di Mario SignorinoSOMMARIO: Un referendum contro i reattori veloci al plutonio è stato proposto dagli Amici della Terra in un dibattito tenuto a Roma il 31 maggio. L'iniziativa mira a colpire la politica europea che fa perno sul Super-Phénix-1, il primo grande reattore veloce realizzato in campo internazionale per iniziativa della Francia e con una consistente partecipazione italiana. Si tratta, in particolare, di far ritirare questa partecipazione attraverso l'abrogazione di una leggina di undici anni fa, approvata su misura per consentire all'Enel di partecipare a società straniere per la costruzione di impianti nucleari (legge n. 856 del 18 dicembre 1983).
La proposta verrà sottoposta a tutti i movimenti, le associazoni e i partiti per creare un fronte il più ampio possibile. Sarà il punto di partenza per il rilancio della campagna antinucleare in Europa. Come nel periodo fra le due guerre, negli anni '20 e '30, torna a trionfare l'Europa dei mercanti e dei produttori d'armi, degli affari e delle corporazioni, incurante delle responsabilità internazionali verso se stessa e il mondo, disinteressata ai valori e alle libertà, solo attenta agli interessi di una mediocre ragion di stato.
(NOTIZIE RADICALI N. 66, 14 marzo 1984)
Il plutonio costituisce il mito estremo del nucleare detto civile: il suo sbocco finale, "inevitabile". Su di esso sono state già investite risorse tre volte superiori a quelle spese per la messa a punto dei reattori convenzionali. Ma lo sviluppo di questa tecnologia, ha seguito vie diverse da quelle del mercato, è stato un affare di Stato e di Stati. Non a caso è dovuto passare attraverso la sconfitta degli stati Uniti nel braccio di ferro che li ha opposti, negli anni '70, ai concorrenti europei e al conseguente affermarsi di quel nazionalismo tecnocratico che oggi, dalla Francia, si riversa sull'Europa.
Chi è abituato a considerare gli Usa solo in termini di "boia" non darà alcun peso alle ragioni di mercato (ottimizzazione dei ritorni dei grossi investimenti sui reattori convenzionali) e politiche (rischi di proliferazione) che li hanno indotti a battersi contro una prospettiva ravvicinata di diffusione dei reattori veloci. Non ci hanno badato neanche i nuclearisti europei. E così, oggi la tecnocrazia francese impone all'Europa le sue scelte e, con esse, la tentazione irresistibile di un nuovo e più rovinoso Concorde.
Senza sostegno, interessi e obiettivi extraeconomici, la tecnologia dei veloci non avrebbe resistito alle difficoltà incontrate: gli alti costi, che ne compromettono la competitività; i problemi di sicurezza, tuttora risolti in modo insoddisfacente; le difficoltà di ritrattamento su vasta scala del combustibile irraggiato, che allontanano le prospettive di penetrazione della filiera ben oltre il tempo politicamente valutabile. Infine, le interferenze con il settore militare, che ne fanno il più sfuggente fattore di proliferazione nucleare in Occidente come nel Terzo mondo. Ma non è detto che gli interessi politici bastino a imporre sui mercati il sistema degli autofertilizzanti.
Infatti, se i costi e i rischi risultano moltiplicati rispetto agli stessi reattori convenzionali, non per questo le prospettive sono più ambiziose. Neanche con i reattori più veloci, il nucleare può aspirare a superare il ruolo marginale che occupa nel bilancio energetico mondiale: le dimensioni degli attuali programmi nucleari, fissate dalle sconfitte e dalle difficoltà degli anni '70, segnano rigidamente anche i limiti delle prospettive future.
Il sogno nucleare è stato nettamente ridimensionato dall'impatto con la realtà e, ora che anche il plutonio esce dal mito, appare chiaro quanto sia intrinsecamente modesto e insieme avventurista, fin nella sua proiezione strategica più ambiziosa. Sono infatti crollati i due pilastri su cui poggiava lo sviluppo dei veloci: la necessità del loro avvento e la loro competitività.
Il prossimo assioma, fondato sulla paura di un rapido esaurimento delle riserve di uranio, è stato smentito dai fatti. Il secondo sarebbe sostenibile solo a costo di una grave forzatura della logica economica, a costo di imporre alla collettività oneri finanziari e vincoli politici pesantissimi e di contraddire gli stessi interessi delle industrie nucleari. Nessuna ragion di Stato può far passare scelte così irrazionali. Nessuna tecnologia, per dirla con Dominique Finon, può durare senza solide basi economiche.
Di contro a vantaggi inesistenti, ci sono i rischi certi di carattere politico. E, in primo luogo, la proliferazione degli armamenti atomici. Il problema va considerato in modo realistico e globale, tenendo conto sia degli elementi tecnici che di quelli politici. Tecnicamente, è certo che uno Stato avrebbe vie più semplici per dotarsi di ordigni nucleari. Ma è altrettanto certo che l'acquisizione di impianti e tecnologie civili è, dal punto di vista politico, la via più sicura, indolore e quindi più facile per costituire al momento opportuno un arsenale nucleare.
Non si può negare che la commercializzazione dei reattori veloci moltiplicherebbe i punti di contatto tra usi civili e militari dell'atomo. Si sa che non c'è alcun sistema di controllo internazionale veramente efficace. Si sa anche che sono sottovalutati gli effetti che la necessità di controllare i trasporti di ingenti quantità di plutonio avrebbe sulle libertà civili e politiche.
Chi nega questi problemi fa opera di disinformazione grave, vuole nascondere la realtà. Basterebbe ricordare il bombardamento israeliano del reattore irakeno di Tamuz nel giugno 1981 per dimostrare in quale conto sono tenute degli Stati - non dagli antinucleari - le assicurazioni sull'atomo pacifico. E le autorevoli prese di posizione, in Francia, sull'uso del plutonio del Super-Phénix per l'arsenale atomico francese?