di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Il nazionalismo "rialza la testa", e non in aree periferiche della culltura e della politica, ma nel cuore d'Europa, all'est come all'ovest. Questo nuovo nazionalismo "non è esclusività delle destre": come peraltro già è successo con i laburisti inglesi o i comunisti francesi, con le sinistre italiane ed europee che "hanno accolto nel proprio corredo importanti frange del bagaglio nazionalista". I suoi obiettivi sono il "recupero e il consolidamento" dello Stato assistenziale, keynesiano, in crisi. L'a. si domanda se invece non vi sia qualcosa da innovare, "su questo schema culturale e politico", quando la crisi del "moderno" e l'avvento del "postindustriale" hanno messo in crisi progetti, ipotesi e miti su cui reggeva lo Stato sociale.
(COMUNI D'EUROPA, organo mensile dell'AICCE, settembre 1984 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Il nazionalismo rialza la testa, tra osanna e anatemi. Dato per scomparso sotto le rovine della guerra che aveva contribuito a scatenare, restato comunque in dormiveglia quale eredità di un passato da tutti denunciato come fuori del tempo, torna alla ribalta sorprendentemente vivo e vitale, cosicché sembra non lo abbiano nemmeno scalfito le critiche sul piano teorico, gli odi delle concorrenze ideologiche, la sprezzante e scettica ironia di quel cosmopolitismo che ha percorso per un quarantennio tutti i cieli del mondo diventando ospite fisso della cultura del moderno. E risorge, il vecchio nazionalismo, proprio mentre invece appare agonizzante e al tramonto l'altra grande ideologia che, dalla metà del secolo scorso, l'ha ferocemente combattuto e contrastato su tutti i piani, cioè l'ideologia della lotta di classe.
La ripresa avviene non solo in aree periferiche della cultura e della politica; per quanto artificioso (perché faticosa e incerta costruzione di classi dirigenti protese a plasmare Patrie fino a ieri improbabili) e localmente virulento, il nazionalismo dei paesi emergenti ha un rilievo in fin dei conti secondario, in questa reviviscenza. No: il nazionalismo torna a essere pericoloso nel cuore stesso del mondo sviluppato, all'ovest non meno che all'est dove da tempo si era perfettamente saldato, in un esasperato e acritico giacobinismo, con l'ideologia classista. L'Inghilterra ha rivissuto nelle Falkland le sue ebbrezze imperiali; tra Bonn e Potsdam si apre un dialogo che ha per tema, senza infingimenti, la Heimatsvereinigung, la riunificazione nazionale; Mitterand ripercorre orme golliste; in Italia si riscoprono le astuzie dell'egoismo nazionale, e i socialisti risfoderano la spada dell'lslam guardando alla quarta sponda.
Quel che è più curioso, il nuovo nazionalismo non è più esclusività delle destre. A pensarci bene, e i federalisti meglio degli altri devono saperlo, non lo è mai stato. Nazionalismo insulare, grettamente operaistico e sindacalistico, è stato il nucleo duro del laburismo d'ogni latitudine; nazionalismo della grandeur colorava la politica dei comunisti francesi; considerazioni di natura geopolitica a sfondo ideologico hanno trattenuto a lungo l'evoluzione europea delle sinistre Italiane. Ma adesso sembra vi sia qualcosa di più. Dappertutto, le sinistre sembrano aver accolto nel proprio corredo importanti frange del bagaglio nazionalista, dandogli un sapore di attualità. Il nazionalismo che percorre un po' tutti i paesi del mondo sviluppato è portatore di un estremo messaggio di recupero e consolidamento del complesso dei valori che hanno connotato la vita e le fortune dello Stato assistenziale, lo Stato del benessere neocorporativo alle cui mammelle per mezzo secolo circa si sono nutriti produttori e consumat
ori, capitale e classi lavoratrici di ogni colore. Il vecchio modello dello sviluppo costruito sulle dottrine di Keynes attorno ai primi decenni del secolo sembrava aver perduto la sua forza propulsiva sotto i colpi dell'inflazione interna e della redistribuzione del lavoro e dei mercati internazionali, delle "aspettative crescenti" e della conseguente "crisi fiscale" di cui si è fatto un gran parlare. Ma, mentre nessuno ha ancora dimostrato di disporre di ricette sicure per restiturgli l'antica dinamicità, tutti si sono adoprati per tenerne in piedi, comunque, le corrose strutture; in primo luogo, ripetiamo, le sinistre, le quali hanno considerato loro vittoria l'affermazione dello Stato sociale e sembrano quindi incapaci di pensare e agire se non in termini di ridistribuzione dei redditi e di spartizione corporativa delle risorse. La cultura politica dei nostri giorni, anche quella "progressista", non riesce insomma a pensare se non in termini di Stato nazionale. Non si riesce a concepire né corretta produ
zione di valori e di beni, né salvezza dell"'individuo", se non nel quadro della vecchia, grande costruzione borghese dello Stato accentratore, creatore assoluto di diritti e di doveri universali, secondo la comune e diffusa accezione: "La verità è che lo Stato si è reso liberatore dell'individuo - scriveva Emile Durkheim alla fine del secolo scorso - E' lo Stato che, con il progressivo acquisto di forza, ha liberato l'individuo dai gruppi particolari e locali (famiglia, città, corporazione, ecc.) che tendevano ad assorbirlo. L'individualismo ha marciato al passo con lo statalismo".
Non c'è proprio nulla, invece, da innovare, su questo schema culturale e politico? Neppure oggi, quando la crisi del "moderno", l'avvento del "postindustriale", hanno messo in difficoltà tanti dei concetti e delle ipotesi, delle verità e dei miti su cui si è sviluppato lo Stato contemporaneo? Settori avanzati della riflessione politica ci stanno, per la verità, provando con alterne fortune, facendo irruzione nella breccia aperta dai critici dello Stato sociale. Qualcosa, in fondo al tunnel, si intravede: ma è nel mondo politico che le resistenze sono più aspre, tanto più forse quanto più divengono pressanti i problemi e restano incerti gli sviluppi prossimi e lontani.