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Boneschi Luca - 13 ottobre 1984
DIBATTITO PRECONGRESSUALE: LUCA BONESCHI

SOMMARIO: Alla vigilia del Congresso diversi sono i temi che devono avere una priorità: il problema della partitocrazia, almeno come viene inteso nelle mozione di Rimini, dovrebbe comportare l'autoscioglimento del PR. La problematica più inquietante è quella che concerne la necessità di trovare delle lotte antiregime che abbinano una forte portata eversiva non in senso assoluto ma per la realtà italiana, così come è stato per l'aborto ed il divirzio. Un nuovo fronte per la lotta in questo senso potrebbe essere la GIUSTIZIA intesa in tutte le sue componeneti. Occorre, inoltre, condurre una battaglia per l'informazione in senso "offensivo" e non difensivo in opposizione al sistema monopolistico; va anche sottolineato il ruolo primario che, a livello di informazione, assumono le forme "altre" rispetto alla televisione e alla radio. Occorre dunque una rapida individuazione della nuova politica radicale che passi attraverso la rifondazione del partito.

(NOTIZIE RADICALI N. 71, 30 aprile 1984)

Parto dalla constatazione fatta da Angelo Panebianco del carattere "eversivo-destabilizzante" dell'azione politica radicale, in nome della democrazia e dello Stato di diritto. Carattere che hanno avuto battaglie e campagne su "cose" (divorzio, aborto) che in sé non avevano nulla di rivoluzionario, trattandosi di basilari diritti civili, ma che nel contesto italiano assumevano, per ragioni che è superfluo riassumere, una valenza davvero eversiva e unificante.

Tra le molte cose che non ho condiviso della mozione di Rimini (ma non è obbligatorio condividere tutto per iscriversi) c'è quell'analisi iniziale troppo stretta e rigida sulla partitocrazia: che, se fosse esatta, dovrebbe comportare l'autoscioglimento del partito. La partitocrazia esiste e impera ma proprio perché rappresenta la degenerazione di un regime allo sfascio, incapace di governare e di offrire i servizi essenziali ai cittadini, è in contraddizione sia con l'assetto formale democratico del paese, sia con le esigenze e gli interessi di molti. Quindi consente ancora, pur in una situazione distorta e falsificata (e sinché la democrazia formale regge), l'utilizzazione degli strumenti di democrazia, dalle elezioni al partito, e crea terreno di possibili aggregazioni. Le elezioni europee sono state una non trascurabile conferma.

Il problema radicale è oggi, a mio parere, quello di individuare i nuovi cunei - come lo sono stati il divorzio e l'aborto - da inserire nello schieramento partitocratico per determinare la possibilità di nuove soluzioni politiche: dall'unità delle sinistre alla crescita vigorosa del Partito radicale come forza antiregime. In altre parole, occorre individuare le lotte antiregime che siano tali, cioè che abbiano quell'efficacia e quella forza "eversiva" di cui dicevo in premessa.

La lotta contro lo sterminio per fame nel mondo è e rimane prioritaria: per le molte ragioni che altri meglio di me hanno già espresso. Ma essa rappresenta - lo dico dal congresso del 1979 - il fronte internazionale e internazionalista della politica radicale: di grande valore e anche di grande ambizione.

Il fatto è che, tramontata infelicemente l'epoca referendaria, nella politica "nazionale" del partito, e la lotta sulla fame è venuta a pesare, quasi un incubo, in modo totalizzante sul partito risucchiandone ogni energia e in definitiva soffocando inventiva, istanze libertarie, fantasia. Anche perché ha avuto, nella propaganda esterna, un taglio caritatevole e cattolicheggiante, a me piuttosto sgradito, che ne ha annacquato la portata dirompente in termini economico-politico-militari.

Individuare le nuove lotte sul fronte interno è dunque essenziale e difficile. Quali? Meno ancora di altri ho soluzioni pronte. Posso osservare che la questione "giustizia" non si identifica con il solo problema dei pentiti, ma coinvolge ormai l'intero funzionamento dell'apparato giudiziario, la partiticizzazione dei magistrati, la burocratizzazione degli apparati. Il non funzionamento del terzo potere, come le sue degenerazioni, costituisce il terreno fertile di crescita così dell'arbitrio del più forte come dello strapotere partitocratico. Allo stesso modo in cui, nel Mezzogiorno, la latitanza dell'istituzione democratica è il presupposto, non solo il prodotto, di ogni turpitudine mafiosa o camorristica, di ogni compenetrazione tra "potere" partitico, affarismo, delinquenza.

Posso ancora rilevare che lo slogan "Fuori i partiti dai Comuni", che potrebbe avere dignità di lotta "eversiva", è forse in contraddizione (non apparente) con l'adesione a liste verdi o azzurre di taglio ecologico sulla cui efficacia antiregime ho perplessità (a meno che ad esse non si dia un segno equivalente al "non voto": ma occorrerebbe una chiarezza che ancora non vedo). Si tratta di discutere e approfondire.

Ciò di cui sono invece convinto è che l'informazione sia uno dei perni su cui si regge la partitocrazia; e che il partito, salvo che nella dura e utile battaglia parlamentare sulla legge di riforma dell'editoria, ha confuso la lamentela e l'anatema contro il cattivo nemico con la lotta politica. Anche la campagna sul canone Rai è stata condotta a intermittenza, mai con determinazione, e senza essere inquadrata in una politica radicale sull'informazione. In questo campo, patrimoni di ricerca sfornati puntualmente dalla Fondazione Calamandrei non sono stati né capiti, né utilizzati.

Occorre dunque proporre una politica dell'informazione, nel senso "offensivo" e non difensivo sottolineato ancora una volta puntualmente da Panebianco. L'intervento antimonopolistico, dimenticato per troppo tempo nonostante i frequenti richiami all'attenzione del partito, è ormai punto fondamentale: nei confronti dei privati, ma anche del "servizio" pubblico. Ciò comporta la libertà dell'interconnessione per le televisioni, essenziale per fare informazione. Libertà sulla quale, non foss'altro che per principio, non avrei timore ad impegnare le lotte del partito anche nell'attuale situazione di monopolio berlusconiano. Anche la campagna contro il canone Rai va inquadrata in questo contesto.

Dalla stampa alla telematica, alle banche dati, alle agenzie televisive, oggi il controllo dell'informazione si gioca su molti fronti, nella totale assenza del partito, tutto concentrato ad occuparsi delle sue radio e televisioni. E si dimentica il non più rinviabile, anche se delicatissimo, problema della preparazione professionale del giornalista e di un suo codice deontologico.

Sul partito, ho ascoltato e letto con attenzione, e condiviso molto. Ritengo che l'attuale segreteria abbia compiuto un lavoro per molti versi encomiabile e in una situazione di estrema difficoltà: cionondimeno ho l'impressione che il momento della rifondazione statutaria e organizzativa sia giunto. Anche perché, eliminati - probabilmente a ragione - i partiti regionali, nulla è stato loro sostituito. Così che oggi il partito si identifica pericolosamente con il suo gruppo dirigente. Ho vissuto questi ultimi due-tre anni con una forte sensazione di chiusura, di autocontemplazione, di avvitamento del partito su se stesso, con tutto ciò che di inevitabilmente negativo ne deriva.

La grande intuizione dei "soggetti autonomi", ad esempio, non ha avuto seguito: tutto viene riportato nel senso del partito, e chi ricerca di conquistare o difendere la propria autonomia sostanziale, oltre che formale, è guardato con sospetto.

La radio è radio di partito: non basta il "servizio" delle dirette dal Parlamento a renderla autonoma e aperta. La televisione non so cosa sia perché a Milano non si vede: ed è comunque un lusso, o uno spreco. Tutto è concentrato su Roma, in Roma e per Roma: c'è da meravigliarsi che non esistano realtà locali? La logica è efficientista, senza lungimiranza. La ricerca scientifica è vista come cosa inutile, se non finalizzata a scopi di partito con resa immediata.

Questa chiusura, questa paura delle autonomie, questo non volere far circolare idee "diverse", rappresenta a mio parere una forte caduta di tensione ideale, una scarsa fiducia nei propri mezzi. Sono convinto che la ricerca e l'individuazione della nuova politica radicale debba passare anche attraverso quella che viene chiamata "rifondazione" del partito.

 
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