cui messa a fuoco aveva cooperato parte della cultura avanzata italiana ed europea già dalla svolta del secolo. La crisi della società liberale è profondissima, e in trenta anni se ne esce dappertutto, in vie e modi differenti: il fascismo è "uno" di questi modi, con una sua piena legittimazione. La "volontà di potenza", con la sua sovrapposizione del momento politico alla società civile, all'economia e alle stesse istituzioni, è una forza ideale di straordinaria efficacia nella co
struzione di uno Stato e di un'etica "immanenti", capaci di rompere con il passato conservatore e la sua cultura tradizionale. Lo Stato, adesso, si autolegittima in piena autonomia e crea quindi il "suo" diritto, che rifiuta e nega ogni ipotesi di "diritto di natura". Il fascismo è infatti reazionario e tradizionalista, in un impasto che è a suo modo creazione originale della cultura del tempo, quindi di destra e illiberale, ma proprio per questo coerentemente anticonservatore ("futurista...").
E' vero che, parallela alla costruzione dell'edificio statuale, come ricorda Signorino, c'è la bastonatura dell'avversario politico, il suo assassinio, anche. Quello fascista non è l'assassinio del tiranno, del potente, proprio della tradizione anarchica: è l'assassinio dell'avversario anche quando già reso impotente. Esso infatti è finalizzato alla eliminazione di una opposizione etica. E' l'assassinio "moderno", necessario e "giustificato" quando si ha da costruire il "grande" progetto statuale. Trotzskj era "politicamente" pericoloso per Stalin, i Rosselli non lo erano, per Mussolini. Ma nei Rosselli, in Gobetti, il fascismo individua giustamente una alternativa "di valori"; per questo li sente temibili anche nella loro inerme debolezza e nella loro già consumata sconfitta. Ma, appunto, Mussolini è convinto di dover assolvere ad una missione di fondazione statuale necessaria, e quindi si assume la responsabilità di eliminarli; perché portatori di valori "altri" e "diversi".
Questi filoni di resistenza al fascismo, al suo Stato e alla sua etica sono l'opposizione che più profondamente avverte la natura del fenomeno che sta sconvolgendo l'Italia, e più incisivamente gli si confronta. I Rosselli, i Rossi, i Terracini continuamente ricordati da Pannella, apparentemente i più "vinti", sono in realtà gli unici che riescano a costituire un "nocciolo" duro e antagonista, non intaccato dalle illusioni del "condizionamento", dell'"entrismo", o magari della "occupazione del potere" da parte della "classe", collocata nel campo opposto ma sempre egualmente organica ad uno Stato che si vuole tendenzialmente senza opposizioni etiche e quindi politiche.
Quando lo sforzo di edificazione fascista si esaurisce, e mentre verso il centro del potere tornano ad affluire, in un sordo rigurgito, forze passatiste ed arretrate, conservatrici insomma, le forze "innovatrici" disordinatamente e forse contraddittoriamente presenti nel fascismo avviano un moto centrifugo, alla ricerca di nuovi approdi. Ma non rinnegano i propri valori, le proprie speranze, la propria cultura. Le forze più attive dell'antifascismo e del postfascismo emergono dall'interno stesso del fascismo e dai suoi quadri di punta. Negli anni '30, Togliatti rivolge del resto un appello alla gioventù fascista perché abbandoni il fascismo "in quanto ha tradito la rivoluzione". Molti anni più tardi, Ruggero Zangrandi, nel momento in cui constaterà che "tutta la classe di potere" postfascista proviene dai quadri del GUF e dei Littoriali, si suiciderà. Per Zangrandi, la scoperta è lacerante: egli scaglia addosso a quella classe dirigente la contraddizione, per chiedergliene conto, ma questa non accetta la sfi
da e fa muro, compatta, contro la sua disperata richiesta. Ma il suicidio di Zangrandi è "antistorico". L'unica grande matrice robustamente presente nel paese, dalla quale potessero emergere i quadri dirigenti, politici, del postfascismo era quella fascista. Di lì defluiscono marxisti, cattolici, fascisti "puri" e varie loro combinazioni, tutti protesi - con espressione davvero illuminante - al "superamento" dello Stato liberale; tutti alla ricerca (tranne poche frange "liberaldemocratiche" diventate presto succubi delle logiche di potere) della "terza via" che vada oltre al capitalismo e al socialismo reale.
Nessuno dei partiti postfascisti rivendica a sé l'opposizione etica dei Rosselli, la matrice libertaria di Rossi, l'intransigenza calvinista di Gobetti. Questi partiti anzi cercano, non meno del fascismo, di liquidare tale eredità (la vicenda di un Calosso, la triste fine di un Rossi sono cose di ieri) a partire dalla Costituzione. Ernesto Bettinelli ha spiegato bene che la Costituente post-bellica edifica la partitocrazia, non la democrazia.
Dunque, continuità, conferma dei giudizi del 1972. Oggi, però, questa partitocrazia è lacerata da vecchie e nuove contraddizioni. Come già il fascismo, il postfascismo antiliberale, antinonviolento e antilibertario non ce la fa a gestire il blocco organico che ha tenuto in piedi per quaranta anni. Tutto entra in crisi, per motivi positivi e negativi insieme, che entrano in conflitto o sommano i loro effetti. Ma a questo punto i partiti non riescono a trovare altra via di scampo se non la rottura consapevole delle regole del gioco, al posto delle quali irrompono l'arbitrio, la illegalità, la sopraffazione, la violenza, la pura consunzione di leggi ed istituzioni. Nulla che, nemmeno per un istante, adombri o riecheggi il dibattito ideale sullo "Stato nuovo", sugli errori delle democrazie fondate su ristretti ceti oligarchici e i loro egoismi, sugli sbocchi da dare, in termini etici, al montare della crisi. Ancora una volta i Gobetti, i Rosselli, i Rossi, i Calosso, i Terracini sono liquidati, accantonati; e co
n loro qualsiasi ipotesi di vecchio liberalismo di destra, con il suo profondo, ma essenziale, senso del limite del diritto. Ancora una volta, liberalismo autentico e nonviolenza sono (insieme, non contrapposti, non diciamo sciocchezze) battuti e ignorati; da una violenza che non ha nemmeno, come quella fascista, la "grandezza tragica" della "volontà di potenza", "fondatrice" di statualità.