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Spadaccia Gianfranco - 25 marzo 1984
CASO MORO: Il silenzio è di Stato
IL PARTITO OCCULTO

di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Nel dibattito parlamentare sul caso Moro, saltano le verità di Stato e di partito. Partito della fermezza e partito della trattativa in disaccordo su tutto, tranne che su una cosa: chiudere il "caso", impedire la risposta ai gravi interrogativi proposti dall'inchiesta, impedire che se ne torni a parlare.

Per i radicali il "caso Moro" è più che mai aperto, come il "caso Sindona" e come il "caso P2". Negli atti di queste inchieste parlamentari è scritta la storia non conosciuta della crisi della Repubblica, la vera storia d'Italia degli ultimi trent'anni. Perché non fu salvato Aldo Moro.

Dalla scarna, ma davvero essenziale relazione di minoranza di Leonardo Sciascia, emergono con puntualità tutte le contraddizioni, i ritardi, le lacune, gli interrogativi rimasti senza risposta di quei 55 giorni di indagini. Nonostante lo smantellamento del Servizio di Santillo, lo Stato non era impreparato se a tre giorni dal rapimento era in grado di segnalare le foto di 18 rapitori. L'incredibile, allucinante episodio di via Gradoli. L'altrettanto incredibile episodio della stamperia di via Foà. Il mancato controllo dei movimenti dei leader e dei militanti dell'Autonomia operaia, che pure erano "presunti brigatisti".

Non si deve sapere che, per salvare la vita di Moro, non fu tentato nulla, anzi. Resi impotenti dalla linea della fermezza, sordi a qualunque ragionevole ipotesi, coloro che lasciano ammazzare Moro non peccarono solo di omissione. La tesi del non trattare, della fermezza, Moro ben lo sapeva, appartenevano al peggiore rigore comunista corso a sotegno della Democrazia cristiana, partito che Moro conosceva come non rigoroso. Ma "l'unicità del comunismo" cosa voleva dire. Forse che esisteva un collegamento fra le brigate rosse e il comunismo internazionale di qualche paese straniero?)

(NOTIZIE RADICALI N. 67, 25 marzo 1984)

Partito della fermezza e partito della trattativa, all'interno della maggioranza di governo, si sono incontrati e si sono dati la mano. In buona sostanza la soluzione che ne è uscita è la seguente: "in quei drammatici giorni del rapimento Moro - si sono detti - avevamo entrambi ragione; per il passato ciascuno di noi si tenga le sue ragioni, e per futuro invece impediamo che del ``caso Moro'' si debba tornare a discutere. Mettiamoci una pietra sopra". La solita filosofia del "chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto" è stata così applicata alla più grande tragedia politica italiana: la strage di Via Fani, il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro.

Come è finita in aula si sa. Dc da una parte insieme al Pri e Psdi, Psi dall'altra insieme al Pli si sono votati le parti delle loro mozioni relative al caso Moro e si sono astenuti sulle mozioni presentate dagli altri partner della maggioranza. Per questa parte relativa al passato il Parlamento grazie a questo gioco reciproco di voti e astensioni ha approvato mozioni fra loro contrastanti. Anche questo può accadere. Tutti insieme hanno poi approvato una parte comune delle rispettive mozioni che dichiara "chiuso" il "caso Moro".

E invece il "caso Moro" è più che mai aperto, così come più che mai aperti sono il "caso Sindona" e il "caso P2". In questi tre casi è scritta la parte non conosciuta e occulta della storia e della politica italiana degli ultimi venti anni. E' scritta tutta. Basta leggerla. E' per questo che vogliono chiudere questi casi. Perché vogliono che non si legga. E' una storia infatti che continua, ed è all'origine delle cause reali della nostra crisi, della crisi di questo regime.

Al dibattito sulle conclusioni della Commissioni d'inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro, i radicali hanno dato innanzitutto contributo della scarna ma davvero essenziale relazione di minoranza di Leonardo Sciascia, e poi degli interventi di Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Gigi Melega, Giovanni Negri e Marco Pannella. Per i radicali il "caso Moro" non è chiuso, e non c'è deliberazione di maggioranza che possa chiuderlo. Le ragioni sono tutte nella risoluzione conclusiva che abbiamo presentato, respinta dalla camera, ma che ha ricevuto il voto favorevole dei comunisti e l'astensione dei socialisti (anche se i comunisti hanno votato contro il capoverso che contiene un giudizio sulla politica della fermezza).

Le "verità di Stato" e le "verità di partito" costruite intorno al "caso Moro" sono infatti clamorosamente saltate alla prova dell'inchiesta, nonostante gli sforzi compiuti dalla maggioranza e dal Pci all'interno della Commissione per tenerli in piedi.

In particolare è stato clamorosamente smentito l'assunto su cui si è basata fino ad oggi il giudizio sul "caso Moro": quello di uno Stato messo in ginocchio dalle Brigate rosse perché totalmente impreparato non solo a combattere ma perfino a comprendere il fenomeno del terrorismo; e impreparato anche a causa della riforma dei servizi di sicurezza intervenuta proprio in quel periodo. Oggi sappiamo che questo assunto è falso, o in gran parte falso. Lo Stato era impreparato perché qualcuno con una scelta politica precisa - o assolutamente folle o fin troppo calcolata, ma comunque gravissima - si è adoperato a renderlo impreparato. Il 20 gennaio del 1978, cioè meno di due mesi prima del rapimento di Aldo Moro, il ministro dell'Interno Cossiga decideva lo smantellamento del "Servizio di sicurezza" - già Ispettorato antiterrorismo, diretto dal questore Santillo. Si trattava di un servizio già operante dal 1974, che aveva già prodotto alcuni risultati, e che centinaia di uomini aveva costituito l'unica struttura di

carattere eccezionale per combattere il terrorismo.

Non si trattava di un servizio da riformare perché, al contrario, era stato costituito proprio in alternativa al famigerato "ufficio affari riservati" del ministero dell'Interno. Al contrario, secondo ogni logica, era una struttura coerente con la riforma dei servizi segreti e che in un certo senso l'aveva anticipata. Secondo ogni logica, nel momento in cui si procede alla riforma e allo sdoppiamento dei servizi - Sismi e Sisde - si dovrebbe pensare a nominare Santillo capo del Sisde e ad inserire i suoi uomini nel nuovo servizio. Invece, nel momento in cui è più alto il pericolo del terrorismo e delle Br, Santillo viene promosso per essere rimosso, e gli uomini che compongono il suo servizio vengono dispersi nelle varie questure italiane. Qualcuno inviato in compiti e piazze particolarmente esposte ad occuparsi di tutt'altro, cadrà falciato dal piombo dei brigatisti. Non si tratta di una decisione folle ma isolata. Lo stesso accade allo speciale nucleo antiterrorismo diretto dal gen. Dalla Chiesa all'intern

o dell'Arma dei carabinieri.

Quasi contemporaneamente, nelle stesse settimane, il governo e la maggioranza di unità nazionale provvedono alla nomina dei capi dei nuovi servizi. Vengono scelti uomini che risulteranno appartenenti alla Loggia di Licio Gelli. Questo spiega sufficientemente perché non si prese neppure in considerazione la nomina di Santillo. Santillo, in rapporti inoltrati ai ministeri degli Interni e ai magistrati, aveva ripetutamente denunciato il ruolo della Loggia P2 e il suo possibile collegamento con il terrorismo di destra e di sinistra. Durante tutto il periodo del sequestro il Comitato interministeriale per la sicurezza e lo speciale comitato politico-tecnico-esecutivo istituito da Cossiga furono popolati da generali e funzionari appartenenti alla P2. L'unico che al vertice dei servizi di sicurezza non ne faceva parte - il capo del Cesis, prefetto Napolitano, cui spettavano i compiti di coordinamento del Sismi e del Sisde - fu messo nelle condizioni di non operare e poche settimane dopo si dimise. Al suo posto fu m

esso un altro piduista.

Che lo Stato non fosse totalmente impreparato - o almeno potesse non esserlo, se soltanto lo si fosse voluto - è dimostrato dalla circostanza che, entro poche ore dalla strage di via Fani, la polizia diffuse alla stampa 22 fotografie di presunti brigatisti: ben 18 di esse risultarono poi corrispondenti ad altrettanti rapitori di Aldo Moro.

Gli atti della relazione di minoranza e della stessa relazione di maggioranza sono inoltre costellati di contraddizioni, lacune, incomprensibili trascuratezze, segnalazioni lasciate cadere, pedinamenti non effettuati. E' difficile, davvero difficile, non trarne la valutazione che non era impossibile ricercare e trovare la prigione di Aldo Moro - e forse salvarlo - in quei drammatici 55 giorni. E' un terreno che intendiamo approfondire e sul quale lavoreremo fino a formalizzare - come ha annunciato Marco Pannella nel corso del dibattito parlamentare - la denuncia nei confronti del presidente del Consiglio Giulio Andreotti e del ministro degli Interni Francesco Cossiga per "concorso nell'omicidio di Aldo Moro".

Ci sono interrogativi che non hanno trovato risposta né nel processo, né nell'inchiesta. Come mai nessuno pensò in tutti i 55 giorni a mettere sotto stretto, anche se discreto, controllo i militanti dell'Autonomia operaia romana? Abbiamo appreso che per la Questura tutti costoro erano "presunti" anzi probabili terroristi. Ora sappiamo che in effetti alcuni di loro - Morucci, Faranda, Seghetti, ecc. - erano in effetti divenuti brigatisti. E altri - Pifano, Pace - non attivarono soltanto contatti con il mondo politico, ma anche con brigatisti. E ancora: com'è potuta avvenire l'incredibile vicenda di via Gradoli, il "covo" per tre volte mancato dalla polizia, nonostante le segnalazioni ricorrenti? La polizia vi giunge soltanto dopo i vigili del fuoco, accorsi per l'allagamento determinato da una doccia forse deliberatamente lasciata aperta.

Si ha la sensazione palpabile che qualcuno dall'interno delle Brigate rosse volesse impedire prima il rapimento, e poi l'uccisione di Aldo Moro e che si sia preoccupato, prima di via Fani e poi durante i 55 giorni del sequestro, di segnalare piste, covi, di indicare luoghi.

Tutto non si può spiegare - come vorrebbe la relazione di maggioranza - con il caso, il disordine, l'incapacità. Chi diresse le indagini, chi ha portato la responsabilità delle specifiche decisioni? Quale controllo fu esercitato dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Interni? Quale influenza ha avuto la decisione di non riconoscere validità delle lettere di Moro, e di ignorarle?

 
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