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Strik Lievers Lorenzo - 28 marzo 1984
Sfida alla cultura laica e cattolica
di Lorenzo Strick-Lievers

SOMMARIO: Il confronto sulla proposta di legge contro lo sterminio per fame mette a confronto e alla prova il mondo cattolico e quello laico. La cultura laica deve respingere le dinamiche deteriori di un individualismo e di un edonismo che la rendono incapace di misurarsi con la dimensione dell'intera umanità di ognuno; i cattolici italiani debbono scegliere il proprio posto in una fase nuova della storia d'Italia: se quello dei difensori senza speranza di una tradizione clericale irrimediabilmente sconfitta e emarginata, o quella di protagonisti di un rovesciamento dei valori e del senso della politica, a partire e intorno all'affermazione del primato del diritto alla vita.

(NOTIZIE RADICALI n. 64, 28 marzo 1984)

Come negarlo? Il confronto sulla legge contro lo sterminio per fame mette alla prova - e a una prova cruciale - il mondo cattolico italiano, il suo rapporto con la politica, il modo e il senso stessi del suo inserirsi nella storia d'Italia, ed è una prova speculare a quella cui questa battaglia chiama la cultura laica.

Bisogna pur dirlo. Da sempre quello della fame nel mondo non solo è un tema tipicamente "cattolico", ma costituisce il simbolo stesso della sfida radicale che la coscienza religiosa cattolica lancia alla cultura laica e materialista, e alla quale tanto spesso quest'ultima ha risposto e risponde con la sordità e con la fuga: la sfida a porre in primo piano la preoccupazione, il tormento per la sofferenza umana, del singolo, del debole, dell'impotente, di chi è senza prestigio, senza nome e senza volto, senza capacità di farsi valere; la sfida a riconoscere negli ultimi, nei reietti - nei lebbrosi, negli anonimi paria agonizzanti per fame, appunto, nei ricoverati al Cottolengo - i fratelli, coloro sulla cui dignità umana misurare il valore della propria dignità di persone umane. Quando da parte cattolica si denuncia l'affermazione della "società radicale", nel senso che la pubblicistica cattolica attribuisce a questo termine, in tanta parte si parla proprio del prevalere delle dinamiche deteriori di un individ

ualismo e di un edonismo che rendono incapaci di misurarsi, anche in questo senso, con la dimensione dell'intera umanità di ognuno. E in effetti in larga misura la cultura laica ha prodotto una concezione dell'impegno sociale attraverso la politica, e un'immagine del ruolo e del valore della politica che a questa sfida non sanno dare risposte; donde - quante volte! - in molti laici le reazioni di ironia e irrisione, rivelatrici di impotenza, di fronte ai richiami a tragedie come quella della fame che giungevano da parte cattolica. A questa stregua, non è privo di un senso profondo che il rovesciamento di questo atteggiamento della cultura laico-radicale tradizionale venga da "questo" Partito radicale, che già nel 1977 un cattolico come Baget-Bozzo vedeva come la forza impegnata a umanizzare la "società radicale"; come sono significative le chiusure a questo discorso di tanti ambienti "radicali".

Così, si potrebbe dire, la sfida viene rilanciata alla cultura laica e insieme allo stesso mondo cattolico. Nel quale il problema della fame è presente su due piani diversi, per quanto collegati l'uno all'altro: quello dell'impegno missionario e delle varie forme di volontariato, spesso e di inestimabile valore, che coinvolge minoranze attive; e quello della sua evocazione nelle sedi e nelle forme della predica (con lo sbocco non nella carità ma nell'elemosina), le sedi e le forme cioè in cui è tacitamente convenuto e dato per scontato, e dal predicatore e da chi ascolta, che la parola è volta all'edificazione delle anime, a testimonianza, ma non serve a incidere davvero sulla realtà, a trasformarla - come l'elemosina ha funzione solo di scarico di coscienza - giacché la predica non modificherà i comportamenti. E non si può aggiungere che all'"irrilevanza" delle prediche sulla fame, come su tanti altri temi, alla sordità e impenetrabilità della società rispetto ad esse, gran parte del mondo cattolico si è fi

n troppo abituata, sino ad adagiarvisi, come in una nicchia in definitiva comoda. Di qui, ad esempio, la rassegnazione a veder censurati e trattati come irrilevanti gli appelli, stessi dei pontefici.

La questione, in fondo, è quella della difficoltà per i cattolici, per la Chiesa, di trasmettere, di far passare nella società i valori cristiani; e investe allora il nodo dei rapporti fra i cattolici e la politica in Italia. In questo senso, la storia della occupazione cattolica, e in tanta parte clericale, del potere nell'Italia repubblicana è la storia di una lunga sconfitta: basta chiedersi quanto si siano realizzati, lungo questi trentacinque anni, gli obiettivi che scaturivano dalle ragioni di un'ispirazione religiosa nell'impegno politico, o quanto l'Italia democristiana abbia rispecchiato gli ideali di un don Sturzo... Ben altre, è innegabile, le dinamiche che hanno occupato gli occupatori del potere: questione non estranea, va da sé, al dibattito aperto fra i cattolici su come sia avvenuto che il "loro" regime sia sfociato in quella che essi chiamano la "società radicale".

Da questo punto di vista lo scontro politico sulla legge Piccoli e altri costituisce per i cattolici un'occasione essenziale, se si tien conto che la scelta, evidentemente, non riguarda l'istituzione o meno di un Alto commissario, ma l'impegno o no a salvare tre milioni di persone; che in gioco, insomma, è l'opzione tra una leggina qualsiasi che non modificherebbe nulla di sostanziale, e una decisione che proprio in ragione dello sforzo che comporterebbe per uno Stato come il nostro stabilirebbe tra le priorità della vita politica italiana l'affermazione del diritto alla vita. Se questo è vero, non sembra una fortuna affermare che per i cattolici la posta - oltre naturalmente alla vita degli agonizzanti - è l'aprirsi o meno degli spazi per affermare anche in sede politica uno dei valori primari della loro concezione del mondo, fulcro della loro "sfida", sul piano dei valori, e quasi direi l'aprirsi degli spazi per affermare in sede politica, con gli strumenti della politica, il loro essere cristiani.

In questo senso, è davvero sintomatico dei dilemmi aperti davanti al cattolicesimo italiano il panorama delle sue reazioni di fronte alla proposta di legge. Se da alcune, ed essenziali, parti di esso è venuta infatti quella che è ben più di una semplice adesione, da altre si sono invece manifestate timidezze, riserve, perplessità, riluttanze; in qualche caso lo stesso sacrosanto proporre di misurarsi su temi di fondamentale importanza, come quelli riassunti nello slogan "contro la fame, cambia la vita", e sulla questione degli armamenti, ha potuto suonare di fatto, lo si volesse o no, come uno sfuggire alla concretezza delle scelte che in questi giorni si impongono. Se la qualità e l'ispirazione delle critiche è senza dubbio la più varia, e spesso - anche se non proprio in tutti i casi - riflette preoccupazioni più che rispettabili, un dato mi sembra comunque fondamentale: che esse tradiscono in larga misura esitazione e paura a uscire dal duplice ghetto dell'impegno dei pochi e della dimensione della "predi

ca"; ossia dalla sostanziale marginalità e subordinazione proprio rispetto alla "società radicale".

Sintomatico, rivelatore, dicevo. Su questa battaglia, nei suoi tempi ormai strettisimi, i cattolici italiani debbono scegliere, e stanno scegliendo, il proprio posto in una fase nuova della storia d'Italia: se quello dei difensori senza speranza di una tradizione clericale irrimediabilmente sconfitta e emarginata, o quella di protagonisti, insieme ai laici che accettano di esserlo con loro, di un rovesciamento dei valori e del senso della politica, a partire e intorno all'affermazione del primato del diritto alla vita.

 
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