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Turone Sergio - 13 ottobre 1984
DIBATTITO PRECONGRESSUALE: SERGIO TURONE

SOMMARIO: Il bilancio sull'attività politica del PR per il 1984 sarebbe stato fallimentare se il 4 ottobre non fosse riuscita l'iniziativa condotta da pochi parlamentari radicali che ha colto i due bersagli che determinano l'estrema fragilità della democrazia italiana mettendo in crisi da una parte il sistema andreottiano, dall'altra l'opportunismo complice del PCI; questo successo rilancia appieno il ruolo del Parlamento come terreno di lotta dei radicali e individua la strada che il PR dovrà percorrere nel corso del 1985.

(NOTIZIE RADICALI N. 71, 30 aprile 1984)

Se avessi scritto questo intervento precongressuale soltanto una settimana fa (nel momento in cui batto queste righe siamo invece al 7 ottobre, domenica) il tono dei miei giudizi sarebbe stato completamente diverso. Non perché le mie opinioni politiche siano soggette ad oscillazioni secondo l'umore o il tempo, ma perché proprio nell'ultima settimana è accaduta una vicenda politica - il caso Pr-Andreotti-Pci alla Camera - che a mio giudizio basta a dare una valenza altamente positiva al bilancio 1984 del Partito radicale. Proprio quella vittoriosa vicenda, anzi, dovrebbe indicarci la strada giusta da battere nei prossimi mesi e anni, per ritrovare quell'incisività che, come partito, stavamo perdendo.

Senza lo storico successo ottenuto il 4 ottobre dalla piccola ma lucida pattuglia dei deputati radicali (un successo, peraltro, dovuto non al partito come tale e maturato per impegno esclusivo del gruppo parlamentare, che ha saputo farsi trovare preparato di fronte ad un'opportunità non prevista) il nostro bilancio del 1984 sarebbe stato a mio parere negativo, o addirittura, francamente, fallimentare: per una serie di errori, di traguardi mancati, di annaspamenti, di compromessi inutili.

Poi, all'improvviso, ai primi d'ottobre, ecco verificarsi una di quelle impennate che fanno del Pr (certamente, anche per merito indiretto di quelli che ogni giorno tirano la carretta in via di Torre Argentina) la sola forza politica italiana capace di cogliere tempestivamente gli appuntamenti storici decisivi.

Avevamo capito da tempo, e detto, e scritto, che l'estrema fragilità della democrazia italiana trova origine in una serie di compromessi consociativi nei quali il rapporto dialettico fra i partiti finisce col deteriorarsi in partitocrazia. E' indubbio che le articolazioni di tale sistema sono molteplici. Ma due anelli fondamentali, indispensabili al perpetuarsi del fenomeno degenerativo, sono da una parte il cinismo del potere (di cui parlava già Ernesto Rossi) e dall'altra gli opportunismi dell'opposizione. Spero che stavolta nessuno mi darà del "moralista": ammesso che cinismo e opportunismo siano categorie anche della moralità, mi pare indubbia la loro valenza, nel nostro caso, essenzialmente politica.

Ebbene: il cinismo del potere ha da quarant'anni il suo massimo teorizzatore ed operatore in Giulio Andreotti, mentre gli opportunismi dell'opposizione ricorrono con sistematica frequenza nelle strategie del Pci.

L'iniziativa condotta dai pochissimi deputati radicali il 4 ottobre - nel dibattito alla Camera sulle conclusioni della commissione Sindona - ha colto in pieno entrambi i bersagli: ha messo in crisi il sistema andreottiano, perché, anche se l'astensione comunista ha permesso ad Andreotti di salvarsi in via immediata, in ogni caso la risonanza della polemica non potrà non avere effetti venefici; e ha messo in crisi - smascherandolo con evidenza clamorosa - l'opportunismo complice del Pci.

Le carte radicali erano state giocate così bene (grazie all'accurata ed intelligente pazienza con cui era stata seguita la vicenda Sindona-partitocrazia nei suoi risvolti giudiziari e politici) che il Pr sarebbe in ogni caso uscito vincente dal dibattito. Se infatti il Pci - per un soprassalto di pudicizia come quello tardivo che ha avuto il giorno dopo - avesse votato contro Andreotti, l'opinione pubblica avrebbe comunque attribuito all'azione dei radicali sia la sconfitta dell'andreottismo, sia la resipiscenza comunista. In me, certo, resta il grande rammarico di non aver visto un Andreotti costretto a dimettersi. Ma ritengo che ugualmente l'episodio abbia ridotto la pericolosità del "Mazarino di Ciociaria" e forse creato le premesse del suo declino.

L'entità del successo radicale è paragonabile, secondo me, a quella del trionfo che il Pr ottenne nel 1971, quando, solo, debellò pigrizie e opportunismi di tutte le sinistre per imporre la legge sul divorzio, poi vittoriosamente difesa nel referendum.

Se mi sono soffermato su quell'episodio politico in questa sede precongressuale non è per gusto di compiacimento, ma perché mi sembra che quel successo fornisca per il futuro indicazioni molto preziose e, insieme, l'occasione per una riflessione critica sul recente passato. Si voglia o no, piaccia o no, il successo del 4 ottobre rivaluta appieno il ruolo del Parlamento come terreno di lotta dei radicali.

Ripeto per chiarezza: il successo del 4 ottobre rivaluta e rilancia appieno il ruolo del Parlamento come terreno di lotta dei radicali.

Intendiamoci: la polemica fatta nel maggio-giugno 1983 sull'inagibilità del Parlamento e sulle nefandezze poste in atto dalla partitocrazia consociativa per imbavagliare Camera e Senato era tutt'altro che ingiustificata. Il trauma che avevano subito i parlamentari radicali del periodo 1979-1983 - quando ogni loro tentativo di stimolare dibattiti aveva trovato muri di gomma - era più che comprensibile. La ribellione e il "non ci stiamo più" erano assolutamente giustificati.

Eppure, nonostante tutto, nonostante l'aberrante logica mafiosa della partitocrazia, nonostante maggioranza e opposizione facciano a gara nel prendere fuori dal Parlamento le loro decisioni effettive, nonostante il potere e il prepotere delle presidenze, questo sgangherato e oppresso Parlamento di "peones" è ancora un luogo in cui un piccolissimo partito di gente onesta e intelligente può condurre una battaglia democratica limpida e - incredibilmente - vincerla.

C'è chi osserva che nella primavera scorsa il Pr arrivò vicinissimo a vincere la battaglia primaria contro lo sterminio per fame. Purtroppo, arrivare vicinissimi alla vittoria e non vincere significa perdere. L'amara sconfitta che abbiamo subito su quel tema fondamentale non è e non deve essere intesa come definitiva. Però se qualcuno fra noi s'illudeva che, disimpegnandoci dal Parlamento e lottando, come si dice, "nel paese", avremmo avuto le mani più libere per sostenere con successo la battaglia contro la fame, gli eventi del 1984 hanno smentito quella speranza. Benché il Pr abbia investito quasi tutti i propri gettoni nell'impegno extraparlamentare, e pochissimi occasionali gettoni sull'attività di Camera e Senato, la sola immensa vittoria politica ottenuta - immensa e determinante - è scaturita da quell'investimento così modesto.

E' vero che al fianco dei deputati radicali si sono impegnati, nella battaglia del 4 ottobre, quelli demoproletari. Ma non è patriottismo di partito credere e affermare che il ruolo di maggior peso - per validità e profondità delle argomentazioni usate - è stato esercitato dai radicali, e che i demoproletari da soli, se non fosse esistito un gruppo radicale, non avrebbero avuto la forza (e forse nemmeno la voglia) di mettere alle strette il Pci, di porre in luce le sue contraddizioni, di far emergere l'ampiezza della disistima che Andreotti incontra all'interno stesso della maggioranza governativa.

Un ruolo non irrilevante - è vero - hanno giocato i missini. Ma sappiamo che per la partitocrazia l'opposizione missina è un ricostituente, perché cementa la vecchia e logora compattezza resistenziale.

No, non c'è dubbio: se finalmente Andreotti ha dovuto convincersi che "il potere logora", è soltanto perché nel giugno del 1983, alle elezioni politiche, 811.000 elettori disobbedirono al Partito radicale che sollecitava schede bianche o nulle e votarono per la lista della rosa nel pugno.

L'evidenza della realtà è questa. Sul partito del 1985 si potrà discutere, si potranno elaborare proposte sui modi più efficaci per rilanciare i temi che ci stanno a cuore, si potrà decidere se e in quale misura sia opportuno un ricambio anche di persone al vertice del partito. Ma un dato sul quale mi auguro che il congresso trovi un agevole accordo è questo: sono troppo pochi e sconnessi in questo paese gli strumenti di partecipazione democratica, perché il Pr possa rinunciare ai pur esigui spazi di lotta politica conquistabili in Parlamento.

 
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