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Buffa Dimitri - 30 giugno 1984
UNA REPUBBLICA PENTITA: (11) Appendice - Alcuni pentiti celebri nella stampa italiana
Leggi speciali e imbarbarimento della giustizia in Italia

a cura di Dimitri Buffa

INDICE

Prefazione (3802)

Introduzione (3803)

Capitolo I (3804)

Capitolo II (3805)

Capitolo III (3806)

Capitolo IV (3807)

Capitolo V (3808)

Capitolo VI (3809)

Capitolo VII (3810)

Capitolo VIII (3811)

Appendice (3812)

SOMMARIO: L'analisi della "legge sui pentiti" (la legge 29 maggio 1982, n. 304, che concede larghi benefici - fino all'impunità - ai delatori dei propri complici) e delle sue conseguenze sul sistema giuridico italiano. Le schede sui pentiti più famosi: Carlo Casirati, Antonio Savasta, Aldo Tisei, Marco Pisetta, Roberto Sandalo, Giovanni Pandico, Pasquale Barra, Patrizio Peci, Marco Borbone, Carlo Fioroni.

("UNA REPUBBLICA PENTITA" - Leggi speciali e imbarbarimento della giustizia in Italia - di Mauro Mellini - Prefazione di Enzo Tortora - Supplemento a »Notizie Radicali nº 58 del 13 marzo 1984)

Appendice

Alcuni pentiti celebri nella stampa italiana

a cura di Dimitri Buffa

CARLO CASIRATI

E' il malavitoso complice di Carlo Fioroni nel sequestro Saronio. Si politicizzò e subito dopo si pentì in carcere per potere usufruire dei benefici della legge. In realtà era un balordo della mala milanese legato a Giustino De Vuono e ad altri uomini del clan di Turatello. Condannato a 27 anni in primo grado nel processo per la morte e il sequestro di Carlo Saronio. In appello la pena gli fu ridotta di quasi dieci anni dopo che iniziò a collaborare. Ora è un uomo libero anche se non appare ancora molto chiaro quale sia stato il suo contributo eccezionale nella lotta al terrorismo.

In aula al processo »7 aprile infatti ha fatto scena muta rifiutandosi di rispondere alle domande della corte e del PM, dopo che nel primo giorno di interrogatorio si era contraddetto fino al paradosso. In Istruttoria è arrivato ad autoaccusarsi di un delitto che non ha mai commesso (quello di via Zabarella in cui perirono due missini, fu il primo fatto di sangue rivendicato dalle BR), e al giudice Calogero che lo interrogava confessò di averlo fatto per 500 mila dollari. Tanti gliene furono infatti promessi (stando sempre al testo del verbale di interrogatorio 8/1/1980) dal deputato missimo Mirko Tremaglia, che si sarebbe messo in contatto con Casirati nel 1976 (quando era latitante) in Spagna. Secondo il malavitoso, l'onorevole Tremaglia gli avrebbe offerto quella forte somma se avesse vuotato il sacco sui fatti di via Zabarella. Per convincerlo lo avrebbe anche fatto parlare al telefono con il segretario del partito. Ad accompagnare Tremaglia (manco a dirlo) un agente dell'ex Sid.

Dopo questo interrogatorio, Casirati è anche imputato di autocalunnia di fronte all'autorità giudiziaria padovana. Ma le note più spregevoli del pentito Casirati sono tutte successive all'epilogo del sequestro Saronio: dopo l'arresto di Fioroni in Svizzera (maggio 1975), con 67 milioni in banconote da centomila lire provenienti dal riscatto Saronio, Casirati decide di tagliere la corda e si rifugia a Caracas. Porta con sé il resto del malloppo truffando anche i suoi cinque complici. A Caracas viene raggiunto da un agente dei servizi che gli chiede se è disposto a collaborare. Lui risponde che ci deve pensare e intanto fa delle telefonate ricattatorie alla famiglia Saronio, chiedendo 200 mila dollari in cambio dell'esatta indicazione dell'ubicazione della tomba dell'ingegner Carlo. La famiglia rifiuta di pagare, nonostante le pressioni e le minacce di Casirati. Una volta estradato in Italia decide di accodarsi a Fioroni. Già nel processo di primo grado pronuncia una famosa frase riportata da tutti i giornali

e che può considerarsi il prologo della sua collaborazione con la giustizia: »Se io parlo tutto il palazzo dovrà tremare . Non si capisce bene di quale edificio parli, sta di fatto che quando fiuterà aria di affari (stavolta con la Giustizia) inizierà la proficua (per lui) collaborazione con la Giustizia.

Il suo primo atto di buona volontà sarà poi quello di far ritrovare il cadavere di Saronio (o meglio quel che ne restava); stavolta il compenso non sarebbe stato »vil denaro , ma uno sconto di pena da parte dell'Amministrazione Giudiziaria.

ANTONIO SAVASTA

Il 27enne killer delle Brigate Rosse comincia a parlare tre giorni dopo il suo arresto nel covo di via Pindemonte a Padova. Siamo alla fine di gennaio del 1982, durante l'operazione che portò alla liberazione del generale della Nato, James Lee Dozier, rapito il 17 dicembre del 1981 nella propria abitazione di Verona.

Savasta decide di parlare dopo che la sua compagna di vita e d'armi, Emilia Libera, aveva già deciso di collaborare con la giustizia. Rivela nomi, covi, ricostruisce centinaia di azioni delittuose delle Brigate Rosse. Con lui il pentimento diventa »un business su scala industriale. E infatti riempie migliaia di pagine di verbali, riversando accuse su tutto e tutti, senza guardare troppo per il sottile.

Romano, di Centocelle, compie i propri studi al liceo Francesco d'Assisi, dove, a detta dei suoi compagni di banco, era tra gli ultimi della classe. »Un teppista, uno che leggeva in classe Jacula e i fumetti pornografici, e che minacciava le professoresse di bruciargli la macchina se non lo promuovevano .

Entra nel 1976 a far parte dei duri del servizio d'ordine della sezione di Potere Operaio di Centocelle e nel 1977 è già un irregolare delle Brigate Rosse.

Quando era latitante si vantava di avere sulle spalle 17 omicidi (tanti gli erano stati attribuiti dalle Magistrature di mezza Italia); per ora è stato condannato solamente per due: quello di Varisco (nell'ambito del processo Moro), per cui ha preso 16 anni di reclusione, e quello dell'ingegner Taliercio (13 anni), il direttore del Petrolchimico di Marghera, che »giustiziò sparandogli 4 colpi di Beretta a bruciapelo.

Si diceva della facilità con cui Savasta ha sempre accusato i suoi ex compagni; ma il pentito è anche quello che ha rincarato la dose contro gli Autonomi del progetto »Metropoli .

Le sue accuse, così circostanziate in istruttoria, hanno messo nei guai non poca gente. Eppure in aula, al processo »7 aprile , ha ridimensionato le proprie dichiarazioni con questa sconcertante motivazione: l'emergenza è finita, il movimento della dissociazione nelle carceri è fortissimo, è ora di ricostruire i fatti in maniera meno teorematica. Proprio lui che aveva messo il »carico da undici in istruttoria contro Paolo Virno e Lucio Castellano, in aula li ha scagionati, affermando di non sapere se fossero dei semplici redattori di »Metropoli o se facessero parte del progetto eversivo.

Savasta è stato anche uno dei primi Br a dover subire delle torture fisiche, anche se non le ha mai denunciate dopo il proprio pentimento. Ha comunque testimoniato contro gli uomini dei Nocs determinando la loro condanna, dopo le denunce dell'ex brigatista »irriducibile Cesare Di Lenardo (nel frattempo, si è pentito anche lui).

ALDO TISEI

E stato definito il Patrizio Peci della destra eversiva. Nato a Tivoli il 25/9/1957, cominciò la sua formazione culturale nel circolo »Drieu la Rochelle insieme ad altri padri storici dell'eversione fascista: Paolo Signorelli e Sergio Calore. Venne arrestato il 12 febbraio 1977 a Roma, nel covo di via dei Foraggi. In casa c'erano 12 milioni provenienti dal riscatto di Emanuela Trapani, rapita dal clan di Vallanzasca.

Tisei, secondo i magistrati, è l'anello di congiunzione tra la malavita romana e la destra eversiva. Quando decide di collaborare, decine di inchieste si riaprono, a cominciare da quella sull'uccisione del Magistrato Vittorio Occorsio, sino a quelle sui misteriosi cadaveri ritrovati nel laghetto di Guidonia.

Anche Tisei è un pentito molto prodigo di parole con i giornalisti. Venne intervistato il 30/8/1982 dall'»Europeo e parlò a ruota libera su Concutelli, Ordine Nero, il delitto Occorsio e molti altri episodi definiti interessanti dai magistrati. In realtà, anche in questo caso, la medaglia ha due facce, se non tre: i duri dei Nar dicono che è stato prezzolato dai servizi e che non ha mai contato politicamente nulla.

Oltretutto, all'epoca dell'assassinio di Occorsio, era poco più che diciannovenne, ed appare impensabile il fatto che potesse essere già inserito al vertice di un'organizzazione eversiva come Ordine Nuovo.

Grazie al suo pentimento riuscì a mandare in carcere anche un maggiore dei Carabinieri, e a far spiccare comunicazioni giudiziarie contro altri due ufficiali dell'Arma di Tivoli. Determinante anche la sua testimonianza nel processo svoltosi a Roma per l'omicidio dello studente-lavoratore Antonio Leandri, ucciso per sbaglio dai Nar, che lo avevano scambiato per l'avvocato Arcangeli. Arcangeli, secondo Tisei, doveva essere ucciso perché era stato il responsabile dell'arresto di Concutelli.

La prima sconfessione giudiziaria per Tisei è venuta nella maxi-inchiesta contro Terza Posizione. Accusò il legale di Tuti di essere stato il tramite tra i terroristi detenuti e quelli in libertà, ma dopo pochi giorni ritrattò, e il legale fiorentino venne completamente scagionato. Anche Tisei non sempre è detenuto in carcere, ma talvolta alloggia in una caserma superprotetta dai Carabinieri. In carcere è stato compagno di Patrizio Peci ad Alessandria. Pare che siano amici fraterni. Ora è agli arresti domiciliari.

MARCO PISETTA

Marco Pisetta è stato il primo pentito della storia del terrorismo italiano. In realtà più che di pentito bisognerebbe parlare di infiltrato, se è vero (come è vero) che già dal 1972 aveva raccontato al Sid tutto quello che sapeva sulle Br di Renato Curcio, ancora non in guerra contro lo Stato imperialista delle multinazionali.

Anche Pisetta come Curcio (di cui è quasi coetaneo), è nato a Trento ed ha frequentato l'Università che diventerà poi famosa per avere dato i Natali al primo embrione storico della lotta armata in Italia. Curcio e i suoi compagni di Sinistra Rivoluzionaria erano quasi un'istituzione al fine degli anni '60 a Trento. Pisetta appare anche lui orientato su quella strada ed esordisce l'11 aprile 1969, con un attentato incendiario al palazzo della regione di Trento. Dopo un anno di latitanza si costituisce. Si farà sette mesi di carcere e, quando esce, nessuno dei compagni che lo ha ospitato quando era ricercato è ancora libero. Li ha fatti arrestare tutti lui, forse ricattato dai servizi segreti. Al processo viene condannato a due anni e sei mesi che non ha mai scontato.

Pisetta torna in galera il 2 maggio 1972. Viene arrestato in un covo delle Br affittato sotto falso nome dal capo storico Giorgio Semeria. Ormai i brigatisti sospettano tutti di lui. Pisetta esce dopo quattro giorni e fugge all'estero, ma prima scrive 22 pagine in cui descrive per filo e per segno tutto quello che sa sulle Br. Si rifugia in Austria. Da questo paese manda a prendere la sua compagna Rosanna Pegoretti, che viene scortata oltrefrontiera dal Sid. Dalla sua latitanza scrive il famoso »memoriale Pisetta , 93 pagine in cui è raccontata tutta la storia sulle Br del gruppo Curcio.

Quel documento viene tenuto per un anno nei cassetti del Sid e poi finisce misteriosamente sui tavoli del settimanale »il Borghese , che lo pubblicherà integralmente. Pisetta dirà poi che quel memoriale gli fu estorto dai servizi segreti. Il 28 settembre 1982, alle 15,30, Marco Pisetta si costituisce al posto di frontiera tra la Svizzera e il Piemonte: appena in tempo per usufruire degli sconti della legge sui pentiti che scadrà dopo poche ore.

Deve scontare 5 anni e 7 mesi di carcere.

ROBERTO SANDALO

Anche Sandalo è un pentito dall'intervista facile. Sia prima che dopo la sua scarcerazione, avvenuta il 19/11/1982, a due anni e sei mesi dall'arresto (29/4/1980) è stato infatti molto prolisso in dichiarazioni alla stampa, alcune delle quali francamente sconcertanti. Lui e suo padre Ovidio sono stati i primi a sponsorizzare a livello di pubblica opinione la futura legge sui pentiti. Il padre però non farà in tempo a vederlo uscire dal carcere perché un infarto lo coglierà prima.

Sandalo si è visto abbuonare dalla »giustizia italiana ben 110 reati tra cui tre omicidi: quello del vigile urbano Bartolomeo Mana (13/7/1979) a Druento, durante una rapina di Prima Linea, quello del barista Carmine Civitate (18/7/1979), (colpevole secondo la logica dei terroristi di avere effettuato la telefonata anonima che permise ai carabinieri di irrompere nel bar in cui Matteo Caggeggi e Barbara Azzaroni persero la vita), e infine quello del dirigente Fiat Carlo Ghiglieno (21/9/1979).

Sandalo ha spedito in carcere ben 150 dei suoi ex compagni di Pl ed è sempre stato ritenuto dagli inquirenti uno dei pentiti più attendibili, tranne che in un caso: quando rivelò di avere avuto dei contatti con il senatore Donat Cattin (padre del terrorista pentito Marco), avvertendolo delle attività del figlio, e facendo il nome di Cossiga.

Lo scandalo, di risonanza nazionale, provocò anche un dibattito parlamentare. In quella sede il terrorista Sandalo fu bollato con il marchio di infamia, del mentitore e del Giuda. Fu l'ultima volta. Quando entrò nelle Aule di Giustizia di mezza Italia fu salutato come un salvatore della Patria da tutti i rappresentanti della pubblica accusa. Famoso il suo sfogo durante la testimonianza al processo »7 aprile , quando arrivò a dire che non avrebbe più testimoniato se lo Stato non gli avesse dato soldi e un lavoro. Fu il primo terrorista pentito, insomma, a chiedere la pensione allo Stato Italiano.

Famosa anche la sua preveggenza: una volta in libertà, il suo hobby preferito, insieme a quello di rilasciare interviste al miglior offerente, è stato quello di predire azioni terroristiche che si sono quasi sempre regolarmente avverate, come quella della colonna romana delle Br contro la Nato, culminata nell'assassinio del diplomatico Ray Leemon Hunt.

GIOVANNI PANDICO

Il »grande accusatore di Enzo Tortora , Giovanni Pandico, diventò camorrista in carcere. A Poggioreale entrò circa dodici anni fa, dopo aver provocato una vera e propria strage al municipio di Liveri di Nola, il suo paese natale. Bisogna tornare indietro nel tempo: il 19 giugno 1970 Pandico si presenta negli uffici del Comune in cui è nato 40 anni prima, chiede di poter rinnovare il proprio atto di nascita, perché quello di cui è in possesso »è vecchio e sgualcito . L'impiegato Silvio Nappi comincia a chiedere i dati anagrafici, ma Pandico ha una reazione di stizza: »Ho fretta, non posso attendere . A quel punto entrano altri impiegati dell'anagrafe per rassicurarlo sulla celerità della pratica. Il futuro camorrista pentito, però, è ormai colto da un vero e proprio »raptus schizoide paranoico : estrae una Beretta calibro nove, di quelle in dotazione alle forze dell'ordine, e comincia a sparare all'impazzata. Sono minuti di terrore nel piccolo municipio di Liveri di Nola; Pandico, ormai fuori di sé, entra nel

l'ufficio del sindaco democristiano Nicola Nappi e anche lì inizia a sparare. Invano, il vigile sanitario Guido Adrianopoli tenterà di disarmarlo; pagherà con la vita il suo eroico quanto inutile gesto. Alla fine della sparatoria, Pandico si lascia dietro due morti (oltre al vigile, anche l'impiegato Giuseppe Gaetano) e un ferito grave, il consigliere comunale Pasquale Scala.

In carcere, dopo l'arresto, Pandico viene sottoposto a diverse perizie psichiatriche. Il responso è sempre lo stesso: »delirio schizoide di sindrome paranoica . In pratica il Pandico è afflitto da vere e proprie manie di persecuzione, che nei momenti più acuti si traducono in allucinazioni e in deliri. Secondo i suoi compagni di cella nacque così, in un raptus, l'idea di Pandico di »fargliela pagare a quel Tortora . Sta di fatto che l'episodio che lo spedì in galera non fu l'unico né il primo della serie. Già diciannovenne minacciò di morte il padre e alcuni familiari in uno dei suoi raptus omicidi. Fu denunciato per tentato omicidio e arrestato, ma dopo pochi mesi era di nuovo libero.

Di lui Cutolo ha detto che non contava nulla nell'organizzazione della Nco e che il suo unico ruolo era quello di scrivere appunti per lui in carcere. Pandico è anche famoso per essere il pentito più intervistato d'Italia. All'»Espresso , il 24/7/1983, indicò anche i motivi della propria dissociazione. Sostanzialmente, ha detto di essersi convinto a »dissociarsi dalla Nco di Cutolo (Pandico rifiuta l'etichetta di pentito), perché il capo era pronto a concedere la testa di ben »7 compagni nostri dei più valorosi per accordarsi con il clan dei Nuvoletta. Pandico ha detto che per lui la goccia che fece traboccare il vaso fu l'attentato a Casillo deciso da Cutolo, per ritorsione contro il proprio ex luogotenente. In un'altra intervista Pandico arrivò addirittura al colmo di censurare l'operato di Tortora. Rimane tuttora misterioso il canale, il tramite attraverso cui il camorrista pentito è riuscito a fare filtrare tutto questo materiale coperto dal segreto istruttorio. Per ora Pandico si consola giocando a ca

rte in una caserma dei Carabinieri di Napoli e godendo dei privilegi negati ad altri detenuti. Inutile dire che il pentito della Nco spera di ottenere dallo Stato gli stessi privilegi finora ottenuti solo dai terroristi.

PASQUALE BARRA

Qualcuno lo ha subito ribattezzato il Joe Valachi della camorra. Il paragone appare un po' azzardato anche se il 42enne Pasquale Barra le carte in regola (si fa per dire) del capo clan, ce le ha tutte. Decine di omicidi alle spalle, dentro e fuori dal carcere di Poggioreale (in cui ha risieduto per 10 anni), il nostro eroe è soprannominato nel gergo della mala »o 'animale , oppure »o 'studente . E balzato per la prima volta agli onori di tutte le cronache nere nazionali con l'omicidio del boss milanese Francis Turatello nel carcere di Nuoro il 17/8/1981. Barra squartò letteralmente Turatello (dicono che gli abbia azzannato il fegato e le viscere), forse per ordine di Cutolo. Pochi mesi prima aveva massacrato a coltellate Antonino Cuomo, sempre per ordine del capo della Nco. Barra è stato il principale ispiratore del blitz anticamorra del 17 giugno 1983, »il venerdì nero della camorra , in cui vennero arrestati 852 camorristi della Nco. 200 di loro verranno poi scarcerati nell'arco dei tre mesi successivi, so

prattutto per errori di omonimia.

Tutti oggi sanno chi è Barra, in particolare perché ha accusato Enzo Tortora di spacciare la cocaina per conto della camorra. Un'assurda accusa che il giornalista televisivo ha sempre respinto e per la quale ancora oggi si trova agli arresti domiciliari.

Barra, che per anni è stato considerato il »boia delle carceri , dopo il suo pentimento è assurto a salvatore della Patria. Eppure, quasi tutti quelli che ha accusato, li ha coinvolti solo per ritorsione; lui, comunque, si arrabbia se lo chiamano pentito, e si professa camorrista verace al 100%.

I settimanali hanno una predilezione per Barra, che, dalle elastiche maglie del segreto istruttorio (quello di Pulcinella), ha fatto giungere interviste e memoriali esclusivi un po' a tutti. Qualcuno lo ha addirittura fotografato all'interno di una camera di sicurezza in una caserma dei Carabinieri.

Che dire poi dello sconcertante atteggiamento benevolo di alcuni inquirenti napoletani nei suoi confronti? Non passa giorno che non sia sollecitato il Ministro di Grazia e Giustizia affinché venga approvata una legge sui pentiti della camorra. Fino a ieri feroce assassino e oggi »prezioso collaboratore ; si sa, le cose della nostra Giustizia vanno così, e anche i Barra hanno i loro momenti di gloria. Specialmente quando le loro »disinteressate dichiarazioni contribuiscono a tenere in piedi i castelli accusatori contro Enzo Tortora. Ma Barra fa di più: in un'intervista ad un settimanale si permette di ammonire la figlia del presentatore, Silvia, a non fidarsi dello scaltro genitore, che viene definito »un mariuolo .

Con il caso Barra il fenomeno pentitismo ha raggiunto il punto del non ritorno, aprendo una nuova oscura epoca per le sorti dello Stato di Diritto in Italia.

PATRIZIO PECI

Per molti oggi il suo nome è sinonimo di pentimento. Tra tutte le figure equivoche del pentitismo nostrano quella di Peci, a onor del vero, è la più limpida. E forse l'unico pentito degno di chiamarsi così, anche se sulle cause e sulle modalità della sua collaborazione sono state avanzate molte ipotesi. Patrizio Peci ha pagato duramente la sua scelta: il fratello Roberto venne rapito dall'ala senzaniana delle Br il 10 giugno 1981, a S. Benedetto del Tronto, paese natale della famiglia Peci. Il suo cadavere verrà ritrovato il 4 agosto di quello stesso anno in una discarica alla periferia di Roma. Con questa vendetta trasversale le Br intesero vendicare i morti di via Fracchia (28 marzo 1980), quattro brigatisti sorpresi nel sonno dai Carabinieri e massacrati nel corso di un conflitto a fuoco.

Per spiegare l'assurda ritorsione contro il fratello di Peci, le Br cercarono di accreditare la tesi del doppio arresto dell'ex brigatista, una tesi che, francamente, sembra non poggiare su basi concrete. Ma tant'è: in uno dei comunicati che seguirono il sequestro, le Br diedero questa versione del pentimento di Peci: »Mio fratello fece diverse telefonate a casa intorno al maggio 1979 e disse a mia madre che non ce la faceva più... Per 4 o 5 mesi non telefonò più, fino ad ottobre, quanto mia sorella Ida ricevette una nuova telefonata, in cui Patrizio diceva che era stufo e che prima o poi sarebbe stato arrestato. Verso la fine dell'ottobre del 1979 venni arrestato per l'assalto alla Confapi. I Carabinieri barattarono la mia libertà con l'arresto di Patrizio. Io diedi il mio assenso e uscii il 2 dicembre 1979, e quando mio fratello telefonò a casa gli spiegai quale era la proposta dei Carabinieri. Patrizio accettò e venne arrestato il 13 dicembre 1979. I carabinieri gli proposero la libertà, un passaporto e s

oldi, se faceva arrestare tutti quelli della direzione strategica. Così venne rilasciato. Due mesi dopo venne di nuovo arrestato in compagnia di Rocco Micaletto; l'intera operazione era saltata, poiché a Roma si era saputa la cosa... . Sono alcuni brandelli dell'allucinante lettera che le Br costrinsero Roberto Peci a scrivere durante la propria prigionia. In realtà, la storia del doppio pentimento non sta in piedi, perché le Br non avrebbero continuato a fidarsi di Peci anche dopo che questi aveva iniziato a collaborare con la Giustizia. Per almeno un mese dopo l'arresto, infatti, i brigatisti credettero che a tradire fosse stato Rocco Micaletto.

Peci è anche lui in libertà da tempo e ha scritto un libro (»Io l'infame ), in cui racconta quale sia stata la sua esistenza da clandestino. Un libro che unisce il cinismo alla vuotezza di ideali e che dà la dimensione, più reale, del microcosmo brigatista con le sue velleità e i suoi squallori.

Peci ha partecipato a molti ferimenti e omicidi: tra essi il più feroce fu senz'altro l'assassinio del vicedirettore della »Stampa , Carlo Casalegno.

MARCO BARBONE

E passato alla storia oltre che per il barbaro omicidio di Walter Tobagi, dirigente sindacale dei giornalisti lombardi, anche per le polemiche seguite alla sua scarcerazione, a meno di tre anni dall'arresto. Gli altri, almeno qualche anno in più di carcere se lo sono fatto. Lui, Barbone, enfant prodige del terrorismo prima e del pentimento poi, no. E per di più nel mercato con la Giustizia è riuscito ad includere anche la sua donna, Caterina Rosenzweig, che, benché risulti chiaramente complice della fase preparatoria dell'omicidio Tobagi, è rimasta inspiegabilmente fuori dal processo.

La libertà che i giudici hanno regalato a Marco Barbone ha fatto gridare allo scandalo per molti motivi. Il primo è stato quello più materiale: che cosa aveva dato, in fondo, allo Stato Democratico, questo piccolo killer, visto che, quando decise di collaborare, i suoi complici erano già tutti detenuti e individuati? Molti hanno risposto che Barbone è stato premiato più per avere accusato Negri e quelli di »Rosso , che per la collaborazione offerta per il caso Tobagi. Certo è che gli inquirenti sul suo gruppo sanno già tutto o quasi dal 1978, da quando il pentito-infiltrato Rocco Ricciardi comincia a stilare i primi rapporti sulle Fcc (di cui Barbone fece parte prima di fondare la Brigata XXVIII Marzo). Ricciardi ha usufruito pure lui dei benefici della legge sui pentiti, sebbene lo stesso Ministro degli Interni Scalfaro ha dovuto ammettere che fu un infiltrato. Il suo nome in codice era »il postino o la »buca .

Tra le cose che i Magistrati vengono subito a sapere del gruppo di Barbone e Rosenzweig, c'è sicuramente il progetto di sequestrare Tobagi, già nel 1978. Tobagi, i giornalisti in genere, sono un vecchio pallino del futuro pentito, il cui gruppo (di cui ha fatto parte anche Paolo Morandini, pentito e figlio di giornalista) si specializza in mass-media.

Nell'arcipelago del terrorismo, la Brigata XXVIII Marzo non è minimamente considerata dai gruppi maggiori. Barbone e i suoi quindi decidono di uccidere Tobagi (dopo che avevano già ferito alle gambe l'inviato di »Repubblica , Guido Passalacqua), non tanto per le posizioni assunte dal coraggioso giornalista contro il terrorismo e la violenza politica, quanto per superare una specie di prova d'ammissione alle Br.

E così in una buia e piovosa mattina, il 28 maggio 1980, si è consumato il dramma di Walter Tobagi. Un dramma rievocato dal processo contro Barbone e Morandini, e che la sentenza rinnoverà in tutto il suo drammatico spessore. Dopo la scandalosa concessione della libertà provvisoria a Barbone, il padre di Walter Tobagi ebbe a dire: »Me lo avete ucciso due volte , innescando una polemica a distanza con il PM Armando Spataro. Nella polemica si inserì anche il Psi, in cui Tobagi militava, da sempre assertore della teoria dei mandanti occulti dell'assassinio del giornalista milanese.

CARLO FIORONI

Tra tutti i pentiti è quello che meno ha collaborato e più ha ricevuto in cambio. E stato infatti il primo a riacquistare la libertà, grazie alla legge sui pentiti, che nella sua prima versione veniva chiamata, dagli addetti ai lavori, »legge Fioroni (mentre nelle sue stesure successive verrà poi chiamata, rispettivamente, »legge Peci e »legge Savasta ).

La personalità di Carlo Fioroni, il grande accusatore di Toni Negri al processo »7 aprile , è stata più volte sezionata. Tutti quelli che lo conoscono concordano nell'attribuirgli un carattere mitomane e paranoico. Dedito, quando faceva il terrorista, agli psicofarmaci e alle amfetamine, Carlo Fioroni, per un certo periodo, girava le case di tutta quella sinistra che agli inizi degli anni '70 si diceva rivoluzionaria.

Intimo di Giangiacomo Feltrinelli, tanto da esserne definito il luogotenente, subì un vero e proprio »shock quando il »compagno Osvaldo morì dilaniato da una bomba che stava confezionando sotto un traliccio di Segrate. Era il 1972 e la lotta armata era ancora agli albori, ma Fioroni già era un militante clandestino dei Gap di Feltrinelli, una specie di armata Brancaleone messa su personalmente dall'editore, e i cui pochi componenti finiranno tutti in galera dopo che Fioroni decise di parlare.

Dopo la morte dell'editore, Fioroni si rifugia in Svizzera perché teme (e a ragione) di essere ricercato dalla Polizia. Suo è infatti il pulmino in cui vengono ritrovati gli effetti personali dell'editore.

Quando rientra in Italia dalla propria latitanza, Fioroni non viene accolto con molta simpatia. Era la fine del 1974 ed il suo nome era già sinonimo di grane con la Polizia e la Magistratura.

Per un lungo periodo vive come uno sbandato, un giorno a casa di uno e un giorno a casa di un altro. Nessuno gli vuole dare però ospitalità fissa. Anche perché dovunque va si lascia dietro dei »casini , e, molte volte, si porta via quello che c'è da arraffare in casa dei suoi compagni. Finché deciderà poi di rapire il suo migliore amico.

Pochi giorni prima del sequestro Saronio, il delitto per cui è stato condannato a 27 anni in primo grado, chiede un milione in prestito all'amico fraterno Carlo. Gli sarebbe servito per pagare le spese che il suo complice, il malavitoso Carlo Casirati, stava sostenendo per preparare il sequestro.

Fioroni fu il primo tra i pentiti che tornò a vedere (non a scacchi) la luce del sole. Era il 4/2/1982. In totale, per un sequestro che si concluse con la morte dell'ostaggio, non si era fatto neppure 7 anni di carcere. Ma la cosa più grave è che lo Stato diede a Fioroni la libertà sulla parola, senza che il pentito avesse ancora mai testimoniato in un'aula di tribunale. Una caparra, insomma. E Fioroni ha ripagato questa fiducia con la truffa: al processo »7 aprile ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di accettare il confronto con tutti coloro che ha mandato in galera. E mentre appare sempre più probabile l'estraneità di una matrice politica nel sequestro Saronio, Fioroni vive tranquillo e beato in Nord America, godendosi i soldi che gli sono stati elargiti dai nostri servizi segreti.

 
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