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Bonardi Beniamino - 28 marzo 1984
Inquinamento: le colpe degli enti locali
di Beniamino Bonardi

SOMMARIO: Le responsabilità degli enti locali nella mancata attuazione della "legge Merli" sull'inquinamento delle acque.

(NOTIZIE RADICALI n. 64, 28 marzo 1984)

Il verde è esploso, è di moda sui giornali, è oggetto di convegni, trova sempre più spesso una parola di considerazione e di comprensione nei documenti di quasi tutti i partiti, ha avuto un riconoscimento a livello di governo con l'istituzione di un ministro per l'ecologia. Eppure c'è la diffusa sensazione che tutto ciò sia una facciata che copre una politica uguale a quella del passato, in cui la tutela dell'ambiente e della salute rappresentano delle istanze aggiuntive e non delle pregiudiziali irrinunciabili.

Il caso più recente è stata l'ennesima proroga della legge Merli, emanata dal governo all'interno di un decreto-legge contenente una trentina di proroghe riguardanti le materie più disparate: dall'ente di previdenza per le ostetriche, ai lavoratori in cassa integrazione, ai servizi antincendio degli aeroporti. Con questa nuova proroga siamo arrivati, a otto anni di distanza dall'approvazione della legge originaria, alla "Merli-quater".

La proroga riguarda i comuni e i consorzi gestori di pubbliche fognature, che non si siano ancora dotati di un impianto centralizzato di depurazione. Originariamente questi impianti di depurazione avrebbero dovuto essere costruiti entro il 31 dicembre 1981, termine successivamente prorogato al 1· dicembre 1983. Ora è stata concessa alle Regioni la possibilità di prorogare ulteriormente questo termine al 31 dicembre 1984. Sino a questa data, gli impianti che scaricano nelle pubbliche fognature devono rispettare termini più permissivi di quelli contenuti nella Merli e a cui sono soggetti tutti gli altri impianti, quelli, cioè, che scaricano direttamente in corsi d'acqua attraverso propri depuratori.

Se il problema fosse solo questo, si potrebbe parlare di disparità di trattamento tra coloro che hanno ottemperato alle disposizioni della Merli e coloro che, non avendolo fatto, godono di una comoda impunità grazie a queste continue proroghe. Ciò che induce invece ad affermare che ormai la legge Merli non esiste più è un insieme di altri fatti. Da un'indagine effettuata dall'Istituto di ricerca sulle acque del Cnr è risultato che il 90 per cento dei depuratori comunali, costruiti con i finanziamenti della legge Merli, è inefficiente. Secondo dati della Confindustria, solo il 60% delle industrie inquinanti si è dotato di un proprio impianto di depurazione.

Altrettanto gravi sono le inadempienze delle Regioni, di cui è stato fornito un quadro esauriente nel numero 23 di "AdT", l'agenzia di informazione degli "Amici della Terra". Alle Regioni, infatti la legge attribuiva due compiti fondamentali: la redazione dei piani regionali di risanamento delle acque e dei piani regionali di smaltimento dei fanghi prodotti dalle lavorazioni industriali e dai processi di depurazione. I piani di risanamento delle acque avrebbero dovuto essere redatti entro il 13 giugno 1979 ma nessuna Regione rispettò il termine, che venne quindi prorogato al 31 marzo 1981. Le cose non andarono però meglio perché a quella data solo Piemonte e Toscana avevano predisposto e inviato al governo il proprio piano. La scadenza venne quindi nuovamente prorogata al 31 marzo 1982 e poi più.

Il risultato è che solo nove Regioni su 21 si sono dotate di un proprio piano di risanamento: Piemonte, Toscana, Calabria, Emilia Romagna, provincia di Bolzano, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Lazio e Molise. La situazione non è senza ripercussioni sul piano nazionale, dal momento che sulla base dei piani regionali il governo dovrebbe redarre il piano generale di risanamento delle acque, così come previsto dalla legge Merli e dalla direttiva Cee n. 75/440 del 16 giugno 1975, adottata dall'Italia il 3 luglio 1982, cinque anni dopo la scadenza prevista dalla direttiva stessa.

Per quanto riguarda i piani regionali di smaltimento dei fanghi, la situazione è ancora peggiore il termine per la redazione di tali piani è scaduto il 30 giugno 1982 e, come risulta dall'ultima relazione annuale del governo al parlamento, nessuna Regione ha rispettato il termine.

Sulla base di questo quadro e più facile comprendere perché in parlamento non c'è stata battaglia contro il decreto-legge del governo, nonostante le iniziative e le pressioni delle associazioni ecologiste e le risposte positive delle opposizioni di sinistra. Certo, c'è stata opposizione: pregiudiziali di costituzionalità, emendamenti, voto contrario di Pci, Dp, Pdup e Sinistra indipendente. Nessuno di questi gruppi ha però fatto dell'ennesima proroga della legge Merli l'oggetto di scandalo di quel decreto-omnibus. Tutti hanno trattato la proroga della Merli alla pari, o poco più, delle altre proroghe contenute nel decreto. Solo i parlamentari radicali hanno scelto la vanificazione della legge Merli come oggetto di battaglia politica.

Nessuna associazione ecologista aveva chiesto l'ostruzionismo: era pacifico il riconoscimento della maggioranza a governare assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. Se, però, non c'è stata neppure battaglia politica e capacità di indicare all'opinione pubblica questo nuovo scandalo ambientale, il motivo è da ricercare nel fatto che il "governo" della legge Merli è affidato più alle Regioni e agli enti locali che al governo. E non a caso solo negli interventi radicali sono state indicate con precisione le responsabilità delle Regioni, oltre a quelle del governo. L'opposizione comunista si è sì schierata contro il governo nazionale ma ha coperto ancora una volta le responsabilità dei governi locali, dove è corresponsabile della non attuazione della legge, così come della generale politica di sopruso nei confronti dell'ambiente.

Se qualcuno non aveva capito, adesso è più chiaro cosa significava la proposta di presentazione di liste verdi alle elezioni amministrative, fatta l'anno scorso dagli "Amici della Terra", e la contemporanea richiesta ai partiti di liberare i comuni della loro presenza. Era una proposta che si muoveva nella direzione dello Stato delle autonomie delineato dalla Costituzione, contro lo Stato della spartizione e della gestione consociativa realizzato dai partiti.

 
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