di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Sarebbe utile a tutti una attenta rilettura delle "riflessioni teoriche dei padri del federalismo moderno". In primo luogo, alle pagine del "Manifesto" federalista, stilato a Ventotene da Spinelli, Rossi (ed altri), e alla sua critica allo Stato nazionale. Esse evidenziano subito una delle "aporie del pensiero politico contemporaneo": quella che vede lo Stato "creatore di libertà e loro spietato coartatore". Gli Stati totalitari hanno realizzato nella forma più coerente l'"unificazione" di tutte le forze della nazione, ma così facendo hanno trascinato anche gli Stati democratici in una tremenda corsa, sotto la spinta della "volontà di sopravvivere" battendo la spietata concorrenza. Il Manifesto contiene quindi una critica attenta alle varie forme di "neocorporativismo" dello Stato "sociale", quelle che richiedono la "cogestione, la spartizione delle risorse" spacciando ciò come ricerca del "socialismo". Nella loro critica alle degenerazioni dello Stato contemporaneo, Rossi e Spinelli superano anche
i rischi di un neoliberismo che non sappia cogliere il nesso esistente tra forme dell'economia e istituzioni statuali. A smascherare le realtà che sono sotto i miti nazionali, si osservi quanto accade nei paesi excoloniali dove ristrette élites dirigenti cercano di fondare le nuove identità nazionali e statuali, ma senza poter partire da "alcun reale fondamento né storico né culturale".
(COMUNI D'EUROPA, organo mensile dell'AICCE, settembre 1984 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Sarebbe utile a tutti fare un passo indietro, e rileggere le riflessioni teoriche dei padri del federalismo moderno. Lì, in pagine dettate sia dalla meditazione sugli orrori della guerra che da una già sgomenta attenzione alla crisi delle forme dello Stato, vi sono indicazioni e soluzioni attuali, di pregnante forza persuasiva. Pensiamo, naturalmente, in primo luogo alle pagine del Manifesto federalista, il documento stilato a Ventotene da un piccolo gruppo di antifascisti, tra i quali spiccavano Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. E qui che troviamo interrogativi e risposte non indegne dei nostri giorni: "La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettassero". Così inizia il Manifesto, così inizia il processo aperto dai due critici allo Stato naz
ionale (1) .
E impossibile sviluppare qui in modo articolato l'intenso ragionamento di queste pagine. Certo è che esse incontrano la riflessione di quanti, oggi, vengono ad esempio dibattendo intorno ai princìpi stessi, alla "struttura", del Politico; e scoprono che politico non coincide più con razionale, mentre la crisi delle ideologie mette in forse la continuità storica del pensiero né consente più di giustificare il presente o una qualsiasi progettualità, di destra come di sinistra. Qui, in queste pagine, viene a fuoco almeno una delle aporie del pensiero politico contemporaneo: quella che vede appunto lo Stato creatore di libertà e loro spietato coartatore. "Gli Stati totalitari sono quelli che hanno realizzato - leggiamo - nel modo più coerente l'unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo in avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia
seguita dalle altre trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere". E oggi facile riconoscere che una analisi così pessimista aveva colto molto più profondamente l'essenza storica del fascismo di quanto non abbia fatto la coeva storiografia e critica "democratica", preoccupata di togliere al fascismo, anche a scapito dell'intelligenza del fenomeno, ogni e qualsiasi fondamento, e quindi quello spessore di realtà che invece gli competeva. E se può sembrare spietato, poco realista, pessimistico, il richiamo all'ineluttabilità della trasformazione, o degradazione, dello Stato verso esiti nazionalisti e totalitari sotto la pressione della concorrenza internazionale, si deve porre attenzione al fatto che attualmente, nel mondo, sono più numerosi gli Stati retti da forme di militarismo autoritario che non quelli dove la democrazia vive e dispiega la sua forza propulsiva e pedagogica; come anche all'altro dato, non meno terrificante, della profonda e irreversibile commistione, sotto ogni latitudine, d
el complesso militare-industriale con le strutture profonde del sistema politico, che non può non risultarne inquinato, anche quando superficialmente intatto.
Sono molte le pagine del Manifesto di Ventotene in cui la critica allo Stato nazionale afferma tutta la sua attualità; qui troviamo analisi tra le più acute del "neocorporativismo" dello Stato sociale, anche se la terminologia suona diversa da quella cui siamo abituati, perché il fenomeno viene analizzato (e con qualche fondamento) sotto la definizione di "sindacalismo". Per "sindacalismo" si intende, in queste pagine, la teoria secondo la quale il massimo bene da conseguire, anche o soprattutto per le forze politiche democratiche, sarebbe la cogestione, la spartizione delle risorse, del reddito nazionale, così da assicurare alle diverse sezioni sociali il massimo di profitto rapportato alla forza politica disponibile al tavolo della contrattazione: "I socialdemocratici hanno continuato e continuano a parlare di socialismo come del loro fine, ma in pratica non han mai pensato né fatto altro che sindacalismo...". Ripetiamo, questa è già, in nuce, un'attuale critica dello Stato sociale-assistenziale.
Che questa violenta critica alle politiche "socialdemocratiche" risentisse di certo fondo culturale liberista, indubbiamente presente in Rossi, è possibile. Ma quello che è interessante di questo scritto è lo sforzo dei due suoi autori di non ricadere nel sonno dogmatico del liberismo, come sarebbe successo se essi avessero lasciato intatto il quadro istituzionale entro il quale collocare la loro analisi: appunto lo Stato nazionale. Di questa inadeguatezza peccano tutte le altre coeve critiche al fascismo, o al marxismo, che pure vivificarono la riflessione culturale e politica degli anni '30, a partire da "Giustizia e Libertà", che anch'essa si cimentò sul tema delle libertà nel loro rapporto con la giustizia. Rossi e Spinelli (e mi è impossibile scindere i due nomi) il grande balzo rinnovatore lo fanno invece quando individuano nello Stato nazionale non solo il neutro "contenitore" del processo sociale e delle sue degenerazioni, ma addirittura il fondamento e la causa di queste ultime. Il loro rilievo era
e resta fondamentale perché pone al centro della dinamica dei fenomeni le istituzioni, la forma-Stato, cioè. Per Rossi e Spinelli non è possibile superare la stretta della crisi sociale e politica se non modificando la base dello Stato, abolendo cioè la simbiosi tra forma statuale e identità nazionale.
Il fatto che lo Stato moderno sia nato nel connubio tra forma e un certo contenuto ideologico non è risultato indifferente e non mancherà di avere ancora conseguenze grandissime. Basta osservare quel che sta accadendo negli Stati emergenti, soprattutto d'Africa, dove la ricerca di una identità nazionale è fondata esclusivamente sulla autoproduzione ideologica di ristrette élites dirigenti, quasi sempre senza alcun reale fondamento né storico né culturale. Il processo appare faticosissimo, mentre da nessuna parte si riesce ad intravedere modelli alternativi. Pensiamo quale potrebbe essere l'impatto su queste dinamiche qualora gli Stati europei rinunciassero alle loro pregiudiziali nazionali, per intraprendere la costruzione dello Stato federale. Ci pare corretto supporre che il mondo potrebbe prendere, solo in conseguenza di tale svolta, cammini diversi.
NOTA
1) A.S. e E.R.: "Problemi della federazione europea", Edizioni del Movimento Italiano per la Federazione Europea, s.d. (ma 1944).