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Cicciomessere Roberto - 4 aprile 1984
Dobbiamo rinunciare al partito della vita?
30º CONGRESSO - ROMA, 31 OTTOBRE/4 NOVEMBRE 1984

di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: "In sessanta giorni dobbiamo trovare mille compagni che abbiano la forza di far fiducia nei propri convincimenti e che quindi decidano di finanziare il proprio partito radicale per almeno un milione a testa. In sessanta giorni dobbiamo trovare in noi stessi la forza per ricominciare, di nuovo da zero, nella battaglia per l'affermazione del decreto di vita.

Dobbiamo, insomma, rispondere ad una sola domanda: c'interessa affermare il partito della vita e della speranza che abbiamo prefigurato e in parte realizzato, o dobbiamo rinunciarvi definitivamente?"

(NOTIZIE RADICALI N. 68, 4 aprile 1984)

Potrei riscrivere, aggiornandole, le stesse considerazioni che vi ho proposto nel numero precedente di "Notizie Radicali"; la politica radicale si colloca nel deprimente scenario partitocratico come l'unico sbocco praticabile alla crisi del regime; nonostante la sproporzione delle forze riusciamo ad incidere imponendolo, come nel caso della giustizia, processi di inversione rispetto alle barbarie anticostituzionale; una parte consistente dell'elettorato comprende e condivide con il voto le nostre proposte. Ma nonostante ciò non riusciamo ad affermare il nostro progetto più ambizioso, quello del partito della vita che abbia capacità, forza e risorse adeguate ad ingaggiare lo scontro contro il partito della morte e della guerra.

Potevamo scegliere di sopravvivere nei margini, sempre più ristretti, che l'attualità politica ci consentiva, dando fondo al patrimonio ideale e di lotte che avevamo affermato nella società, riscuotendo probabilmente anche successi politici non irrilevanti. Probabilmente non avremmo avuto neppure bisogno di un "partito" con i vincoli e le strettoie che necessariamente impone. Tutto ciò sarebbe stato possibile a una condizione, quella di chiudere gli occhi di fronte al processo, quasi irreversibile, d'imbarbarimento della comunità nazionale ed internazionale. Era possibile. La follia della nostra epoca si tutela proprio creando la possibilità di far convivere vita e morte, pace e guerra in un rapporto reciproco di indifferenza. Sempre più nelle nostre città si vive a contatto di gomito con la violenza più brutale, senza per ciò modificare di molto le nostre abitudini e le nostre comodità.

Riusciamo a convivere tranquillamente con una base nucleare, così come la comunità internazionale non sembra particolarmente scossa dalla guerra che dura da cinque anni tra Iraq e Iran.

Sarebbe sciocco non riconoscere che nel campo della politica esiste uno spazio di praticabilità e di ragionevolezza che appare tale solo se si prescinde dal contesto generale, e cioè si accetta di operare prescindendo dalle regole e dalle leggi della democrazia. E' infatti la "politica" nazionale sempre più una astrazione che si colloca in un ambito d'interessi di gruppi e corporazioni che sempre meno rappresentano altri che se stessi.

La gente non s'interessa di politica semplicemente perché la politica non s'interessa della gente.

Noi radicali abbiamo fatto altre scelte. Con il preambolo allo statuto e le mozioni congressuali approvate in questi ultimi cinque anno non abbiamo accettato di chiudere gli occhi e ci siamo proposti di contrastare la barbarie che si affermava. Quella che si esprimeva nella vanificazione delle istituzioni democratiche e quella che trovava la sua più tremenda esplicitazione nei trenta milioni di uomini in carne e ossa sterminati ogni anno non dalla fame ma con la fame.

Sarebbe ingeneroso e stupido non riconoscere che questo progetto non ci ha impedito di percorrere gli spazi più o meno tradizionali che l'attualità politica ci consentiva. Anzi, proprio perché era più facile, abbiamo occupato probabilmente una parte maggioritaria del nostro tempo personale in attività politiche "tradizionali": dalle battaglie parlamentari a quelle per la giustizia, dalle iniziative contro la corruzione a quella sulla droga o sull'ecologia.

Per far ciò avevamo bisogno di un partito forte, di risorse umane e finanziarie enormemente superiori a quelle di cui abbiamo avuto bisogno nel passato. Soprattutto avevamo bisogno di una lucida consapevolezza del costo, anche personale, che una simile sfida avrebbe comportato. L'affermazione della pratica nonviolenta come strumento indispensabile per l'affermazione del progetto politico era una conseguenza obbligata.

Ma anche la apparentemente folle proposta di raccogliere, in non più di quattromila iscritti, tre miliardi, s'inseriva obiettivamente in quel disegno che tutto fondava nella ferma convinzione di ognuno di operare in una situazione straordinaria per un compito straordinario.

Per alcuni mesi dopo il congresso di Rimini tutto ciò ha iniziato a prendere un corpo. Con un puro atto di volontà politica siamo riusciti a imporre all'attenzione dell'opinione pubblica il tema della lotta contro lo sterminio per fame e ad incardinarlo saldamente nella lotta politica. Anche la mobilitazione dei radicali per sottoscrizioni straordinarie, che comportavano privazioni enormi per ognuno, ha dato grossi risultati. Oggi, a meno di due mesi dalla scadenza annuale del congresso, ci troviamo ad una distanza di un miliardo dall'obiettivo congressuale e con una battaglia sulla fame che, con tutta la probabilità, rischia di fallire completamente.

In sessanta giorni dobbiamo trovare mille compagni che abbiano la forza di far fiducia nei propri convincimenti e che quindi decidano di finanziare il proprio partito radicale per almeno un milione a testa. In sessanta giorni dobbiamo trovare in noi stessi la forza per ricominciare, di nuovo da zero, nella battaglia per l'affermazione del decreto di vita.

Dobbiamo, insomma, rispondere ad una sola domanda: c'interessa affermare il partito della vita e della speranza che abbiamo prefigurato e in parte realizzato, o dobbiamo rinunciarvi definitivamente?

 
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