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Crivellini Marcello, Signorino Mario - 14 marzo 1984
DOSSIER: DAGLI AIUTI MI GUARDI DIO...
di Marcello Crivellini e Mario Signorini

SOMMARIO: Ampi stralci del dossier, diffuso in marzo, che ha rivelato le insufficienze del sistema di aiuti ai paesi del terzo mondo e posto la necessità di una totale svolta politica.

Il fallimento dell'aiuto pubblico dell'Italia ai paesi sottosviluppati.

(NOTIZIE RADICALI N. 66, 14 marzo 1984)

L'appello di Myrdal

Cessare l'aiuto pubblico allo sviluppo? Il problema è stato posto nel 1980 da Gunnar Myrdal, premio Nobel 1974 per l'economia. Richiamandosi agli effetti controproducenti registrati nei paesi sottosviluppati, Myrdal prospettava l'opportunità di cessare gli aiuti allo sviluppo per limitarsi a interventi di emergenza nei casi di carestia.

La provocazione di Myrdal - tale sembrava, anche perché riferita alla politica di cooperazione della Svezia, la più avanzata del mondo - non ha avuto alcun esito. Eppure non veniva da un nemico della cooperazione internazionale, ma da un suo caposcuola, protagonista del dibattito sul sottosviluppo fin dagli anni '50.

La sua posizione è stata successivamente ripresa da altri studiosi, come Bauer e Yamey. (1) Altri ancora si chiudevano nel pessimismo, come Joan Robinson: "... oggi non è facile guardare ottimisticamente alla situazione del Terzo mondo. L'unico contributo che l'analisi economica può sperare di offrire è quello di rimuovere alcune illusioni e di aiutare gli uomini di buona volontà a vedere qual è la situazione in cui effettivamente si trovano...". (2)

E' tutta una corrente critica, che ha fornito apporti di grande rilievo allo studio del sottosviluppo e ha rimesso radicalmente in discussione gli schemi teorici, gli indirizzi operativi e la gestione degli aiuti internazionali, proponendo approcci nuovi e più efficaci. Le critiche di questi studiosi non sono mai state dettate da visioni moralistiche o meramente solidaristiche delle relazioni internazionali, ma poggiano su valutazioni di carattere economico e strategico. Adesso registrano la propria sconfitta: è importante chiedersi e capire perché ciò avviene.

Quando le idee non cambiano il mondo

Sul piano culturale, si sono imposti. Hanno messo a nudo i pregiudizi economici che giustificavano la pretesa di trapiantare nei paesi sottosviluppati gli stessi itinerari di sviluppo delle economie occidentali. Sotto l'etichetta dello "sviluppo", infatti, sono passate e continuano a passare politiche inadatte a risolvere i problemi specifici delle società sottosviluppate, con i risultati fallimentari e tragici a tutti noi.

Lo studio delle realtà del sottosviluppo ha indotto a mettere in discussione il culto dei tradizionali indicatori economici, a dare concretezza all'analisi economica, a elaborare strumenti e approcci appropriati alla diversità dei problemi.

Sono stati così individuati gli obiettivi primari della distribuzione delle risorse e della soddisfazione dei bisogni essenziali delle popolazioni, quali fattori attivi della qualità dello sviluppo e del suo stesso ritmo. E man mano che le vecchie politiche della crescita economica si rivelavano inadatte a spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo, la povertà e la malnutrizione sono state identificate come i principali ostacoli all'utilizzazione ottimale delle risorse e quindi allo sviluppo stesso.

Culturalmente, ormai, questa critica si è fermata. Ma non è riuscita a cambiare il mondo: si è spuntata contro la forza degli interessi costituiti e oggi appare più disarmata che mai. Né i suoi argomenti, infatti, né i risultati fallimentari degli aiuti sono valsi a intaccare nella sostanza i pregiudizi degli economisti e dei politici. Pregiudizi duri a morire, anche perché funzionali agli interessI che dominano i paesi sviluppati e comunque componenti essenziali della cultura delle classi dirigenti.

L'attacco alla povertà, inteso come volano dello sviluppo, è stato neutralizzato con la formula dell'"investimento sull'uomo". Una formula priva di valenza teorica, che riconduce nel generico un'intuizione che esigeva invece un capovolgimento dell'approccio tradizionale. Basta il termine "investimento" per rimettere in circolo il vecchio concetto di "sviluppo", indifferente alle particolarità delle situazioni e soprattutto ai bisogni più critici, incompatibili con i tempi lunghi. Un'altra cortina insomma, più sottile e pericolosa, innalzata contro lo sforzo di capire la realtà e di agire di conseguenza.

La formula dei "basic needs", banalizzata da un consenso generale quanto di facciata, è stata così riassorbita dall'ideologia dello "sviluppo", da perseguire quale effetto indiretto di quell'ordine economico internazionale che ha prodotto e alimenta il sottosviluppo.

Un sistema fuori controllo

Defilato da ogni rischio di innovazione, l'aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) continua a dispiegarsi in completa autonomia; ma è un sistema ormai fuori controllo e cieco, condizionato da vischiosità di ogni tipo, sostenuto da fortissime aggregazioni di interessi che abbracciano industriali, consumatori e operai dei paesi industrializzati, come anche gran parte delle classi dirigenti del Terzo mondo.

Su questa attività si è venuta stratificando negli ultimi anni una burocrazia sterminata: un'autentica giungla di enti e sottoenti, con migliaia di addetti e ingenti spese di gestione, che per i proprio mantenimento assorbe quote rilevanti degli stanziamenti "per lo sviluppo".

Con il tempo, questo agglomerato in gran parte parassitario si è assuefatto a vivere della tragedia del sottosviluppo e della fame ed è diventato un fattore potente di "controproduttività" (nell'eccezione di Illich) e di resistenza a ogni tentativo di innovazione.

Gli ostacoli più forti, tuttavia, sono altri. E' la commistione degli aiuti con gli interessi commerciali e strategici dei paesi sviluppati; è l'uso degli aiuti come strumenti di politica estera, di guerra economica e diplomatica. Uno stravolgimento di finalità che spiega bene gli effetti insignificanti o addirittura controproducenti della politica degli aiuti, l'aggravamento che ne è derivato della dipendenza dei paesi in via di sviluppo (Pvs).

Basti pensare all'indebitamento estero di questi paesi, giunto ormai agli 800 miliardi di dollari. Per molti di essi il servizio del debito, che nel 1982 ha superato complessivamente i 130 miliardi di dollari, rappresenta il 70 per cento o più dei proventi delle esportazioni. E' un vincolo pesantissimo sulle prospettive di sviluppo specialmente dei paesi più poveri, ma rappresenta anche una mina per il sistema finanziario internazionale.

Ancora più grave il coinvolgimento dei paesi sottosviluppati nello scontro tra i blocchi, con l'"importazione" dai paesi del Nord, assieme alle armi, di politiche aggressive. Oggi molti paesi in via di sviluppo sono dominati da complessi militari/industriali che destinano quote sempre più rilevanti di risorse all'acquisto di armamenti, aggravando l'inflazione e l'indebitamento con l'estero, abbandonando parte della popolazione nella povertà assoluta.

Gli aiuti internazionali sono uno dei fattori indiretti ma centrali di espansione delle spese militari dei Pvs e, quindi, da questo punto di vista, uno dei principali ostacoli di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Che molti regime del Terzo mondo perseguano politiche di contrasto con i bisogni fondamentali dell'uomo, è un dato non secondario del dilemma del sottosviluppo.

Secondo un recente studio, nel 1980 ben 54 paesi sottosviluppati, con una popolazione complessiva di un miliardo di persone, erano retti da regime militari. Da allora la situazione non è certo migliorata: ed è doveroso accennare allo sviluppo abnorme del fenomeno dei rifugiati - le stime ufficiali danno una cifra di 14 milioni - (3) un dramma che solo da lontano richiama quello, assai più limitato, degli apolidi che nel periodo fra le due guerre vagavano da una frontiera all'altra dell'Europa.

Il "realismo" degli interessi comuni

Oggi la politica internazionale degli aiuti suscita uno scetticismo analogo a quello che accompagna le trattative per il controllo degli armamenti. La sua evidente sterilità ha favorito la caduta degli interventi multilaterali e il disimpegno di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti. La recessione economica e persistenti riflessi degli shock petroliferi hanno fatto il resto.

Non è solo questione di capitali: se ci si avvia a una sconfitta di portata storica, non è solo per l'inadeguatezza delle risorse destinate ai paesi sottosviluppati. E' pur vero che gli aiuti allo sviluppo hanno assorbito nell'ultimo ventennio centinaia di miliardi di dollari. Se dunque, fossero stati correttamente indirizzati non dovremmo registrare oggi l'aggravarsi della dipendenza dei Pvs dal Nord industrializzato; non dovremmo registrare in molti di essi l'accentuarsi degli squilibri regionali e di classe, l'estendersi dell'area della povertà assoluta e della morte per fame, il continuo degrado della stessa qualità della vita pubblica, fattore non secondario di una prospettiva di sviluppo.

Limitarsi a discutere del livello dei flussi finanziari vuol dire avvitarsi in un'alternativa senza uscita: il "reaganismo" da una parte e, dall'altra, una posizione di solidarismo omogenea agli interessi che dominano il sistema internazionale degli aiuti.

Lo conferma una recente ricerca di Leontief e Duchin: anche se i paesi ricchi convertissero in aiuto allo sviluppo quote di risorse oggi assorbite dagli armamenti, entro il 2000 la situazione dei paesi più poveri del Terzo mondo rimarrebbe drammatica, a meno di profonde trasformazioni politiche e sociali nei paesi destinatari. (4)

E' la constatazione della inutilità degli aggiustamenti parziali in un meccanismo governato da logiche controproduttive. Occorre rimettere sui piedi la politica di cooperazione internazionale con un cambiamento radicale dei suoi obiettivi, delle risorse, della metodologia d'intervento. Su questa esigenza vanno convergendo analisi scientifiche, nuove posizioni politiche, posizioni di carattere etico e religioso. Occorre però un obiettivo talmente forte da poter intaccare il "realismo" degli interessi costituiti.

Il caso italiano: sprechi e assistenzialismo

L'ipotesi della cessazione dell'aiuto pubblico allo sviluppo, da Myrdal avanzata per la Svezia, va a maggior ragione prospettata per l'Italia come un passaggio obbligato per aprire, contestualmente, una fase nuova.

Nel quadro negativo degli aiuti internazionali, infatti, il caso italiano non fa eccezione ma presenta anzi distorsioni ancora più accentuate. Lo dimostra in maniera inequivocabile l'analisi della spesa del Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo che presentiamo in questo documento.

La sommarietà dei dati ufficiali ci ha indotto a delimitare rigidamente l'indagine, rinunciando a ogni pretesa di completezza. Tuttavia gli elementi raccolti sono più che sufficienti per esprimere una valutazione seria e definitiva. Per un'analisi esauriente rinviamo comunque al recentissimo studio di Alessandro Monti - "Economia politica dell'aiuto pubblico allo sviluppo. Il sistema italiano di cooperazione con i paesi in via di sviluppo: un'analisi critica" - , (5) che ci è stato prezioso.

Il quadro che ne emerge è quello di un disastro irrimediabile. A parte l'inadeguatezza degli stanziamenti, ancora lontani della media Ocse e dagli impegni assunti in sede internazionale dall'Italia, il Dipartimento ha dimostrato scarsissima capacità di spesa riuscendo a tradurre in spese effettive non più del 50-60 per cento degli stanziamenti. E' chiaro che ha dimensionato le spese per l'aiuto pubblico alle proprie capacità operative, invece di adeguare la propria organizzazione alle esigenze definite in sede politica.

In verità, è tutta la politica del Dipartimento a muoversi in maniera contraddittoria rispetto agli indirizzi fissati per l'Aps:

- dispersione estrema degli interventi su un ventaglio amplissimo di paesi, tale da coprire metà della superficie terrestre e più della metà della popolazione mondiale;

- netta prevalenza degli interventi di importo irrisorio, inferiore ai 50 milioni;

- scelta dei paesi destinatari degli aiuti operata in base alle esigenze della nostra politica di approvvigionamento petrolifero e alle possibilità di forniture e commesse, in netto contrasto con le direttive del Cipes;

- ritardi e cattiva qualità degli aiuti alimentari, non di rado rifiutati in passato dai paesi destinatari.

Ma soprattutto l'impossibilità di verificare gli effetti degli interventi, di valutarne sia pure in minima parte l'impatto sulle economie e sulle società destinatarie dell'aiuto. E' vero che la domanda è in gran parte retorica: serve tuttavia a mettere in evidenza che il Dipartimento, non solo non è in grado di valutare la propria azione e di correggerne gli errori, ma opera soprattutto in maniera casuale, al di fuori di qualsiasi programmazione, a seconda delle sollecitazioni che gli si riversano dall'esterno. Un vuoto di progettualità e di decisioni, che appare funzionale solo a un assistenzialismo di piccolo cabotaggio a favore delle imprese italiane. Neanche l'aggregazione di grossi interessi, dunque, a parte il sostegno indirettamente fornito alle imprese italiane esportatrici di armi. Non è da sottovalutare, infine, lo spreco di rilevanti risorse finanziarie.

Un passato duro da morire

Sarebbe un grave errore sottovalutare la portata dell'analisi che abbiamo sommariamente anticipato e non trarne conseguenze adeguate. Non siamo in presenza di una politica fallita solo per disfunzioni di carattere amministrativo. Il problema è di qualità diversa: incalzata dalla campagna radicale contro lo sterminio per fame, la classe politica italiana, ben decisa a non cedere sul punto principale, ha preferito un'azione di alleggerimento: un aumento di stanziamenti per rivitalizzare il tradizionale settore della cooperazione allo sviluppo. Bisogna prendere atto che questo tentativo ha avuto un solo risultato: dimostrare che la vecchia politica, i suoi obiettivi e i suoi stessi strumenti sono irrimediabilmente morti.

La dimostrazione è nella vicenda stessa del Dipartimento. Si tratta infatti di uno, strumento operativo immaginato nell'ambito della legge n. 38 del 9 febbraio 1979 ("Cooperazione dell'Italia con i paesi in via di sviluppo"), prima dell'avvio della campagna radicale e in una prospettiva di blando rilancio della tradizionale politica degli aiuti che l'Italia aveva da sempre trascurato, riducendosi a fanalino di coda dell'Ocse. Doveva essere dunque un organismo dai compiti limitati, destinato a rafforzarsi gradualmente nella lunga prospettiva, di pari passo con la nostra politica di aiuto pubblico allo sviluppo.

Si sa che le cose sono andate in maniera diversa. Poco dopo la sua costituzione, infatti, il Dipartimento si trovò a fronteggiare l'improvviso aumento dei fondi per l'Aps e i nuovi indirizzi contro la morte per fame deliberati dal Parlamento, sia pure in maniera confusa e contraddittoria. Compiti proibitivi, ma soprattutto impropri, per una struttura carica già in partenza dei vizi e delle pastoie della burocrazia ministeriale ma, insieme, esile e priva di autorità politica, quindi indifesa di fronte alle pressioni.

La relativa rilevanza dei fondi ha fatto il resto, scatenando una miriade di interessi grandi e piccoli che hanno vanificato di fatto qualsiasi velleità di programmazione.

E' in questo contesto che il Dipartimento ha consumato il suo plateale fallimento, pagando anche la timidezza e la cattiva coscienza delle forze politiche.

Si può dire che il fallimento del Dipartimento è l'ultimo soprassalto del passato - quello di disimpegno italiano dal sistema internazionale degli aiuti - non la fase d'avvio di una nuova politica, che invece è tutta ancora da definire.

Certo, occorre fare piena luce sulle carenze, le deviazioni e le irregolarità che si sono determinate all'interno di questa struttura. Ci sono commistioni di interessi che vanno chiarite: parte del personale del Dipartimento proveniente dalle ditte che oggi beneficiano delle commesse per la fornitura degli impianti e servizi ai Pvs, preferenze nei confronti di talune ditte e di taluni paesi, dubbi consistenti che neanche questo settore sia rimasto immune dalla corruzione dei partiti... Tutti fenomeni che proliferano in presenza dei fondi ingenti e in assenza di obiettivi chiari e di procedure efficienti di controllo.

E' urgente eliminarli, anche perché appaiono all'opinione pubblica ed effettivamente sono particolarmente odiosi in presenza di problemi di povertà assoluta e di morte per fame. E' necessario farlo anche per recuperare le competenze, che pur esistono, a una politica nuova.

Ma, anche per questo, non ha molto senso lamentare l'incapacità del Dipartimento di attrezzarsi tempestivamente per un livello più elevato di interventi. Non lo ha fatto, ma non dovrebbe neanche potuto perché non si possono superare a livello amministrativo carenze che sono in primo luogo politiche.

Non ha senso, è ingiusto nei confronti di chi ha avuto le responsabilità del Dipartimento, è pericoloso perché può indurre a nuovi e più gravi errori. Come quello di ricercare, attraverso qualche aggiustamento amministrativo, di risolvere - o di sfuggire - il problema ben più importante di una nuova politica.

4 mila miliardi da bruciare?

Cessare gli aiuti significa partire per un'altra direzione. Partire dal punto in cui Myrdal e gli altri si sono fermati perché non riuscivano a trovare l'anello di congiunzione della teoria con la prassi, politica.

E' qui che si colloca il rilievo storico della campagna radicale. Ponendo all'ordine del giorno la morte per fame come problema immediato della politica, essa ha fornito il punto di leva che mancava per assicurare il passaggio dalla critica teorica a una politica concreta per la vita e lo sviluppo, per rimettere sui piedi il sistema degli aiuti. E ha rotto la falsa alternativa tra emergenza e sviluppo, tra tempi brevi e lunghi.

La risposta all'emergenza della morte per fame rappresenta l'obiettivo concreto a partire dal quale operare la trasformazione del sistema degli aiuti. L'unico obiettivo dotato di tanta forza politica da rendere possibile il distacco dagli interessi e dalle vischiosità che oggi opprimono l'aiuto pubblico allo sviluppo; l'unico che può aggregare un nuovo blocco di interessi non parassitari e, insieme, conquistare il consenso delle popolazioni dei paesi ricchi, al di là dei naturali egoismi e della difesa dei propri livelli di vita.

A ben vedere, può essere l'occasione storica per portare sul terreno della razionalità economica l'utopia di uno sviluppo a misura dei bisogni dell'uomo.

E anche, per l'Italia, un obbligo giuridico, in conformità ai fini di solidarietà internazionale recepiti nel nostro ordinamento con la ratifica della Carta delle Nazioni Unite, richiamati specificamente nell'art. n. 38 del 9 febbraio 1979, successivamente confermati e precisati con le assunzioni di impegni in sede Onu, Ocse e Cee e con numerose delibere parlamentari.

E' un obbligo politico, non solo nei confronti dei paesi del Terzo mondo ma anche dei contribuenti in italiani, perché non è tollerabile un simile spreco di risorse nelle condizioni critiche del paese.

Al 1· gennaio 1984 erano disponibili 4 mila miliardi di lire per gli aiuti allo sviluppo e alla lotta contro la fame nel mondo. Entro il 1990 saranno stanziati più di 20 mila miliardi (in lire attuali).

Sono da bruciare, come sono stati bruciati negli ultimi anni già 3 mila miliardi?

NOTE

(1) P. Bauer e B. Yamey, "The Political Economy of Foreign Aid", "Lloyds Bank Review", ottobre 1981.

(2) "Sviluppo e sottosviluppo", Laterza, Bari, 1981, p. 177.

(3) Cfr. L. Campiglio, "Aiuti, sottosviluppo, e spese militari", in "Armi e disarmo oggi", Vita e Pensiero, Milano, 1983, p. 14.

(4) W. Leontief e F. Duchin, "Spesa militare nel mondo. Fatti, cifre, implicazioni internazionali e prospettive future", Mondadori, Milano (in corso di stampa).

(5) Ispe, Quaderni n. 28/29, Roma, dicembre 1983.

 
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