di Leonardo SciasciaSOMMARIO. Si mostra amaramente sorpreso per il giudizio del critico P.P. Trompeo sullo scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese. Rievoca la vita di questo scrittore, emigrato in America per le minacce fasciste. Borgese scrisse in inglese, nel 1938, "Golia, la marcia del fascismo" che spiega meglio di tante altre opere quel che fosse accaduto in Italia tra il 1919 e il 1943.
A proposito della serata in onore di Borgese organizzata da Mondadori, e che aveva provocato il giudizio negativo di Trompeo, Sciascia afferma che l'averla organizzata era stata una "malinconica idea": cosa avevano da dirsi, l'uomo che vedeva i fatti dargli del tutto ragione, e quei letterati che tutti, o quasi tutti, si erano compromessi col fascismo? Purtroppo, una stessa avversione o almeno antipatia sembra circondare i siciliani, gli uomini del sud. Quando Quasimodo ottenne il Nobel, l'Italia letteraria reagì molto male, quasi fosse un'offesa. L'antipatia nei confronti della Sicilia sembra essere riaffiorata anche nel momento in cui "due magistrati siciliani", "superando il sentimento di quella solidarietà siciliana "che gli imbecilli credono esista", hanno spiccato mandati di cattura contro altri magistrati, sospettati di "associazione mafiosa".
(CORRIERE DELLA SERA, 2 settembre 1984)
"Noi siciliani," diceva Lucio Piccolo quando si crucciava di qualche critico dell'Italia del Nord che non capiva la sua poesia o non la degnava di attenzione, "siamo antipatici." Non ne cercava le ragioni: e credo ritenesse non ce ne fossero se non a rovescio, contro ogni ragione. E del resto l'antipatia di ragioni non ne ha mai. Era, la sua, una constatazione ormai, per assuefazione, appena dolente: rassegnata, accettata. E in un certo senso goduta, poiché è degli uomini diciamo speculativi, la capacità di estrarre da una condizione infelice una certa felicità, una sottile allegria.
Insistentemente questa sua affermazione mi si ripete in questi giorni nella memoria (con la sua voce, con la sua espressione quando la pronunciava, col suo avido aspirare dalla sigaretta prima e dopo averla pronunciata): e non tanto per la polemica contro i giudici siciliani, che c'è chi vorrebbe sottrarre all'endemia mafiosa trasferendoli in altre regioni d'Italia, quanto per una letterina, che un amico mi ha mandato in fotocopia, che Pietro Paolo Trompeo mandava ad Arrigo Cajumi il 23 ottobre del 1952.
Premetto che ho sempre cercato ed amato le cose scritte da Trompeo, e specialmente le sue pagine stendhaliane, d'impareggiabile passione e finezza. Ho avuto anche il piacere di conoscerlo: uomo di una mitezza, di una tolleranza, di una gentilezza come pochi già se ne incontravano e pochissimi oggi se ne incontrano. Imbattermi dunque in questa sua letterina a Cajumi, in un giudizio duro ed ottuso non solo su un uomo, uno scrittore, che sgradevole che fosse il suo comportamento meritava e merita rispetto e attenzione, ma effettualmente sulla Sicilia intera, sui siciliani tutti, è per me motivo di delusione e di amarezza. Continuerò a leggere e ad amare Trompeo (e anzi sto rileggendo le sue "Rilegature gianseniste"); ma ora con questa piccola spina del suo intollerante e poco intelligente giudizio su Giuseppe Antonio Borgese e sui siciliani. Ed eccolo: "L'altra sera ebbi la malinconica idea di accettare un invito di Mondadori per un ricevimento all'Excelsior in onore di Borgese. Faceva da padrona di casa, m
olto graziosamente, Alba de Cespedes; e c'erano molti cari amici: ma lui, Peppantonio, che volgare padreterno! L'America e la vecchiaia l'hanno ancora di più sicilianizzato."
Bisogna spiegare, poiché pochi italiani sanno di Borgese, della sua vita, della sua opera, che lo scrittore siciliano prestigioso critico letterario e forse, dalle colonne di questo giornale, il più autorevole; autore di inquiete e inquietanti opere narrative; drammaturgo, poeta era emigrato negli Stati Uniti al principio degli anni trenta. All'Università di Milano, dove insegnava, le violenze dei fascisti e le delazioni dei colleghi gli rendevano la vita impossibile: e si annunciava l'obbligo, per tutti i professori universitari, di giurare fedeltà al fascismo. Obbligo cui si sottrassero, perdendo l'insegnamento, non più di una dozzina di professori, in tutta Italia. Borgese fra questi. Non faceva politica, ma politica era la sua visione delle cose italiane passate e presenti: e di una intelligenza e giustezza da rendersi naturalmente avversa al fascismo. All'occasione, dunque, che gli si offrì di andare ad insegnare in una università americana, lasciò l'Italia con l'intenzione di non tornarvi se non a
fascismo finito.
Nel 1938 Longanesi in un suo diario annotava: "Fra vent'anni nessuno immaginerà i tempi nei quali viviamo. Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti d'ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto." Ma proprio intorno a quell'anno, Borgese pubblicava, scritto in inglese, il libro che ancora oggi, più dei tanti altri che poi sono stati scritti, ci racconta e spiega quel che agli italiani è accaduto tra il 1919 e il 1943, quel che agli italiani con altri nomi o senza nomi, sotto altri aspetti ancora accade: Golia, la marcia del fascismo (in traduzione italiana apparso nel 1946). Né va dimenticato che gli ultimi anni della sua vita (morì a Fiesole nel dicembre del 1952), Borgese li dedicò all'idea della pace mondiale: fatto che dovrebbe oggi richiamare grande e cordiale attenzione alla sua figura.
E c'è da immaginarla, quella serata in onore di Borgese. Se persino il mite Trompeo se ne era irritato, figuriamoci gli altri. Che "malinconica idea", l'esserci andati. E che "malinconica idea", quella di Mondadori, di festeggiare il ritorno di Borgese (e qui bisogna dire, ad onore di Mondadori, che forse lui e Attilio Momigliano furono i soli a non far dimenticare agli italiani l'esule e antifascista Borgese: la "Biblioteca romantica" continuò a portare la dicitura "diretta da G. A. Borgese" e la storia della letteratura italiana del Momigliano, largamente adottata nelle scuole, invogliava a cercare quei libri di Borgese che stavano diventando introvabili). Con un uomo che fortemente sentiva di sé, ma più con ingenuità che con arroganza, e che dopo quasi vent'anni tornava avendo avuto su tutto ragione e senza aver nulla da rimproverarsi, l'incontro non poteva essere facile, tutti, o quasi, avevano avuto torto; tutti, o quasi, avevano qualcosa da rimproverarsi. Il meno che tutti, o quasi, avevano fatto duran
te il ventennio fascista, era il giuramento universitario o l'articolo sulla prosa del duce o l'approvazione per l'abolizione del "lei" e della stretta di mano. Il meno. Qualunque cosa Borgese in quella serata dicesse non poteva che toccare ricordi che si volevano rimuovere e code di paglia. Un "volgare padreterno", dunque; un siciliano che l'America e la vecchiaia avevano reso ancor più siciliano: poiché all'essere siciliano, come al peggio e in quanto peggio, non c'è fine. Anche per il mite, tollerante, gentile Trompeo.
Mi sono dilungato su questo esempio dell'antipatia che i siciliani godono in quanto siciliani. Potrei addurne tanti altri, restando nel campo della letteratura e non ultimo, per rilevanza e nel tempo, quello di Quasimodo. Sempre Quasimodo avvertì intorno a sé un'avversione, una persecuzione quasi ("Uomo del Nord che mi vuoi minimo o morto per la tua pace"); e la si considerava una specie di mania. Ma quando, nel 1959, gli fu conferito il premio Nobel, si ebbe la prova che non c'era nulla di maniacale nell'ostilità di cui si sentiva circondato credo che nessun paese, mai, abbia reagito come l'Italia letteraria ha reagito all'assegnazione del Nobel a Quasimodo. Come ad una offesa. Juan Ramon Jiménez era fuoruscito, in esilio, quando ebbe il Nobel: ma se ne rallegrò anche la Spagna franchista. Né si può dire che Quasimodo fosse al di sotto della media dei Nobel: basta scorrerne l'elenco dal 1901 ad oggi.
Ora se questo accade, come accade, a livello di "civiltà perfezionata", non c'è da meravigliarsi che tale antipatia, digradando e degradandosi in certe piaghe di stupidità collettiva, arrivi ad invocare l'Etna a che dia lava a seppellire intera la Sicilia con tutti i siciliani. Così come, di tanto in tanto, vien fuori l'idea di trasferire in altre regioni tutti i siciliani, o soltanto quelli che stanno ai gradi più alti, che lavorano nelle amministrazioni statali, e particolarmente in quella della giustizia.
Curiosamente, questa idea, questa proposta, è recentemente riaffiorata e relativamente ai magistrati proprio nel momento in cui dai fatti si doveva apprendere lezione contraria: che due magistrati siciliani, superando il sentimento della solidarietà siciliana, che gli imbecilli credono esista, e il sentimento della solidarietà corporativa, che indubbiamente esiste, arrivavano e spiccando un mandato di cattura ad ammettere quella verità che soltanto don Pietro Ulloa, procuratore del re a Trapani nel 1838, aveva avuto il coraggio di mettere nero su bianco: e cioè l'"egida impenetrabile" che certi magistrati offrivano alla mafia.
Io non so se il dottor Costa, sostituto procuratore della repubblica a Trapani fino a ieri, e oggi detenuto per associazione mafiosa, sia colpevole o innocente: aspetto che lo stabilisca il processo dibattimentale. Ma so che figure di protettori e di favoreggiatori debbono necessariamente esistere in ogni amministrazione statale, e anche in quella della giustizia: non si spiegherebbe altrimenti l'"egida impenetrabile" di cui la mafia ha goduto dai tempi di don Pietro Ulloa ai nostri. E che abbiano protetto e favorito la mafia (che la proteggano e favoriscano) perché siciliani, non direi. E del resto i più eminenti e perfetti esemplari di "sentire mafioso" che abbiamo conosciuto in questi anni sono due nati a nord della Linea gotica e venuti in Sicilia in età matura. Dico di "sentire mafioso", anche se uno dei due è ancora inseguito (o non più?) da un mandato di cattura.