STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEOSOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".
Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.
Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.
Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.
Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.
("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)
JORGE DE FIGUEIREDO DIAS
(Relazione)
1. Considerazione preliminare
Debbo confessare che il piacere e l'onore provato nel ricevere l'invito a parlare qui oggi si uniscono ad un certo qual senso di imbarazzo. Aderisco "ab imo" agli ideali sostenuti dal Parlamento europeo, di cancellazione delle false frontiere che ancora dividono i popoli dell'Europa. Ma non riesco a sottrarmi al senso di disagio che, credo, proverà qualunque giurista cui venga richiesto di emettere giudizi critici sullo stato del diritto vigente in un Paese che non è il suo.
Se, nonostante ciò, ho accettato l'invito, l'ho fatto per due ragioni. La prima è che anche nel mio Paese, come un po' in tutta l'Europa, il giurista si trova di fronte a problemi analoghi a quelli che costituiscono il cosiddetto »caso italiano . Ed avendo io, come presidente della Commissione di riforma del codice di procedura penale portoghese, la pesante responsabilità di dover presentare entro breve tempo il relativo progetto, ho avuto occasione di riflettere e di prendere posizione sui problemi generali che oggi qui si discutono. La seconda ragione è che mi propongo di sviluppare alla vostra presenza soltanto una breve meditazione, di carattere "generale", su alcune delle questioni che riguardano più direttamente il pericolo di uno smantellamento, e d'altra parte, la volontà di conservare e rafforzare una procedura penale democratica. Tenendo sempre sott'occhio il »caso italiano , la mia rimessione deve essere guidata da una visione, innanzi tutto personale e, in secondo luogo, adeguata al modo con cui
questi problemi sono oggi tenuti in conto in Portogallo. Se le considerazioni che farò e le conclusioni che da esse eventualmente trarrò potranno avere un qualche interesse per l'evoluzione della giustizia penale in Italia, è cosa che, secondo me, spetta solo agli italiani decidere.
2. Sulle ragioni giuridiche della crisi attuale della procedura penale
1. Ancora a metà degli anni '60 sembrava che avremmo assistito ad un progresso e ad un perfezionamento rapido e pacifico della procedura penale nei Paesi in cui vigeva la norma dello Stato di diritto. In effetti, erano scomparse, essenzialmente, le perversioni totalitarie che la procedura penale aveva subito, in molti Paesi europei, a partire dagli anni '30, sia in nome di un aperto appello ai vantaggi ed ai meriti di una struttura processuale inquisitoria, sia col ricorso a quella medesima struttura ma sotto il velo di ciò che la dottrina giuridica chiamava struttura »mista , »inquisitoria mitigata o »inquisitoria moderna della procedura penale. In verità, quel rifiuto del totalitarismo processuale penale solo molto di rado si era tradotto in nuove codificazioni, o anche in ampie riforme legislative della procedura penale. Ma con la revoca delle norme più chiaramente totalitarie; con l'attività di vigilanza di organi preposti al controllo della costituzionalità delle leggi; con la pubblicazione di nuove l
eggi organiche sulla magistratura giudiziaria e sul pubblico ministero, e con l'introduzione di riforme parziali che intendevano istituire una più solida ed effettiva garanzia dei diritti della difesa - con tutto ciò lo spirito del sistema si era trasformato nel senso dell'istituzione di una procedura penale eretta veramente a tutela dei diritti delle persone.
A metà degli anni '80, però, la situazione non permette di confermare le buone prospettive che, venti anni fa, sembravano delinearsi. Al contrario, certe riforme o proposte di riforma legislative nell'ultimo decennio - in Italia di sicuro, ma anche nella Repubblica federale tedesca, in Francia, in Spagna, in Portogallo, ecc. - fanno a ragione temere un regresso nella evoluzione democratica della procedura penale. Tanto più che sono sempre più numerose, nella dottrina giuridica, le voci che mettono i guardia sui pericoli di una eccessiva accentuazione delle garanzie personali nella procedura penale e che ricordano come tali garanzie debbano sottostare all'interesse dello Stato nel funzionamento efficiente e senza intralci della giustizia penale.
Si può obiettare che si tratta, in questi casi, solo di un ulteriore episodio della storia ciclica dei mutamenti di posizione della persona di fronte allo Stato, della difficile e precaria composizione dell'interesse individuale e dell'interesse comunitario che la procedura penale deve realizzare. Sarà forse così. Ma su un fatto potremo tutti concordare: che non sarà quello un motivo sufficiente ad esonerarci dal dovere che abbiamo, in quanto giuristi, di emettere un giudizio critico sul significato della evoluzione a cui stiamo assistendo; e se quel giudizio sarà negativo, avremo il dovere di tentare, al nostro livello, di contribuire a stabilire un nuovo punto di equilibrio.
2. Il presupposto di un simile tentativo è la comprensione, con ogni possibile chiarezza, dei fattori determinanti della degradazione della situazione, nei loro riflessi politico-penali e politico-processuali penali.
Si indica di norma come uno dei fattori più rilevanti - se non il più rilevante - l'esplosione del terrorismo urbano e l'aumento della criminalità organizzata in certe democrazie europee occidentali a partire dagli anni '60. Secondo me, a ragione. Sono stati fenomeni, in verità, che sono venuti a riproporre con acutezza una questione: si trattava di sapere se non fosse opportuno far regredire le garanzie, già allora acquisite, delle persone nella procedura penale, a favore di una realizzazione efficiente e sveltita degli interessi repressivi dello Stato.
Dal mio punto di vista però, questo fattore è divenuto determinante solo perché, da un lato, ha potuto calarsi in un brodo di coltura filosofico-giuridica che (sia pur in forma non diretta né intenzionale) gli ha permesso di germinare e di fiorire; e d'altra parte, perché ha potuto sfruttare trionfalmente alcune deficienze della struttura processuale penale e della relativa dottrina, che la democratizzazione anteriore aveva nascosto, ma non aveva potuto far scomparire.
Per quel che riguarda il clima filosofico-giuridico, intendo riferirmi, in generale, alla pretesa di far valere per tutto il mondo del diritto, senza limitazioni, quello che io chiamerò il »dogma empirico-analitico . Sembra che oggi si tema (quando non si rifiuta, come irrimediabilmente antiquato e sorpassato) il riferimento del fatto giuridico a determinati valori; di conseguenza, la sua determinazione alla luce di una dimensione axiologica. Al contrario, si riduce la questione della legittimazione a decisioni generalizzanti riguardanti il contingente, nell'intento di raggiungere o di osservare un certo ordine funzionale. In questo modo anche la procedura penale, in quanto istituzione giuridico-sociale, resta scissa da una qualche axiologia e, pertanto, dal vero fondamento della garanzia della dignità della persona. Si potrà dire che, essendo la procedura un sub-sistema di preservazione del sistema globale, essa non può, in un regime democratico, dissociarsi dalle regole proprie dello Stato di diritto. Ma,
da questo punto di vista, si potrà sempre ribattere che il miglior modo di far sì che la procedura contribuisca alla legittimazione dello Stato - e serva la funzione che Luhmann chiama di »riduzione della complessità - non consiste nel farle assumere la razionalità del sistema totale, ma nel reggersi secondo regole che le permettano il funzionamento più efficiente e produttivo possibile. Ma allora, non appaiono chiari i pericoli che si accompagnano ad una simile concezione?
Per quel che riguarda le deficienze che continuavano a sussistere, nella struttura processuale penale, intendo riferirmi soprattutto alla indefinitezza contenuta nel già menzionato modello »inquisitorio mitigato . Gli appelli dottrinali ad un tal modello - ricorrenti un po' dappertutto, a partire dalla diffusione nell'Europa continentale, durante il secolo XIX, della cosiddetta »procedura penale riformata - si fecero insistenti soprattutto nei Paesi che, a partire dagli anni '30, divennero preda di ideologie antidemocratiche. E si può ben affermare che, con esse, non vi fu nessun principio della procedura penale riformata che non venisse sovvertito, nessuna garanzia che non si trasformasse in garanzia solo apparente. Così avvenne per il "principio dell'accusa", arbitrariamente trasformato in principio della »forma accusatoria o dell'»atto accusatorio formale ; per il "principio della verità materiale" che, eretto a finalità »ultima o persino »unica della procedura penale, rendeva incomprensibile la ragio
ne per cui una tale finalità avrebbe dovuto essere limitata dalle garanzie dei diritti delle persone; lo stesso avvenne per l'utilizzazione dell'idea, in se stessa corretta, che la procedura penale non deve strutturarsi come un »processo di parti , per il netto rifiuto della "uguaglianza delle armi" tra accusa e difesa; e per l'esatta concezione del "difensore" come »organo di amministrazione della giustizia penale , per la sua illegittima trasformazione in mero collaboratore della realizzazione degli interessi dello Stato, dato che anch'esso veniva considerato vincolato alla scoperta della verità materiale. Di fronte a questo quadro esemplificativo - che potrebbe facilmente essere ampliato - ritengo giustificata la conclusione secondo cui l'appello ad una struttura »inquisitoria mitigata non può garantire la consistenza e l'evoluzione della procedura penale in armonia con i fondamenti dello Stato di diritto, anzi le compromette in modo grave.
A tutto ciò debbo aggiungere il fatto innegabile che, nelle riforme legislative della procedura penale - anche nelle più recenti - l'imperativo di "giustizia sociale" insito nell'idea dello Stato di diritto materiale e sociale ha avuto sinora solo una piccola ed insufficiente risonanza. Ecco dunque indicate le principali ragioni che ritengo alla base dell'attuale crisi della procedura penale.
3. Sulle possibilità di superare la crisi
Come può la crisi attuale essere superata? Per quale via, cioè, si può sperare di raggiungere una sintesi prospettica e feconda delle tensioni e delle esigenze contrastanti che oggigiorno si fanno sentire nella procedura penale? Ecco il tema più complesso di tutti ma sul quale dovrò ora dire qualche cosa.
1. Una prima possibilità consisterebbe nel far valere per la procedura penale una argomentazione del tipo di quella che per la soluzione di molti problemi politico-penali, particolarmente per quanto riguarda il senso della pena e la sua finalità risocializzante, viene utilizzata da settori vicini alla cosiddetta »criminologia radicale . Sembrerebbe così che la questione, come l'ho tracciata poc'anzi, sia tutta mal impostata: le difficoltà nell'evoluzione della procedura penale democratica non sarebbero tali da poter essere superate con un approfondimento dei presupposti dello Stato di diritto; sarebbero invece segni ineluttabili dello stato agonico in cui si trova la stessa idea dello Stato di diritto, irrimediabilmente liberale, borghese e capitalista. Non sarebbe quindi il processo penale a dover essere ripensato alla luce dei presupposti giuridico-costituzionali dello Stato di diritto, ma la »società punitiva , il suo quadro giuridico-costituzionale e la sua stessa procedura penale, che dovrebbero essere
trasformate in modo rivoluzionario.
Non ritengo però che una argomentazione di questo tipo possa avere reale interesse per il problema di cui ci occupiamo. E' di sicuro compito del giurista lavorare, alla luce delle sue convinzioni, per la trasformazione sociale. Ma costituirebbe a mio avviso un errore - e in verità, un errore di radice totalitaria - pensare il fatto giuridico come un apparato di controllo globale della struttura sociale. II problema per il giurista non è quello di una sostituzione volontaristica della realtà con l'utopia, ma può essere soltanto quello di assumere una posizione critica di fronte ad un certo diritto vigente ed al senso della sua evoluzione a breve termine. Quel che qui importa, dunque, è decidere se interessa l'evoluzione di un processo penale a base accusatoria o piuttosto la sua involuzione inquisitoria. E se si concluderai che è preferibile, nonostante tutto, la sua evoluzione, la questione è di sapere come e in che senso essa dovrà compiersi.
2. Una seconda e diversa possibilità consisterebbe nel partire da una argomentazione di altro tenore, secondo la quale le difficoltà attuali della procedura penale deriverebbero dal fatto che le riforme più recenti in essa introdotte significherebbero un tentennamento sul versante "liberale" dello Stato di diritto. Versante che si traduce nella idea secondo la quale la procedura penale serve in primo luogo a proteggere l'individuo nei confronti dello Stato, inteso come centro organizzato del potere; di fronte a quel tentennamento, converrebbe non cedere alla tentazione di rispondere al »terrorismo contro lo Stato con un qualunque »terrorismo di Stato . Come pure converrebbe mantenere ad ogni costo il principio di difesa della libertà, anche nei confronti di coloro che la negano nel modo più deciso e mantenere, di conseguenza, la funzione della procedura penale in quanto protezione dei diritti delle persone, anche di quelle che con i mezzi più riprovevoli li combattono.
Vi è in questa argomentazione molta logica consequenziale. Le recenti riforme della procedura penale in Paesi a regime democratico pluralista sono caratterizzate, in verità, da una restrizione dei diritti degli imputati e dei loro difensori; ne viene a soffrire l'idea dello Stato di diritto e la sua funzione di protezione; quanto poi alla efficacia nella lotta contro il terrorismo e contro il crimine organizzato si puoi, del resto, dubitare. Si rafforza così il sospetto che l'ideologia dello Stato di diritto abbia capitolato troppo presto e rinunciato all'arma che fu storicamente la ragione della sua forza: la convinzione che, in "ogni" circostanza, i diritti di ciascuna persona debbono essere difesi e la sua libertà salvaguardata.
Il problema è di sapere se, accentuando unilateralmente questo aspetto delle cose, si dà una risposta sufficiente alla questione che stiamo trattando. Sapere, in particolare, se si può affermare che l'idea della difesa delle libertà dell'imputato non deve in nessun caso transigere con l'interesse statale volto al funzionamento efficiente e senza intralci della procedura penale, poiché tale interesse non costituirebbe in se stesso un principio dello Stato di diritto.
Da parte mia credo che tale criterio debba essere contestato. Lo Stato di diritto non esige solo la tutela degli interessi delle persone ed il riconoscimento dei limiti invalicabili che ne derivano, posti al conseguimento dell'interesse ufficiale alla persecuzione e punizione dei colpevoli. Esso esige anche la protezione delle sue istituzioni ed esige che sia resa fattibile una efficace amministrazione della giustizia penale. Allo stesso modo, una unilateralità sistematica nel senso della protezione dell'imputato, minaccerebbe lo Stato di diritto proprio nei suoi fondamenti.
3. La via per un corretto superamento della crisi attuale della procedura penale democratica deve, secondo me, partire dal riconoscimento della tensione dialettica inevitabile esistente tra tutela degli interessi dell'imputato e tutela degli interessi della società, rappresentati dal potere democratico dello Stato; e trovare la sua ragione in una formula adeguata di composizione di questi interessi, che in principio si trovano in conflitto. Il che non significa però - e intendo sottolinearlo sin d'ora - tornare ad una struttura processuale mista o inquisitoria mitigata, che finisce sempre per far cedere l'interesse della persona di fronte all'interesse dello Stato. Sarebbe questa, in effetti, una soluzione inammissibile nell'ambito stesso dello Stato di diritto, poiché dimenticherebbe che nell'interesse dell'imputato vi sono molte volte in causa diritti umani fondamentali e che alla loro realizzazione, a livello di ogni persona, sono volti il fine e la ragione dello Stato. La formula di »composizione che ho
in mente è altra cosa e passa attraverso una accentuazione di due vettori che non possono essere posti allo stesso livello.
a) Il primo vettore è radicato nel principio axiologico che presiede all'ordine giuridico dello Stato di diritto: il principio della "dignità dell'uomo", della sua "intangibilità" e del conseguente obbligo, per ogni potere ufficiale, di "rispettarla" e di "proteggerla". E non si tratta qui, desidero sottolinearlo, di un semplice principio programmatico, privo di contenuto pratico si tratta al contrario del fondamento normativo di ogni ordine giuridico giusto ed umano.
Perciò, ogni qual volta, in qualunque punto del sistema della procedura penale, sia in causa la garanzia della dignità della persona - di regola si tratta della persona dell'imputato, ma può esserlo anche di altre persone, specialmente della vittima - "nessuna transazione è possibile". Ad una tale garanzia deve essere conferita prevalenza assoluta in qualsiasi conflitto con l'interesse ufficiale - sebbene, come ho detto sopra, anch'esso sia legittimo e rilevante dal punto di vista dello Stato di diritto - nell'efficace funzionamento del sistema della giustizia penale.
Si dirà che non vi è in ciò noa di nuovo, trattandosi piuttosto di un principio che, da molto tempo, può essere annoverato fra i più indiscutibili di una procedura penale democratica. Posso ribattere tuttavia che, a questo livello, non pensiamo ancora il principio con sufficiente decisione ed intensità e che le legislazioni, le dottrine e le giurisprudenze della procedura penale non si astengono dal farlo entrare, al pari di altri valori gerarchicamente differenti e di minor conto, nella ponderazione di interessi in conflitto. Come pure manca ancora, d'altro canto, una chiara coscienza delle molteplici ed ampie implicazioni di tale principio in tutta la materia della procedura penale.
Con un semplice esempio cercherò di illustrare la mia argomentazione. Tutti si trovano d'accordo sul fatto che, in un sistema processuale penale democratico, una utilizzazione della tortura o dei maltrattamenti per ottenere una confessione conduce a ciò che la dottrina chiama una "proibizione di prova". Eppure, quando si domanda qual è l'effetto di una prova così ottenuta sulle altre prove che attraverso di essa sono state raggiunte, la dottrina non si astiene dal fare appello alla necessità di ponderazione degli interessi in conflitto e non si astiene dall'accettare, molte volte, la validità delle prove posteriori, con l'argomentazione che ciò si impone alla luce dell'interesse, altrimenti non realizzabile, volto alla scoperta della »verità materiale ed alla punizione di un autentico colpevole. In questo modo finisce, in fondo, per giocare il valore assoluto della garanzia della dignità dell'uomo, in tal caso violato, contro interessi relativi che non dovrebbero mai sovrapporsi a quel valore.
b) Il secondo vettore della mia argomentazione si colloca di fronte ad interessi individuali che sono direttamente in contrasto con la garanzia della dignità della persona. Diversamente da quanto succede con il primo vettore,
qui già si deve accettare che tali interessi - anche quando essi sorgano come emanazione di dritti fondamentali - possono essere "limitati" in funzione di interessi in conflitto. Nell'esempio di poc'anzi, se la proibizione di prova non ha direttamente a che vedere con la garanzia della dignità della persona (come nel caso, per esempio, della proibizione di una testimonianza resa sulla base del sentito dire) potrà già eventualmente riconoscersi l'ammissibilità di prove consequenziali alla violazione della proibizione.
Il problema è di stabilire, con precisione, la finalità ed il criterio con cui tale limitazione deve essere realizzata. La "finalità" può essere solo quella di ordinare reciprocamente interessi protetti, attraverso la concessione di tutti i diritti di libertà compatibili con la protezione di altri interessi essenziali della vita comunitaria; e di coniugarli in termini di creazione e conservazione di un ordine in cui gli uni e gli altri interessi acquistino realtà e consistenza. Con ragione, Hesse parla, in un caso analogo, del compito di costruzione di una »concordanza pratica dei valori in conflitto. Quanto al loro "criterio", esso non consisterà nella legittimazione dell'interesse preponderante a spese dell'interesse gerarchicamente inferiore - secondo la teoria dello stato di necessità del diritto penale - bensì in una "ottimizzazione" degli interessi in conflitto. Il che porta a sottomettere la limitazione dei diritti delle persone, in senso stretto, ai principi della necessità e della proporzionalità c
ome pure, qualora si tratti di diritti fondamentali, ad esigere che in nessun caso venga colpito il loro "contenuto essenziale". C'è da sperare che tale criterio si riveli fecondo per il lavoro di riforma della procedura penale e di superamento della crisi in cui essa versa attualmente.
4. Alcune proposte in tema di riforma della giustizia penale
Con tutto ciò, potrebbe sembrare che mi sono allontanato molto dal tema che debbo trattare. Ma, a ben vedere, ho sempre parlato di esso: crisi attuale della giustizia penale e delle sue ragioni, del principio critico che può contribuire a superarla. Solo ora mi sento in diritto di prendere posizione - quantunque sempre in linea generale - su alcuni punti di maggiore rilievo per il »caso italiano . Lo farò, tanto quanto possibile, attraverso proposte conclusive e quasi apodittiche, sperando che la loro giustificazione possa sin d'ora risultare nelle linee essenziali da quanto ho detto sopra.
1. Comincio ad affermare quanto segue: secondo la mia opinione "non c'è in genere giustificazione sufficiente per la pubblicazione, che avviene a ritmo crescente, di legislazione processuale penale che sarebbe imposta dalle necessità della lotta contro il terrorismo e del crimine organizzato". Comprendo perfettamente che tali necessità si impongono dal punto di vista organizzativo e che pertanto la sofisticazione e la grande gravità di quella criminalità conducono all'esistenza di forze speciali di sicurezza e di inchiesta, come pure ad un sistema speciale di azione e di coordinamento. Sostengo però che a tali organizzazioni speciali non debbono in principio corrispondere specialità a livello di procedura e di amministrazione della giustizia penale.
Con ciò non contesto naturalmente che il decorso della procedura, le garanzie degli imputati, i mezzi di coazione procedurale utilizzati contro di essi non debbano differire a seconda che ci troviamo di fronte ad un reato grave o ad una mera bagatella penale. Dico però che tali differenze debbono risultare dalla legge generale, e non da leggi speciali (o persino eccezionali) elaborate in presenza di certi tipi di fatti o di determinate situazioni. Altrimenti corrono grave rischio i diritti delle persone e risulta difficile, se non impossibile, al potere ufficiale resistere agli effetti di imitazione che lo condurranno, presto o tardi, a considerare che ciò che è funzionale in certi casi può esserlo anche in altri e, di conseguenza, ad estendere progressivamente quel che è stato pensato solo per i reati di organizzazione ad altre forme di criminalità.
2. Per evitare tale rischio in molti Paesi, tra i quali l'Italia è solo un esempio - e con cioè mi trovo alla mia seconda proposta - "è necessario raggiungere il più rapidamente possibile la riforma globale della procedura penale".
Tutti conosciamo la larga somma di argomentazioni che, negli ultimi tempi, vengono utilizzate per rifiutare una tale riforma globale, preferendosi ad essa successive riforme parziali per "aggiornamento" (1) di codici vecchi, superati e a volte anche provenienti da regimi antidemocratici. Ma quelle argomentazioni si limitano, il più delle volte, a nascondere la mancanza di "volontà politica" necessaria a vincere le difficoltà (senza dubbio enormi) che suscita il compito di riforma globale.
Vi è un fondo di verità indiscutibile in affermazioni come quelle secondo cui il diritto di procedura penale è »diritto costituzionale applicato (Henkel), »sismografo o »specchio della realtà costituzionale (Roxin), »sintomo dello spirito politico costituzionale di un certo ordine giuridico (Rudolphi). Perciò a me sembra certo che un codice di procedura penale non puoi, quali che siano le riforme parziali di cui sia oggetto, attraversare vittoriosamente epoche di differente densità storica e giuridico-politica, senza che ciò provochi un danno irreparabile ai diritti delle persone poiché, da un lato, in poco tempo sarai tanto elevato il grado di complessità, oscurità e incoerenza (o addirittura di contraddizione) della legislazione, che un minimo di certezza nella sua applicazione diventa impossibile. E perché, d'altro canto, è precisamente questa parcellazione delle riforme lanciate su un tessuto che, vecchio com'è, già comincia a respingerle, che legittima il potere a pubblicare la sconveniente legislaz
ione di procedura penale speciale di cui ho parlato sopra.
Concretizzo attraverso un semplice esempio. Il "Progetto preliminare del codice di procedura penale" italiano nel 1978 costituisce, secondo me, quali che siano le riserve che possano essere fatte nei suoi riguardi in un senso o nell'altro, uno dei più perfetti e riusciti tentativi di riforma globale della procedura penale, ove la protezione effettiva dei diritti delle persone va di pari passo con il rispetto delle legittime esigenze di repressione penale. Chi può dubitare che, se questo progetto fosse andato avanti sino alla sua approvazione, non ci sarebbe oggi posto per lamentele sulla generalità della legislazione di procedura penale speciale che ora stiamo analizzando?
3. Vengo ora alla mia terza proposta. "La procedura penale democratica propria dei paesi dell'Europa continentale deve rifiutare il modello obsoleto »inquisitorio mitigato e adeguarsi ad un modello fondamentalmente accusatorio, sebbene integrato da un principio di investigazione". Tentare di esporre, anche in una ristretta sintesi, le implicazioni contenute in tale proposta, esigerebbe il tempo di un altro intero intervento. Mi limito perciò ad un brevissimo chiarimento dei punti essenziali.
»Struttura fondamentalmente accusatoria significa per me due cose. Da una parte, certamente, il riconoscimento del "principio di accusa", con la distinzione materiale (e non semplicemente formale) tra l'organo che investiga sul caso e deduce l'accusa e quello che lo giudicherà. Significa d'altro lato però, e ciò non è meno importante, partecipazione costitutiva dei soggetti del processo alla dichiarazione del diritto del caso.
Si potrà pensare che, in tal modo, si voglia avvicinare inevitabilmente il processo ad una struttura formale e dispositiva, tipica del »processo di parti anglo-americano. Ma non è così. Una cosa è la struttura dispositiva, con la conseguente disponibilità e privatizzazione dell'oggetto del processo, invero inaccettabili alla luce della generalità dei modem europeo-occidentali. Altra cosa differente è la struttura accusatoria, ancora compatibile con il carattere strettamente pubblico indisponibile dell'oggetto del processo, obbligante solo alla massima »uguaglianza di armi procedurali possibile tra accusa e difesa. Come pure può essere integrata con un principio di investigazione ufficiale a carico del tribunale; ma che, a mio vedere, può e deve essere estensiva allo stesso pubblico ministero, purché tale magistratura obbedisca ad una duplice condizione: mantenga la sua azione nel processo soggetta non ad un comportamento »di parte , ma ad uno stretto dovere di obiettività; e che non sia soggetta ad ordini
concreti del Governo in tutto ciò che riguarda un determinato processo.
Per queste ragioni, del resto, non sono interamente d'accordo con chi pretende che la procedura penale assuma fin dall'inizio - e pertanto sin dalla fase di inchiesta o di istruzione preparatoria - un carattere contraddittorio e suscettibile di essere, in tutti i passaggi, accompagnato e sindacato dalla difesa. (Forse risiede proprio in questo, lo dico tra parentesi, la mia maggior divergenza dal citato "Progetto preliminare" italiano del 1978.) Non sostengo con ciò che il pubblico ministero e gli organi di polizia giudiziaria debbano avere »mano libera durante quella fase: da una parte tutti gli atti che ledano diritti, libertà e garanzie costituzionali debbono essere di esclusiva competenza di un giudice; d'altra parte all'imputato deve, in tutti gli atti a cui partecipa, essere garantita la presenza del difensore da lui liberamente scelto. Con queste limitazioni però ritengo che il funzionamento efficace della giustizia penale e la realizzazione del principio dell'investigazione implicano, nella fase pre
liminare del processo penale, una posizione predominante del pubblico ministero e l'eventuale esclusione della partecipazione dell'imputato o del suo difensore i molti dei suoi passaggi, senza che in ciò si debba vedere una distorsione irreparabile della struttura fondamentalmente accusatoria del processo.
4. Così pure non esiste incompatibilità fra tale struttura e l'applicazione all'imputato di "misure di coazione processuale", o fra tale applicazione ed il rispetto del principio della presunzione di innocenza dell'imputato. E' tuttavia per quel che riguarda tali misure, forse più che per qualsiasi altro punto della regolamentazione processuale penale, che si deve prendere sul serio l'idea che l'imputato, da una parte è »oggetto di applicazione di quelle misure, d'altra parte è sempre "soggetto di diritti processuali autonomi i quali debbono essere rispettati da tutti gli enti che intervengono nel processo, dal giudice al semplice poliziotto". Da tale affermazione derivano certe conseguenze che i nessun caso debbono essere messe i causa.
La prima è quella della stretta sottomissione delle misure coattive, specialmente la detenzione provvisoria, ai principi (in molti paesi costituzionalmente consacrati) della necessità, sussidiarietà e proporzionalità. Costituisce una triste singolarità del nostro tempo, in cui la politica penale muove una lotta precisa alle pene che privano della libertà, il fatto che numero e percentuale di detenuti provvisori aumentino sino a quote veramente allarmanti. E' opportuno che tanto il legislatore come il giudice prendano coscienza di alcune esigenze che possono bloccare questo crescendo. In primo luogo, si tratta di prendere coscienza del fatto che le misure coattive, se non sono pene, significano comunque infliggere - in modo del resto non interamente fondato - un male. Per questo le richieste di leggi che definiscano tali misure debbono equipararsi a quelle contenute nel principio »nullum crimen, nulla poena sine lege , specialmente per quanto riguarda la esatta definizione dei presupposti e delle condizioni d
i applicazione.
Occorre, in secondo luogo, che la durata massima di tali misure sia chiaramente definita in legge anteriore e che non possa in nessun caso essere superata. E' infatti una pesante ironia che si conceda all'imputato una presunzione di innocenza e, al contrario, si permetta di sottoporlo a misura provvisoria privativa della libertà di durata sproporzionata agli indizi acquisiti della sua responsabilità o persino del reato di cui è sospettato.
E' necessario, da ultimo, che i giudici - unici enti con competenza naturale ad applicare le misure coattive - assumano piena coscienza che una tale applicazione non si riduce ad una operazione automatica o soggetta a tariffa, ma che si tratta di operazione interamente analoga, dal punto di vista metodologico, all'atto del giudizio e del fatto che essa è, in una sola parola, vera applicazione del diritto ad un caso concreto di vita.
Stando così le cose, si può ben comprendere che non c'è nessuna ragione perché il sospetto che sia stata commessa una determinata infrazione, quale che sia, debba dar luogo automaticamente all'applicazione di una certa misura coattiva, specialmente alla detenzione provvisoria. Tutto dovrà sempre dipendere dalla realizzazione, nel caso concreto, dei principi su riferiti della necessità, sussidiarietà e proporzionalità. Anche per quanto riguarda tutta questa materia il "Progetto preliminare" italiano del 1978 costituisce un modello che merita di essere seguito.
5. Nel tentativo di giustificare le distorsioni che l'eccessiva durata delle misure coattive (ed in verità, di tutta la procedura penale) provoca sul principio della presunzione di innocenza dell'imputato e sulla consistenza dei suoi diritti fondamentali, viene invocata molte volte l'esistenza di "maxi-processi", cioè di "processi penali mostruosi" per numero di imputati e mezzi di prova, estensione e difficoltà di trattamento del suo oggetto. Non mi pare però che tale invocazione abbia consistenza reale.
Una semplificazione decisa di tali processi penali mostruosi può e deve ottenersi, il più delle volte, attraverso una regolamentazione ragionevole ed elastica - quantunque mai discrezionale - delle possibilità di opporsi alla connessione di processi e di ottenerne separazione. Sicuramente una tale semplificazione comporta più lavoro giudiziario e maggiori costi. Ma se così si riesce ad evitare lungaggini e si riesce ad ottenere una più perfetta protezione dei diritti delle persone (e forse anche degli stessi interessi dello Stato) è sicuramente un prezzo che vale la pena di pagare o che semplicemente deve essere pagato. Dovrebbe essere una verità lampante (per quanto i politici sembrano aver difficoltà a comprenderla) che una giustizia pronta, ma non per questo meno perfetta, deve essere sempre una giustizia più cara per lo Stato.
6. Terminerò con un brevissimo riferimento ai problemi suscitati dal trattamento di favore che molte leggi concedono oggi, specialmente nel campo della criminalità organizzata, agli imputati cosiddetti "pentiti". Tanto più che il problema ha importanza rilevante non solo e non tanto a livello processuale, ma anche e soprattutto a livello del diritto sostanziale, non trovandosi pertanto, in questa misura, coperto dai presupposti generali che sopra ho tentato di fissare.
A livello di diritto penale sostanziale deve trattarsi, nella situazione sopra accennata, solamente di una "estensione fondata dal punto di vista politico-penale, del pensiero generale della desistenza dal tentativo e dal pentimento attivo"; estensione applicabile a reati nei quali, trattandosi di reati permanenti o durevoli, la consumazione materiale e la conseguente compressione dei beni giuridici sussistono anche dopo che si è verificata la consumazione formale. Il che vale a dire che, a mio parere, esiste una giustificazione politico-penale per una tale estensione quando l'attore, con il suo pentimento, pone un ostacolo alla continuazione dell'attività criminale dell'organizzazione, o al compimento di qualche nuovo reato corrispondente alle finalità di quella; o, ancora, quando trasmette in tempo ad una qualunque autorità informazioni atte ad evitare il compimento di nuovi delitti. Una giustificazione politico-penale non esiste più però, in nessun modo, quando il detto »pentimento si traduce appena nell
'offrire agli organi di persecuzione penale elementi di prova che servano all'accusa o alla condanna di complici e specialmente nel rivelare disponibilità a testimoniare contro di essi. Attribuire anche in questi casi il privilegio penale comporta la violazione di principi etici tanto essenziali alla vita comunitaria che, insieme con essa, la stessa funzionalità di una tale soluzione diventa più che dubbia.
Se si può accettare il buon fondamento della distinzione che ho or ora fatta, la maggior parte delle difficoltà sorte in questa materia a livello di procedura penale in genere e specialmente per quanto riguarda l'esecuzione di qualche misura coattiva che sia stata applicata, sembra che possano essere superate. Solo a chi si trovi in situazione di poter godere del privilegio penale potrà essere conferito il trattamento processuale di favore che la legge concederà, in genere, agli imputati per i quali è prevedibile che non siano condannati. E questo è tutto.
Sono pertanto dell'opinione che l'istituzione anglo-americana del "crownwitness" - cioè dell'imputato al quale il pubblico ministero assicura l'impunità in cambio della sua testimonianza essenziale contro un coimputato - è, e deve continuare ad essere, estranea allo spirito della procedura penale europeo-continentale. E ciò per varie ragioni: perché il valore probatorio di una testimonianza »scambiata con il prezzo dell'impunità sarà quasi sempre, in un sistema di libero esame della prova, estremamente ridotto; perché non è accettabile da un punto di vista etico-giuridico che si offra l'impunità a qualcuno la cui responsabilità può essere uguale o maggiore di quella di colui contro il quale viene resa la testimonianza, soprattutto se ci ricorda che costui gode di un diritto al silenzio e a non auto-accusarsi; e perché, infine, la sostituzione del principio della legalità con quello dell'opportunità in casi di criminalità grave ferisce profondamente il senso comunitario della giustizia e finisce anche, in qu
esto modo, con il produrre un effetto criminogeno.
Cosa completamente diversa da questa, naturalmente, è l'ammissibilità della testimonianza di chi non è imputato (poiché è già stato definitivamente giudicato il processo a suo carico) in un altro processo contro altri imputati per lo stesso delitto. Il "Progetto preliminare" ammetteva i questi casi la testimonianza, e così pure la ammetteva in quegli altri casi in cui i processi avvenissero separatamente e l'imputato acconsentisse a fornire la testimonianza. In verità, in tali casi, non ha più ragione di sussistere l'argomentazione da me precedentemente presentata contro l'ammissibilità dei cosiddetti »testimoni della corona , dato che qui non ci si troverebbe i presenza del "bargaining" e della possibilità di »acquisto dell'impunità che caratterizzano quella istituzione.
5. Considerazione finale
Desidero concludere le considerazioni che ho svolto dinanzi a voi dicendo che la crisi attuale e le prospettive future di una procedura penale veramente democratica, capace di rispettare i diritti dell'uomo, costituiscono, in verità, un motivo legittimo di preoccupazione. Voglio tuttavia confermare la mia convinzione che nell'idea di Stato di diritto esistono ancora sufficienti possibilità di superare le difficoltà. Incontri e discussioni come questa, a cui oggi mi avete dato l'occasione e l'onore di partecipare, costituiscono certamente passi essenziali nel senso del superamento auspicato.
PRESIDENTE:
Ringrazio l'eminente professore De Figueiredo Dias e, prima di dare la parola all'onorevole avvocato Mellini che concluderà la presentazione delle relazione questa mattina - perché il professor Marc Ancel parlerà domani mattina, quindi oggi pomeriggio inizieremo il dibattito sotto la presidenza di Lady Elles, vicepresidente del Parlamento per il gruppo conservatore inglese - devo sottolineare come vi sia stata per un momento la presenza del presidente del Parlamento europeo, on. Pflimlin, che prega di scusarlo perché doveva presiedere in quel momento la plenaria e che ricomparirà per fare un breve intervento.
Ho ricevuto un telegramma: »Riferimento primo convegno stato-giustizia-in-Europa, rappresento mia adesione ai lavori. Impossibilitato partecipare personalmente, formulo auspici ottimo e proficuo lavoro. Avvocato Guido Monaco - Roma .
Dunque la parola per l'ultimo intervento, questa mattina, all'onorevole avvocato Mellini.