di Giuseppe CalderisiSOMMARIO: Il punto della situazione per quanto riguarda le pensioni sociali e gli impegni del governo. Le numerose iniziative di riforma del sistema pensionistico presentate dai vari partiti sembrano motivate più che dalla volontà di riordino del sistema previdenziale dalla scadenza elettorale e dalla paura che si ripeti il successo del partito dei pensionati.
(NOTIZIE RADICALI n. 62, 24 marzo 1984)
Che alcune migliaia di pensionati ultrasessantacinquenni siano costretti a sopravvivere con la sola pensione sociale di 190 mila lire al mese non sembra interessare molto i partiti. Si tratta dei cittadini più deboli e indifesi, i più colpiti dalla stessa riduzione della scala mobile, ma assolutamente privi di peso elettorale, incapaci di farsi sentire, non rappresentati corporativamente da alcun sindacato.
L'intollerabilità di questa situazione non fa scandalo. I mezzi di informazione, soprattutto quelli pubblici, sono anzi preposti all'espulsione di questi soggetti sociali dall'attenzione dell'opinione pubblica. Né fa scandalo che dal bilancio di previsione dell'Inps per l'84 risulti per il Fondo sociale (quello su cui dovrebbe gravare l'onere dell'aumento delle pensioni sociali) è tra i pochissimi in attivo (per l'esattezza di 967 miliardi) ma che tali somme siano utilizzate, con un'operazione alla Robin Hood alla rovescia, per tappare le falle e i buchi degli altri fondi e gestioni deficitarie dell'Inps.
Dopo un anno e mezzo di impegno e di lotta radicale per l'aumento dei minimi di pensione, vediamo di fare il punto della situazione.
Dopo aver inserito tra gli impegni programmatici l'elevazione dei minimi di pensione "a livello di effettiva sussistenza ad esclusivo beneficio di coloro che non percepiscono altri redditi e successivamente alla loro esatta identificazione", il governo aveva accolto, durante la discussione della legge finanziaria, sotto la spinta dell'iniziativa radicale, un ordine del giorno con il quale si impegnava ad effettuare entro il 31 maggio una rilevazione finalizzata all'individuazione dei pensionati privi di altri mezzi di sussistenza. Tra i quasi nove milioni di pensionati con il minimo o con la pensione sociale, infatti, solo una parte non dispone di altri redditi e versa in condizioni di bisogno. La scadenza di maggio era stata stabilita con riferimento a quella di presentazione del bilancio di assestamento, ritenuto dal ministro De Michelis lo strumento e l'occasione più appropriata per individuare le risorse finanziarie necessarie per varare il provvedimento.
Nonostante le ripetute iniziative e sollecitazioni, però, il ministero del Lavoro e della Previdenza sociale (con l'alibi di essere totalmente assorbito dalla trattativa sul costo del lavoro) ha perso quasi la metà dei cinque mesi a disposizione. Solo a metà marzo la questione è stata posta allo studio e sono state impartite le prime direttive all'Inps. Subito sono emerse le enormi e non casuali inefficienze della nostra pubblica amministrazione. La mancanza di questi dati e informazioni è un elemento determinante, un fattore costitutivo della giungla pensionistica in quanto impedisce di spezzare la commistione tra assistenza e previdenza, cioè, di dare la prima solo a chi ha effettivo bisogno e la seconda solo a che ne ha diritto. Basta pensare che, nonostante un potentissimo e costosissimo sistema informativo in funzione da più di quindici anni, l'Inps non é neppure in grado di individuare i titolari di più pensioni: conosce il numero complessivo delle pensioni, non quello dei pensionati!
Il tempo perduto rende ormai impossibile il rispetto della scadenza fissata dall'ordine del giorno. Ma non è solo una questione di tempo. Dall'analisi approfondita della questione, che abbiamo finalmente imposto al governo e all'Inps, è infatti emerso con chiarezza che l'individuazione dei pensionati privi di altri redditi potrà essere realmente effettuata solo se sarà ancorata al varo immediato di un provvedimento legislativo che disponga l'aumento e stabilisca le condizioni e le modalità per averne diritto. Con la logica dei due tempi non si fanno passi avanti, si trovano solo comodi alibi. Insomma, o ci sarà, subito, il provvedimento e con esso la rilevazione e l'individuazione dei pensionati al di sotto del minimo vitale, oppure non verrà mai né l'uno né l'altro. Chiarito questo aspetto, ci siamo anche fatti carico di formulare, fin nei dettagli e con il massimo rigore, le possibili soluzioni legislative. A questo punto il problema, ancora una volta, è solo di volontà politica. Dovremo batterci, nei pros
simi giorni e settimane, perché questa volontà politica si manifesti o perché, in sua assenza, siano almeno chiare e trasparenti le responsabilità assunte dal governo e dalle forze politiche.
Nel frattempo tutti i partiti stanno presentando le proprie proposte di riforma delle pensioni. Dopo la Dc e il Pci è stata la volta, da ultimo, del Psdi; anche il governo, dopo lunghi rinvii, ha finalmente enunciato le linee del proprio disegno di legge, di cui è prevista la presentazione in parlamento per la fine di maggio. Dopo 1.127 provvedimenti in materia pensionistica negli ultimi cinque anni, siamo finalmente vicini all'approvazione del tanto promesso riordino del sistema previdenziale? La coincidenza con la scadenza delle elezioni europee fa sorgere più di un timore che si tratti di iniziative con le quali i partiti cercano soprattutto di correre ai ripari nei confronti dei pensionati dopo il successo ottenuto dal Pnp il 26 giugno '83. Anche perché le proposte di legge finora presentate sono tutte ben lungi dall'affrontare e risolvere i nodi di fondo - l'assistenzialismo e il clientelismo - che hanno prodotto l'attuale giungla pensionistica e si risolvono, sostanzialmente, in un generalizzato livell
amento e abbassamento delle prestazioni previdenziali dal quale potranno sfuggire, come al solito, solo le categorie più forti e politicamente protette.
Così, con l'elevazione dell'età pensionabile si potrà forse far fronte ai problemi sorti con l'aumento della vita media, ma è certamente illusorio ritenerla un toccasana per il riequilibrio finanziario del sistema pensionistico. Estremamente significativa è la riduzione dei contributi dal 25 al 4 per cento sulla quota eccedente il tetto della retribuzione pensionabile con la conseguente liberazione di un'enorme quantità di risorse finanziarie che andranno a costituire i fondi integrativi. Una torta che ha scatenato molti appetiti e che andrà ad appannaggio dei sindacati (il d.d.l. del governo prevede espressamente la composizione sindacale degli organi di amministrazione di tali fondi) nonostante lo sfascio da essi prodotto con l'Inps.
Nella proposta di legge del Pci è inserita anche la questione del minimo vitale ritenuto, addirittura, "il punto di maggiore impegno culturale, politico e sociale" con i quali i comunisti "affrontano concretamente il problema della separazione tra assistenza e previdenza". E' la tesi che sosteniamo da quando abbiamo iniziato questa battaglia e sulla quale abbiamo registrato la convergenza dello stesso ministro del Lavoro.
Se non possiamo non valutare positivamente la presentazione della proposta per il minimo vitale da parte del Pci, decisamente inaccettabile è però il meccanismo da essa previsto: ai comuni spetta il compito non solo di fornire i servizi sociali necessari agli anziani (che è giustissimo), ma anche quello di erogare le prestazioni in danaro. Fissato il minimo vitale in 480 mila lire al mese, non si stabilisce per legge quale quota parte di tale importo debba essere assicurata in servizi e quale in danaro. Rimangono del tutto nel vago i criteri e le condizioni per avere diritto alle prestazioni. L'accertamento della titolarità del diritto al minimo vitale è rimesso ai consigli circoscrizionali integrati dai rappresentanti di non meglio precisati sindacati dei pensionati e organizzazioni territoriali "più rappresentative". Dulcis in fundo: il controllo degli atti di concessione dei benefici è affidato ai consiglieri comunali. Come dire, dopo la sanità e le Usl, la lottizzazione partitocratica anche della povertà
e dell'assistenza agli anziani.