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Mellini Mauro - 23 ottobre 1984
IL CASO ITALIA: (8) Mauro Mellini (relazione) - LO STATO DELLA GIUSTIZIA IN EUROPA - I· CONVEGNO
STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEO

SOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".

Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.

Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.

Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.

Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.

("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)

MAURO MELLINI

(Relazione)

1. Dalle leggi dell'emergenza alla crisi del diritto

Un caso difficile e complesso ed un caso grave, che nella sua singolarità offre ai giuristi, ai legislatori, agli avvocati, ai giudici ed ai cittadini di tutti gli altri Paesi argomenti di riflessione ed ammonimenti validi anche per situazioni assai diverse. Chiedendo attenzione e solidarietà ai giuristi, agli uomini di cultura, ai cittadini di altre parti d'Europa, gli italiani che lottano contro condizioni intollerabili dell'amministrazione della giustizia e delle garanzie del cittadino nel loro Paese ritengono di fornire a loro volta un contributo per il rafforzamento e lo sviluppo di condizioni di civiltà giuridica in tutta Europa e per la salvaguardia di istituzioni e di principi che troppo facilmente si ritengono definitivamente acquisiti.

La situazione della legislazione penale e dei procedimenti giudiziari penali in Italia ha una storia singolare, nella quale ad antiche inadeguatezze, sedimentazioni di culture e sistemi politici superati, innovazioni troppo timide, ma soprattutto disorganiche, operate dopo la caduta del fascismo nel corso degli anni '50 e '60 si sono aggiunte una serie di leggi speciali adottate per fronteggiare »l'emergenza del terrorismo e poi le »emergenze sempre nuove della mafia e delle varie forme di grande criminalità organizzata. Ma cioè che forse è più singolare ed impressionante nella situazione oggi creatasi in Italia, è lo sviluppo di certe logiche perverse insite nelle leggi d'eccezione antiterroristiche ed antimafiose, logiche che hanno portato per varie vie, comprese quelle dell'aperta violazione della legge stessa e dello scivolamento in prassi che concretano veri e propri reati, alla dilatazione della portata delle leggi d'eccezione, alla loro pratica applicazione fuori dei casi e delle situazioni per i qu

ali esse erano state espressamente approvate. Si è pericolosamente modificata la mentalità dei giudici, molti dei quali non solo hanno dato mano alla creazione di quelle prassi di generalizzazione delle leggi d'eccezione di cui si è già detto, ma che costituiscono un vero e proprio gruppo di pressione per il mantenimento e l'estensione di certi poteri e metodi eccezionali, pressione alla quale gli altri magistrati ed i poteri politici non hanno saputo opporre una adeguata ed autonoma risposta.

Non è questa la sede per descrivere compiutamente il sistema processuale penale italiano, né tanto meno il sistema del diritto penale sostanziale. Basterà dire che il codice penale tuttora vigente in Italia è quello del 1930 e quello di procedura penale ha la stessa data.

Ambedue questi codici hanno subito numerose modificazioni per lo più assai disorganiche, mentre molte norme di essi, benché da tutti riconosciute incompatibili con la Costituzione della Repubblica, sono rimaste in vigore, anche senza essere più applicate. Si pensi, ad esempio, all'art. 270 del codice penale, che il legislatore del 1930 aveva voluto allo scopo di punire come reato l'appartenenza al partito comunista. Di questa ed altre norme, fino al 1976, i comunisti richiesero con diverse proposte di legge l'abolizione. A partire invece più o meno da quella data, in base a questa norma viene formulata una delle imputazioni (associazione sovversiva) addebitate ai terroristi di sinistra.

Le modifiche apportate ai codici hanno avuto due distinte fasi. Dalla caduta del fascismo fino all'inizio degli anni '70, con grande lentezza e per lo più a seguito di pronunzie della Corte costituzionale, si è proceduto a cancellare norme di contenuto autoritario ed illiberale ed a sostituirle con disposizioni più vicine ai principi della moderna legislazione penale e processuale dei paesi occidentali. Ma a partire da quell'epoca si è determinato un processo inverso, che dapprima è stato caratterizzato dal temperamento e dalla vanificazione di talune delle innovazioni del periodo precedente, per vedere poi il passaggio ad una legislazione dichiaratamente di carattere speciale, detta »dell'emergenza , giustificata con la necessità di affrontare adeguatamente il dilagare del fenomeno del terrorismo, e poi quello della criminalità organizzata di tipo mafioso o camorristico.

Una terza fase sembra oggi prendere l'avvio. Quella di una revisione della »legislazione dell'emergenza , che sembra consigliata dall'affievolirsi, fino a consentire di prevederne la completa scomparsa, del fenomeno del terrorismo. Una fase che ha visto una prima revisione delle norme sui termini massimi di carcerazione preventiva e l'approvazione da parte di uno dei due rami del Parlamento della delega al Governo per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale ispirato ai principi del rito accusatorio. E' singolare peraltro, che, proprio in quest'ultimo periodo, alle sia pur timide manifestazioni di una resipiscenza sul piano legislativo, non faccia alcun riscontro il ritorno a criteri di applicazione delle leggi ed a prassi più liberali e garantiste da parte dei giudici e che anzi proprio ora si stiano sviluppando appieno metodi, prassi, espedienti che rappresentano altrettante espressioni delle logiche peggiori insite nella legislazione speciale e che stanno diventando abituali e dilagano in setto

ri sempre più ampi dell'amministrazione della giustizia penale con la creazione di condizioni assolutamente intollerabili per la garanzia del cittadino imputato, per la sua libertà, per l'equità nell'accertamento delle responsabilità. E mentre si parla di riforme legislative sembra che gli ambienti ufficiali, il Governo, il Parlamento nel loro assieme non siano assolutamente sensibili di fronte a questi fatti, che pure talvolta hanno raggiunto i limiti dell'assurdo e del grottesco.

2. Gli aspetti della crisi: le questioni più scottanti

Gli aspetti più noti della legislazione e delle prassi relative ai processi penali in Italia, così come si sono venuti delineando negli ultimi tempi, e che costituiscono di per sé dati incompatibili con le concezioni moderne e civili della giustizia punitiva, sono rappresentati dalla estrema facilità e discrezionalità con la quale si ricorre alla carcerazione preventiva e dalla durata di essa prima che si giunga ad una sentenza definitiva, dall'uso quale mezzo di prova delle dichiarazioni di »pentiti , cioè di responsabili confessi di delitti disposti a denunciare i propri complici o anche i presunti colpevoli di reati cui essi siano o si dichiarino estranei e ciò dietro compenso, previsto espressamente dalle leggi sul terrorismo o promesso al di fuori e contro le leggi per ciò che riguarda reati di altro genere, (diminuzione della pena o addirittura liberazione, oppure detenzione in condizioni di favore o anche elargizioni in danaro e di altri benefici realizzati con vari espedienti). Altro dato assai rilev

ante è quello dei cosiddetti »maxiprocessi o »processi inchiesta , nei quali si procede congiuntamente contro un numero impressionante di imputati, spesso dell'ordine di centinaia. Si pensi al processo i cui è imputato l'attuale eurodeputato Enzo Tortora, iniziato con l'arresto di 1250 persone, delle quali circa 150 scarcerate poco dopo perché la loro cattura era stata determinata da semplice omonimia e nel quale il rinvio a giudizio, sempre in unico processo, è stato disposto al termime dell'istruttoria nei confronti di 647 persone, mentre 64 imputati sono stati prosciolti sempre al termime dell'istruttoria dopo mesi di detenzione.

Da ultimo va considerata la condizione carceraria, che in molti casi è assolutamente intollerabile per il sovraffollamento delle prigioni e per le deplorevoli condizioni di esse e può essere aggravata con provvedimenti di rigore anche nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio.

A questi aspetti più rilevanti e noti se ne aggiungono altri, relativi ai metodi dell'indagine istruttoria, caratterizzata dal segreto e dalla estrema limitazione dell'intervento della difesa. Ma soprattutto la combinazione di questi vari elementi e l'uso e l'abuso di tali condizioni del processo penale e la strumentalizzazione degli uni in funzione degli altri, fanno sì che il risultato complessivo possa dar luogo ad episodi e situazioni aberranti e grottesche e che si possa e si debba parlare di livelli di intollerabile ritorno alla barbarie nell'amministrazione della giustizia.

3. La carcerazione preventiva: pena anticipata e misura di polizia

La questione della carcerazione preventiva e della sua durata è certamente l'aspetto più vistoso della patologia del processo penale in Italia. E' il dato che può essere misurato in termini incontrovertibili sia per quello che riguarda le previsioni di legge (termini massimi), sia per quel che riguarda le vicende dei singoli imputati ed ancora come fenomeno complessivo, in termini statistici, per ciò che riguarda la percentuale dei detenuti che si trovano nelle carceri italiane »in attesa di giudizio rispetto a quelli che vi si trovano in espiazione di pena. Percentuale che, come è noto, è altissima, giacché i detenuti »in attesa di giudizio rappresentano all'incirca i due terzi del totale.

Per attenuare la portata aberrante di questa constatazione statistica, si è osservato che però vengono da noi considerati »in attesa di giudizio anche quei detenuti che sono già stati condannati ad una determinata pena e che, avendo impugnato la sentenza, sono in attesa del giudizio di appello, o che, addirittura, condannati anche in appello, sono in attesa dell'esito del ricorso in Cassazione. Tale osservazione avrebbe notevole peso se il grado d'appello e quello di cassazione avessero nel nostro paese una funzione e una portata pratica analoga a quella che hanno le impugnazioni in altri ordinamenti, quella cioè di rimedi del tutto straordinari. Ma ciò non corrisponde alla funzione dell'appello e del ricorso secondo le nostre norme procedurali. Nella pratica poi, specie nei casi di processi molto complessi con un numero notevole di imputati, i gradi successivi del giudizio rappresentano più che un rimedio all'errore del risultato del procedimento di primo grado, un rimedio alla sommarietà dello stesso proc

edimento. Si ha insomma un processo ed una decisione »per approssimazioni successive . Del resto il numero delle sentenze di primo grado riformate nei gradi successivi è notevole anche rispetto all'altissimo numero delle sentenze che vengono impugnate.

Ma il problema della durata della carcerazione preventiva non può essere opportunamente valutato in tutta la sua gravità se non si tiene conto delle condizioni previste dalle leggi speciali e soprattutto dalle prassi che, sviluppando la logica di tali leggi, si sono andate consolidando negli ultimi anni ed inoltre delle finalità per le quali la carcerazione preventiva viene disposta nonché dell'utilizzazione in effettive attività istruttorie del tempo nel quale l'imputato rimane in tale stato da parte dei magistrati inquirenti.

Alla luce di tali considerazioni emerge chiaramente che il permanere dell'imputato in stato di detenzione prima che sia stato condannato ed in condizioni in cui addirittura la sua condanna non possa essere considerata probabile, non è affatto l'inconveniente, l'eccezione ineliminabile di misure che le leggi e la prudenza dei giudici vorrebbero condizionate soltanto dalla necessità di assicurare la persona dell'imputato al processo ed alla probabile irrogazione della pena. Infatti, a parte l'inoppugnabile significato dei dati statistici circa l'esito dei procedimenti in cui l'imputato ha sofferto la carcerazione preventiva, sta il fatto che sono le stesse leggi »dell'emergenza a considerare la carcerazione preventiva una sorta di misura di sicurezza e di polizia diretta ad eliminare dalla circolazione un »potenziale delinquente, se è vero, come è vero, che per la concessione della libertà provvisoria l'art. 1 della legge 22 maggio 1975 n. 152 (legge Reale) al comma 3· stabilisce: »Nel concedere la libertà p

rovvisoria nei casi in cui è consentita, il giudice valuta che non vi ostino ragioni processuali, "né sussista la probabilità, in relazione alla gravità del reato ed alla personalità dell'imputato, che questi, lasciato libero, possa commettere nuovamente reati che pongono in pericolo le esigenze di tutela della collettività . E' inutile dire che l'apodittica divinazione circa la probabilità di commissione di nuovi reati e la »pericolosità dell'imputato ha »giustificato la permanenza in carcere di numerosi imputati, incensurati, poi pienamente assolti dai reati loro addebitati, ed anche, ad esempio, di avvocati imputati per vicende del loro ministero ed oggi tornati all'esercizio della loro professione.

Né si deve dimenticare che per l'emissione di un ordine o mandato di cattura è sufficiente, secondo la legge italiana, che sussistano »sufficienti indizi di colpevolezza . La sufficienza di indizi sufficienti è un giro di parole assolutamente privo di significato, non diverso da »basta quel che basta , »è quello che è , ecc. Non c'è quindi da meravigliarsi che, malgrado la Costituzione stessa stabilisca che ogni provvedimento restrittivo della libertà personale deve essere motivato dal giudice (art. 111) e che inoltre sia soggetto ad impugnazione avanti alla Corte di Cassazione per motivi di diritto, la motivazione di tali provvedimenti sia solitamente del tutto stereotipata e meramente apparente, così che potrebbe benissimo essere già stampata nei moduli in cui vengono redatti i mandati di cattura e che di conseguenza il ricorso in Cassazione sia rimedio puramente teorico.

Se la legge stessa prevede che la carcerazione preventiva può essere mantenuta in considerazione di previsioni ed ipotesi circa la commissione da parte dell'imputato di "altri" reati, la logica di tale sistema consente evidentemente che la stessa carcerazione preventiva possa essere inflitta in base a mere ipotesi sulla commissione del reato per il quale si procede e persino, come purtroppo talvolta avviene nella pratica, in base ad ipotesi circa la commissione da parte del prevenuto di un reato che ancora non si sa bene quale sia.

Oltre il riferimento, quasi sempre del tutto apodittico, alla »pericolosità dell'imputato, di cui abbiamo parlato, un'altra espressione è ricorrente nei mandati di cattura e nei provvedimenti che negano la libertà provvisoria: il pericolo di inquinamento delle prove. Tale motivazione potrebbe essere rettamente invocata in presenza di specifiche prove in corso di assunzione e di specifiche possibilità di inquinamento che, i relazione al tipo delle prove ed alle circostanze della loro assunzione, l'imputato potrebbe mettere in atto.

Ma il riferimento è sempre generico ed addirittura stereotipato. Prova ne è che in molti casi, dopo che è stata proclamata la necessità di evitare l'inquinamento delle prove, nessuna prova viene assunta. Ma i taluni casi l'»inquinamento delle prove è semplicemente l'attività dell'imputato per approntare la propria difesa, ricercare prove e testimoni a discarico etc., fino a giungere, sviluppando tale logica, a considerare il mantenimento della carcerazione preventiva un mezzo per impedire quell'»inquinamento delle prove che è rappresentato puramente e semplicemente dalla negazione della propria colpevolezza nella quale l'imputato insista. In un sistema i cui il »pentimento è diventato la chiave di volta dell'indagine, avviene, e potrebbero farsene centinaia di esempi, che non venga concessa la libertà se il prevenuto non acconsenta a confessare. Si è arrivati al punto di contestare reati più gravi di quelli sussistenti, per indurre l'imputato, con la prospettiva di non poter ottenere la libertà provvisori

a e di non poter fruire della scadenza dei termini massimi, più limitati, della carcerazione preventiva previsti per il reato realmente esistente, ad ammettere circostanze e fare ammissioni di colpevolezza quale condizione per la »derubricazione del reato con la conseguente scarcerazione. E' inutile dire che, giunti a questo punto, si tratta di un vero e proprio crimine commesso dal magistrato. Ma è un crimine che difficilmente potrebbe essere provato, anche se il ricatto è stato più che esplicito, e del quale nessuno sembra scandalizzarsi e che quindi nessuno sarebbe disposto a perseguire e punire.

Molto spesso, quando si discute dei termini massimi della carcerazione preventiva e, più in generale, della durata di essa, si sente dire che la durata »necessaria per la conclusione dell'inchiesta è purtroppo assai lunga. Ma è più che ovvio che bisogna intendersi circa il concetto di »necessità e, più precisamente, circa le finalità cui tale »necessità dovrebbe essere commisurata.

Una prima considerazione è quella che, se i mandati di cattura vengono emessi sulla base di indizi che al più possono giustificare il sospetto, l'attività istruttoria da svolgere "dopo" la cattura dell'imputato, e permanendo la sua detenzione, deve essere necessariamente laboriosa e lunga, dovendosi addirittura andare alla ricerca di tutte le prove. Né il fatto che purtroppo meri indizi e semplici sospetti portino talvolta addirittura al rinvio a giudizio può essere di conforto di fronte a tale constatazione.

Ma qui si innesta in quello della lunghezza della carcerazione preventiva anche il problema dei cosiddetti »maxiprocessi , processi di dimensioni enormi per un numero di imputati che è di molto decine, ma spesso anche di centinaia di imputati (basti pensare al maxiprocesso di Napoli di cui si è già fatto cenno).

Per istruire processi del genere è chiaro che il tempo »necessario e la »necessaria lunghezza della carcerazione preventiva dovrebbero calcolarsi ad anni ed anni. Che poi in siffatti processi tutto si risolva nel registrare le accuse di un »pentito è un fatto che, mentre non riduce i tempi »necessari in limiti oggettivamente tollerabili per ciò che riguarda il sacrificio della libertà dell'imputato, non è certo considerazione che possa attenuare preoccupazione e scandalo.

Il fatto è che, se non altro, processi di dimensioni abnormi dovrebbero essere evitati anche per non creare situazioni in cui la detenzione preventiva degli imputati debba protrarsi troppo a lungo a causa degli intrecci delle varie posizioni processuali, della complessità degli incombenti etc.

Come è noto, recentemente il Parlamento ha approvato una legge che riduce, consentendo tuttavia limiti ancora inaccettabili, i termini massimi di carcerazione preventiva. Ma, a parte l'entità tuttora gravissima di tali limiti, resta il fatto che oramai è invalso l'uso, specie nei reati di terrorismo, di contestare in epoca successiva, dopo che una lunga carcerazione preventiva è già stata sofferta e magari dopo una assoluzione, reati concorrenti consistenti in fatti già noti all'ufficio giudiziario, con nuovo mandato di cattura e nuovi termini (caso Naria). Così la carcerazione preventiva può essere prolungata indefinitamente con uno scaglionamento nel tempo delle contestazioni e dei mandati di cattura con termini sempre rinnovati per reati costituiti, se non proprio dagli stessi fatti, da diversi aspetti di una medesima situazione già dall'inizio conosciuta e presa in considerazione dell'autorità giudiziaria.

4. I »pentiti : da un espediente antiterroristico ad una nuova concezione delle prove. La produzione e l'utilizzazione.

Una questione che ormai si è posta al centro delle prassi e dei metodi della giustizia penale italiana, specie per quel che riguarda i processi di terrorismo, di mafia, di camorra e più in generale di criminalità organizzata, è quella dei cosiddetti »pentiti , del modo in cui essi vengono indotti al »pentimento , della loro utilizzazione, del valore attribuito alle loro dichiarazioni.

Con il termine »pentito , oramai universalmente accettato ed usato dalla stampa, nel linguaggio usuale giudiziario, dai politici ed anche nelle discussioni parlamentari, si intende quel terrorista, ma anche quel mafioso, quel camorrista ed in generale quel delinquente, che denunzia i propri complici offrendo la propria collaborazione alla giustizia dietro compenso della diminuzione della pena o dell'impunità o di altri vantaggi nella vita carceraria, e non solo di quella, previsti dalla legge o in qualche modo contrattati con il magistrato o con la polizia.

L'impunità o la diminuzione di pena per i delatori dei propri complici era prevista anche in Italia, specie per i reati politici, dalle legislazioni delle monarchie assolute del periodo precedente l'unità, nel secolo scorso, ma era stata respinta come istituto barbaro ed incivile dalla legislazione liberale unitaria. Il fascismo aveva premiato con l'impunità e con premi in danaro taluni delatori che avevano consentito di sventare cospirazioni antifasciste, ma non aveva mai pensato di tradurre tale espediente i legge dello Stato. Si deve tenere presente che in Italia vige il principio della obbligatorietà dell'azione penale, così che nessun magistrato può (ma oggi si dovrebbe dire potrebbe) promettere ed accordare impunità: ove questa, dunque, non sia stabilita da una norma di legge, la contrattazione avviene su un piano necessariamente illegale.

La prima disposizione legislativa che prevede una diminuzione di pena per quei terroristi che abbiano contribuito ad individuare e catturare i loro complici ed a fornire indicazioni utili per le indagini, fu introdotta dal decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625 (decreto Cossiga) che all'articolo 4 prevede per tali comportamenti la riduzione della pena dell'ergastolo i quella della reclusione da 12 a venti anni e delle pene detentive temporanee i una pena diminuita da un terzo alla metà.

Benefici ancora maggiori sono stati previsti successivamente dalla legge detta appunto »dei pentiti del 29 maggio 1982 n. 304, che, introducendo una distinzione tra »dissociati , »pentiti e »grandi pentiti , giungeva ad accordare a questi ultimi la liberazione condizionale anche se responsabili di reati puniti con la massima pena. Ma soprattutto tale legge accordava i suoi favori non solo ai delatori dei propri correi, ma anche a chi denunziasse i responsabili di altri reati, purché di natura terroristica ed eversiva ed inoltre espressamente si riferiva all'attività del pentito come quello di chi »fornisce prove rilevanti... .

Fino ad allora la cosiddetta »chiamata di correo , cioè l'indicazione da parte di un imputato di altra persona come proprio complice, aveva valore di indizio rilevante solo se corroborata da altri dati di riscontro e soprattutto solo se risultasse espressa senza che chi la faceva potesse ripromettersene un vantaggio o avesse a farla un qualsiasi interesse. In base a questi criteri nessun valore probatorio avrebbe potuto avere la dichiarazione di un »pentito cui la legge stessa assicura il compenso dell'impunità o della diminuzione di pena. Ed invece è avvenuto esattamente il contrario: cioè, nel momento stesso in cui la delazione del complice è stata premiata, essa è divenuta una prova ed una prova principe, sulla base della quale vengono emessi mandati di cattura e sentenze di condanna e fondate le »costruzioni dei maxiprocessi.

Al momento della discussione della legge, detta appunto »dei pentiti , era stata prospettata la possibilità di estendere le riduzioni di pena e l'impunità anche ai »pentiti della mafia e della camorra e in genere delle organizzazioni criminali, oltre che a quelli del terrorismo. Fu deciso negativamente, soprattutto perché la legge prevedeva un termine entro il quale la »collaborazione doveva essere prestata (diversamente dalla precedente »legge Cossiga della quale possono beneficiare i terroristi pentiti indipendentemente dal tempo entro il quale abbiano effettuato le loro delazioni), termime che sarebbe stato del tutto fuor di luogo imporre per i »pentimenti dei mafiosi, la cui organizzazione non si trovava affatto in crisi di dissoluzione come era invece per il terrorismo. D'altra parte la legge in questione veniva approvata per »premiare i terroristi che di fatto già avevano fornito la loro collaborazione in vista del beneficio legislativo loro promesso, e soprattutto quelli che già venivano definiti

i »grandi pentiti , sulle cui rivelazioni si fondavano le costruzioni di grossi processi.

All'atto della discussione di quella legge e anche successivamente, quando le Corti d'assise si trovarono a doverla applicare, le polemiche riguardarono soprattutto i più evidenti aspetti morali di quelle norme. Assassini che avevano sulla coscienza moltissimi efferati omicidi freddamente eseguiti venivano infatti puniti con pene lievissime e magari subito liberati, mentre semplici appartenenti a »bande armate e ad »associazioni sovversive da essi denunziati venivano condannati a pene pesantissime pur non avendo mai partecipato a fatti di sangue.

Ma il peggio di quella legge doveva emergere attraverso l'evoluzione della logica implicita cui essa era ispirata. Una volta accertato il principio che la »necessità di venire a capo di pericolose organizzazioni criminali poteva giustificare la contrattazione dell'impunità tra lo Stato e il criminale, i giudici, spesso gli stessi chiamati ad applicare la legge antiterroristica sui »pentiti , difficilmente potevano sfuggire alla tentazione di seguire analoghe scorciatoie per le inchieste relative alla criminalità comune. Del resto di una legge in favore dei »pentiti della mafia e della camorra si era continuato e si continua (anche se oggi assai di meno) a parlare. Così, promesse di impunità venivano e vengono prospettate a mafiosi e camorristi e ciò che la legge non consente veniva e viene offerto dai giudici con vari espedienti.

E' difficile descrivere o solo ipotizzare quello che i vari magistrati possono offrire ai pentiti della criminalità comune. Molto si sa, ma molto rimarrà forse per sempre ignorato dalla pubblica opinione. E' certo che i molti »pentiti , sulle cui dichiarazioni si sono costruiti i grandi processi contro la camorra, la mafia calabrese e, in minor misura, la mafia siciliana, non hanno collaborato per amore di giustizia o per poter usufruire di una generica benevolenza dei giudici. Ed è certo che essi non solo sono stati e sono custoditi, come è giusto, in luoghi speciali di detenzione al sicuro dalle vendette, ma che trascorrono la loro detenzione in situazioni di particolare conforto addirittura i compagnia delle rispettive famiglie, fuori degli stabilimenti carcerari, in caserme di polizia. Pare certo che forti somme di danaro siano state elargite ai pentiti e alle loro famiglie. Attenuazione di imputazioni ed assoluzioni per qualcuno dei molti reati di cui i pentiti debbono rispondere sono i benefici elargit

i su di un piano più strettamente processuale. E già questo porta la »contrattazione sul piano dell'illecito. Se si pensa poi che il »pentito spesso figura anche come teste, per fatti di cui non è partecipe, che tuttavia conosce o ha »sentito dire , ogni compenso per tali sue testimonianze è di per sé un reato, quello appunto di »subornazione di teste , commesso da un magistrato o da un ufficiale di polizia. Ma nessuno ha mai pensato di procedere per tali abusi, né sembra che Governo e Parlamento si preoccupino di questi necessari presupposti illeciti dell'utilizzazione dei pentiti.

L'estensione fuori del campo della criminalità terroristica dell'utilizzazione dei pentiti e della logica delle leggi speciali è stata naturale ed immediata, proprio nella attribuzione del valore di prova alle dichiarazioni di tali individui, che è poi l'aspetto più aberrante e pericoloso di tale sistema. Oramai le dichiarazioni accusatorie di un complice sono considerate elemento più che sufficiente per sostenere qualsiasi accusa. Non solo, ma anche per ciò che riguarda vere e proprie testimonianze, cioè dichiarazioni relative a reati di cui il »pentito non è stato partecipe, la qualità di »pentito , cioè di delinquente riconosciuto e confesso, sembra essere divenuta la miglior garanzia di veridicità. Si è giunti anzi ad eccessi che si dovrebbero dire grotteschi e ridicoli, se non fossero spaventosi e tragici: »pentiti che in passato sono stati condannati per calunnia, oppure che sono stati fatti oggetto di perizie psichiatriche per le loro abnormi condizioni mentali, sono considerati assolutamente »atten

dibili e sulle loro dichiarazioni si sono fondati mandati di cattura, rinvii a giudizio e condanne.

Per comprendere la pervicacia con la quale certi giudici sostengono, talvolta persino contro l'evidenza di prove contrarie, la credibilità delle dichiarazioni rese da pentiti, occorre tener presente che sulle dichiarazioni di questi personaggi vengono costruiti processi di dimensioni colossali, i cosiddetti maxiprocessi, con decine e centinaia di imputati e di diverse imputazioni. Ammettere il falso di una sola delle accuse di un pentito significherebbe riconoscerne l'inattendibilità, con il rischio del crollo di tutta la costruzione. Si sono intesi giudici affermare che un pentito deve essere creduto perché quasi tutto quello che ha riferito è vero, anche se poi ciò che è ritenuto vero lo è per lo stesso motivo. Recentemente sulla stampa si sono levate voci ad esprimere preoccupazione per il declino della credibilità dei pentiti, causato da ritrattazioni, da ricatti cui si sono dedicate le loro famiglie con la minaccia che i pentiti stessi »facessero il nome dei ricattatori (fatto denunciato anche in inter

rogazioni parlamentari) e da certe minacce di una sorta di sciopero dei pentiti, per la mancata approvazione di una legge in loro favore, che sono state fatte intendere nel corso ad esempio del processo di Campobasso contro il noto capo camorrista Cutolo.

A volte, per salvaguardare la credibilità del pentito si consente ad esso di capovolgere il contenuto di un'accusa, cambiando pedissequamente l'oggetto dell'imputazione nei confronti dell'accusato, e ciò quando la primitiva imputazione risulti smentita da fatti troppo chiaramente inoppugnabili, come aver attribuito la materiale commissione di una rapina a chi era detenuto quando essa fu commessa etc.

Ecco dunque che la piaga dei pentiti si riconnette con quella dei

»maxiprocessi , della loro istruzione necessariamente sommaria e frettolosa e del segreto e della lunga durata di essa.

Ma anche sotto altro aspetto e con altre conseguenze, non meno aberranti e scandalose, un'altra piaga dei processi penali italiani, la lunghezza della carcerazione preventiva, il segreto dell'istruzione e l'ampia discrezionalità dei poteri dei magistrati istruttori, influiscono sulla questione dei pentiti e fanno sì che non sia assolutamente comparabile l'uso che di essi si fa in Italia con le situazioni di altri paesi civili in cui pure è consentito assicurare impunità ad un complice in cambio di rivelazioni.

La facilità con la quale viene disposta e mantenuta la carcerazione preventiva e la durata intollerabile di essa, in condizioni ambientali talvolta spaventose e pericolose per il detenuto, fa sì che questi, se fatto oggetto di pressioni perché ammetta colpe proprie e colpe altrui, talvolta con suggerimenti fin troppo puntuali, sia portato a scegliere non tra la propria condanna come colpevole e la propria libertà come delatore, ma tra la propria libertà, sia pure provvisoria, quale imputato magari autocalunniatore e calunniatore di altri e la propria detenzione preventiva quale imputato che difende la propria innocenza. In altre parole non solo il colpevole può essere indotto a »pentirsi ed accusare altri per sfuggire alla pena, ma anche l'innocente può essere costretto a fare altrettanto per sfuggire ad una carcerazione preventiva tanto più intollerabile, a parte la sua lunghezza, in quanto ingiustamente subita.

Non si tratta di mere ipotesi e di paradossi. Nel processo avanti alla Corte d'assise di Cagliari, il cosiddetto »processo Manuella , tra le altre vicende sconcertanti emerse anche quella di un »pentito che aveva ceduto alla minaccia di una lunga, e per lui particolarmente pericolosa, carcerazione preventiva e, ammettendo di aver commesso un reato inesistente di cui era accusato da un altro »pentito , aveva a sua volta accusato di complicità un innocente. Pentitosi in seguito di essersi pentito e di nuovo tratto i arresto, era stato poi assolto dal reato per il quale aveva subito l'ingiusta carcerazione preventiva, ma era stato condannato per calunnia per essere stato costretto ad accusare un innocente.

E' appena il caso di dire che i magistrati che hanno condotto quella istruttoria non hanno subito alcun danno.

Ormai i pentiti non riferiscono solo i nomi di complici, ed i fatti da essi direttamente conosciuti, ma anche tutto ciò che hanno »sentito dire da altri criminali, le confidenze ricevute in carcere, le voci correnti nella malavita e lanciano accuse che, nella loro assoluta genericità (tizio apparteneva alla camorra... era collegato con l'organizzazione, l'avvocato tale favoriva la latitanza del suo cliente...) sono null'altro che giudizi, opinioni di colpevolezza. Eppure anche queste dichiarazioni bastano per emettere mandati di cattura e determinare lunghe detenzioni.

D'altro canto il »riscontro delle dichiarazioni dei »pentiti finisce per essere problema completamente superato, anche perché, data la vastità delle inchieste con la »disponibilità di più pentiti da parte degli stessi inquirenti, il riscontro è operato per lo più in base a dichiarazioni di un altro pentito opportunamente sollecitate se non suggerite dal giudice, cosicché si può dire che i pentiti si attribuiscono vicendevolmente credibilità e veridicità. Se si pensa che ormai i »pentiti rappresentano una specie di corporazione con identici interessi, ed in primo luogo quello del riconoscimento della »benemerenza della categoria al fine di ottenere l'attesa legge, come ora si dice »premiale , non c'è da meravigliarsi che i »riscontri non mancano anche per le dichiarazioni più arrischiate. Per non dire del fatto che più pentiti sono »gestiti (il termine non è nostro, ma proprio di magistrati specialisti in siffatte istruttorie) dallo stesso magistrato e dallo stesso ufficiale dei carabinieri, i quali no

n si limitano certamente a registrare dichiarazioni rese spontaneamente.

Da qualche tempo non si parla più di una legge per l'impunità o per sconti di pena ai »pentiti della mafia, della camorra e della criminalità organizzata in generale, di cui anche il ministro di Grazia e Giustizia aveva pubblicamente proclamato la necessità. Si è cominciato a riflettere, tra l'altro, sulla profonda differenza tra criminalità terroristica e criminalità comune e sulle torbide mene che nell'ambito di quest'ultima possono alimentare complicati giochi di vendette, depistaggi, mistificazioni, con difficoltà enormi nello stabilire una discriminante tra il »pentito che abbandona definitivamente la via del delitto e quello che è in cerca di vantaggi per ritornare al più presto alle sue attività, seppure in diversi ambienti del crimine. Ma si tratta di riflessioni sommesse che non sembrano avere intaccato il metodo fondato dell'utilizzazione dei pentiti, né la preoccupazione di certi magistrati di esaltare la credibilità di essi, anzi sembra che le perplessità che cominciano a serpeggiare tra la pub

blica opinione e nello stesso ambiente politico rendano più pervicaci e suscettibili quanti, sulla credibilità dei »pentiti , hanno fondato la costruzione di inchieste e la »verità adottata dalle sentenze.

5. I maxiprocessi: rastrellamenti e retate chiamati processo

Un aspetto dell'amministrazione della giustizia penale in Italia che colpisce perché facilmente rilevabile in termini quantitativi e numerici, è la conduzione di istruttorie e la celebrazione di processi contro un numero di coimputati inimmaginabile in altri Paesi. Che avanti ad una Corte d'assise possano essere tratte contemporaneamente a giudizio decine e centinaia di persone per rispondere di reati in vario modo connessi, è prassi che presenta con tutta evidenza inconvenienti gravissimi in ordine all'accuratezza dell'accertamento della verità ed al pieno esercizio di una reale attività difensiva. Ma situazioni particolari, e soprattutto la concomitanza di altri gravi inconvenienti che si sono venuti a creare nel sistema giudiziario italiano, fanno sì che questi »maxiprocessi rappresentino delle vere e proprie »retate , che, iniziate con criteri ed intenti più da rastrellamento in zona di guerra che da operazioni di giustizia, vengono portate avanti con successive selezioni necessariamente approssimative

e sulla base di sistemi di prova, possibilità di difesa e metodi di valutazione che sarebbe assurdo ed ingenuo ritenere possano assomigliare gran che a quelli di un equo e ragionevole processo di normali dimensioni.

Occorre premettere che nessuna legge »dell'emergenza ha stabilito norme processuali che consentano o impongano di celebrare processi contro un numero così grande di persone. II codice di procedura penale ha sempre consentito l'unificazione di procedure per più persone e per reati diversi commessi dalla stessa persona o da persone diverse i forza della »connessione (art. 45 c.p.p.) quando i reati siano stati commessi da più persone in concorso tra loro, se una persona è imputata di più reati, quando i reati sono stati commessi l'uno per eseguirne un altro, se la prova di un reato influisce sulla prova di un altro.

Processi contro un numero rilevante di persone, anche se neppure lontanamente paragonabile a quello di certi processi di questi giorni, sono stati celebrati i tempi passati. C'è da dire che semmai una disposizione di legge sulla competenza per connessione approvata nel 1977 (art. 21.1. 8 agosto 1977 n. 534) consente lo stralcio e la separazione di processi che in precedenza dovevano essere riuniti. Il ricorso a procedimenti intentati contro un così grande numero di persone contemporaneamente è tuttavia anch'esso espressione e conseguenza dei metodi e delle situazioni della cosiddetta »emergenza . I processi per reati di terrorismo vedono sempre gli imputati, oltre che dei singoli delitti, spesso commessi con il concorso di più persone, accusati anche dei cosiddetti »reati associativi , reati consistenti nel solo fatto di essersi associati ed organizzati allo scopo di commettere delitti, quali quello di »banda armata e di »associazione sovversiva . Anzi, proprio il terrorismo ed i processi relativi hanno fat

to si che venissero riesumate le norme che prevedono tali reati, di specifica natura politica, ed in particolare il secondo, che, introdotto nel codice in epoca fascista per incriminare l'appartenenza al partito comunista, si riteneva oramai incompatibile con la Costituzione democratica.

Ma soprattutto le prassi giudiziarie instaurate per la repressione del terrorismo hanno portato a dilatare di molto il concetto stesso di vincolo associativo ed a fondarne la prova su elementi tutt'altro che chiari ed univoci, spesso rappresentati dall'»affinità ideologica e dalla mera solidarietà politica. Ciò ha finito per influire anche sulla giurisprudenza relativa al reato associativo d'indole comune, quello di »associazione per delinquere , reato anch'esso distinto dai singoli delitti per la cui commissione l'associazione deve intendersi costituita e dalla loro concreta commissione.

Così oggi si finisce per riscontrare gli estremi dell'associazione per delinquere in casi in cui in passato si sarebbe riscontrato soltanto il reato o i reati commessi da più persone in concorso tra loro. E mentre si riafferma l'esistenza di uno specifico vincolo associativo finalizzato ad una realizzazione di una serie indeterminata di reati anche quando tale organizzazione e tali condizioni appaiono evanescenti, di contro, anche in presenza di associazioni assai vaste ed articolate, si tende a riconoscere la responsabilità per concorso nella commissione di specifici reati commessi da altri associati, con una dilatazione in passato inconcepibile del concetto di concorso morale. Non è difficile che in tal modo si pervenga ad un vero e proprio circolo vizioso.

C'è da aggiungere che la cosiddetta »legge antimafia del 15 settembre 1982 n 646 ha introdotto la nuova fattispecie associativa (416 bis c.p.) della »associazione per delinquere di tipo mafioso , la cui definizione è estremamente vaga e contraddittoria, così che si è finito per assumere in funzione giuridica un concetto meramente sociologico, per di più assai controverso e volutamente esteso a situazioni anche sociologicamente assai diverse da quelle cui il termine »mafia è correttamente riferibile. Con ciò il concetto di »associazione si è ulteriormente dilatato e reso evanescente, mentre si è andata accentuando la tendenza a superare ed eludere, nella pratica, i rigorosi principi relativi alla responsabilità personale nella commissione di reati.

L'estendersi della contestazione di reati associativi e parallelamente, del concorso di persone nei singoli reati ha determinato, sul piano processuale, l'ingigantirsi di moltissime istruttorie e di moltissimi dibattimenti giudiziari. Processi "ad interi settori della malavita" di una grande città o di una regione, considerati come »associazioni nelle quali si concreta un unico reato concorrente con quelli commessi eventualmente dai singoli consociati, hanno proporzioni tali da stravolgere completamente non solo ogni idea che si possa avere di un processo, ma, di fatto, tutti e ciascuno i fondamentali principi cui un processo deve essere informato. Se si pensa al processo di Napoli per la »Nuova camorra organizzata , iniziato con una retata di oltre 1200 persone e nel quale è stato disposto il rinvio a giudizio di 670 persone, viene spontaneo il paragone con il processo celebrato da Fidel Castro nello stadio dell'Avana agli anticastristi sbarcati alla Baia dei Porci. Per celebrare questo processo non esiste

a Napoli o altrove un'aula sufficiente a contenere tutti gli imputati, per non parlare degli avvocati, dei testimoni etc., tanto che probabilmente occorrerà attendere che si costituisca o almeno si adatti allo scopo un apposito locale. Ma le difficoltà e le aberrazioni più evidenti non sono certo quelle di carattere edilizio. Tre giudici dovranno decidere della sorte di tutte queste persone, in ordine a parecchi capi di imputazione per ciascuno di essi, con accertamento inoltre dell'esistenza o meno di aggravanti, attenuanti, concorsi di persone etc. etc. ascoltando centinaia di avvocati, molti dei quali parleranno in diesa dei loro clienti mesi prima che sia emessa la sentenza. Pensare che in un processo del genere la colpevolezza o l'innocenza di ogni singolo imputato possa essere stabilita al di là di ogni ragionevole dubbio sarebbe atto di pura ipocrisia. Del resto l'istruttoria, durata oltre un anno, non ha potuto procedere con maggiore accuratezza di quella che sarà possibile realizzare al dibattiment

o. Si pensi che degli arrestati in forza del mandato di cattura originariamente emesso dal magistrato, circa 200 sono stati scarcerati dopo il primo interrogatorio e tuttavia dopo diversi giorni di detenzione, perché contro di loro si era proceduto per una mera omonimia.

In queste condizioni non c'è da meravigliarsi che il processo finisca per fondarsi esclusivamente o quasi sulle dichiarazioni di uno o più »pentiti . Basta calcolare il tempo necessario per verbalizzare le dichiarazioni pur sommarie e apodittiche del pentito nonché gli interrogatori degli imputati, per rendersi conto che al magistrato non resti molto tempo per altre indagini, che pure sembrerebbe elementare attendersi siano compiute.

Ed ecco quindi aggiungersi altre spiegazioni del ruolo abnorme assunto dai »pentiti . Né si pensi che processi come quello di Napoli alla »Nuova camorra organizzata siano eccezioni isolate, se anche si deve riconoscere che esso detiene un incontestato primato. In Calabria, nel piccolo tribunale di Palmi, è stato emesso mandato di cattura contro 124 persone con la motivazione che fa riferimento esclusivamente alle dichiarazioni rese da uno dei centoventiquattro, tale Giuseppe Scriva, un pentito che è probabilmente un vero e proprio agente provocatore, dichiarazioni che »trovano riscontro in quelle di due donne, che sarebbero poi la moglie e la cognata di lui. A distanza di molti mesi tutti gli imputati di questo processo sono ancora detenuti e molti di essi sono stati interrogati solo per registrarne le generalità e raccogliere le loro profferte di innocenza. Ma intanto lo Scriva, detenuto, in compagnia della famiglia, in una caserma dei carabinieri di Tropea, è finito al centro di una grottesca storia di u

na falsa evasione, per aver perso di vista la sua scorta mentre andava a spasso durante una consueta »libera uscita !

La mole dei documenti di questi maxiprocessi costituisce motivo di orgoglio per chi li istruisce. Sentenze di rinvio a giudizio di centinaia e magari di migliaia di pagine sono considerate monumenti di indagini addirittura di valore storico. Ma basta fare qualche calcolo per comprendere che tali indagini potranno magari essere pregevoli sul piano della storiografia e della sociologia, ma assai meno su quello giudiziario rettamente inteso. Nel processo di Napoli cui più volte si è fatto riferimento la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, che consta di 1400 pagine, è stata deposita dattiloscritta 45 giorni dopo che il pubblico ministero aveva depositato la sua requisitoria, cioè le sue richieste scritte. In questo tempo, in cui i difensori degli imputati avrebbero dovuto prendere visione degli atti, scrivere e depositare le proprie difese, che il giudice istruttore avrebbe dovuto leggere, con la requisitoria, prima di sentenziare, detto giudice ha scritto quelle 1400 pagine ad un ritmo giornaliero inimmagi

nabile non solo per la stesura di meditate motivazioni ma anche per la scrittura sotto dettatura. Il che significa che la sentenza è stata stesa senza attendere le richieste del pubblico ministero e le difese degli imputati o più probabilmente contemporaneamente alle prime. In tali processi è, del resto, ben noto che la differenza di funzioni tra pubblico ministero e giudice istruttore è puramente teorica e che tra di essi si perviene ad una sorta di divisione del lavoro per settori invece che per funzioni, tanto che ormai si parla non più di procuratore e di giudice ma di »magistrati inquirenti . La deformazione dei ruoli istituzionali nella magistratura determinata da questi maxiprocessi e, più in generale, da queste »campagne giudiziarie contro questa o quella forma di criminalità, è, del resto, una delle conseguenze, e non delle meno gravi, di tale modo di procedere. Spesso nelle »zone calde della criminalità organizzata si sente parlare di »vertici della magistratura per stabilire la »strategia proce

ssuale da seguire i questo o quel maxiprocesso, rispetto a questo o a quell'ambiente mafioso, etc.

Questi »vertici , cui partecipano assieme procuratori e giudici, sono di per sé la negazione del criterio fondamentale di ogni teoria processuale che sole il giudice »terzo rispetto alle parti. Questi metodi sviluppano una sorta di solidarietà tra tutta la magistratura (della quale fa parte senza distinzione di carriere anche il pubblico ministero) che comporta l'affievolirsi di ogni controllo, di ogni sede di ricorso. E quando questa solidarietà e unicità di funzioni viene meno si parla, e talvolta si tratta, di faide. Ma questo è un discorso relativo agli aspetti più propriamente istituzionali della crisi della giustizia in Italia che intendiamo lasciare fuori da questa trattazione.

Tornando agli inconvenienti più immediati del sistema dei maxiprocessi, occorre dire che il coinvolgimento in queste autentiche retate di persone completamente estranee ai fatti è tutt'altro che infrequente. Persone che hanno subito carcerazioni di giorni e di mesi per mera omonimia non sono poche. Si hanno casi di pentiti che hanno indicato come autori materiali di rapine e di omicidi persone che all'epoca di tali reati erano detenute e tuttavia queste persone hanno faticato mesi e mesi per imporre che si controllasse tale circostanza, per vedere poi mutata la loro imputazione in quella di »concorso morale a seguito della »precisazione del pentito accusatore.

Del resto la »connessione che unifica questi enormi processi contro così gran numero di persone è rappresentata di fatto più che dalla natura delle imputazioni, proprio dalla persona o dalle persone dei pentiti che sono dietro ciascuno di essi. E talvolta, di fronte alla mole abnorme e all'intrigo delle imputazioni, tutte suffragate dalle dichiarazioni dello stesso pentito, c'è da domandarsi quale memoria prodigiosa assista questi nuovissimi »collaboratori della giustizia .

A fronte dell'ingigantirsi del ruolo del »pentito , nel maxiprocesso il ruolo del difensore si rimpicciolisce e si sfuma assai più di quanto già non sia ridotto nel sistema istruttorio disegnato dalle nostre leggi, improntato alla segretezza e alla assoluta superiorità del ruolo, e dei poteri e delle facoltà del

pubblico accusatore rispetto al difensore.

Spesso l'avvocato di un imputato in un maxiprocesso non riesce neppure ad ottenere che il proprio assistito renda nei giorni successivi all'arresto un interrogatorio che non consista nella mera registrazione delle generalità dell'imputato e della sua pura e semplice negazione dell'addebito. Gli elementi d'accusa non vengono portati a conoscenza dell'imputato che in modo totalmente insufficiente e vago, e persino l'oggetto preciso dell'addebito, in aperta violazione della legge, è tenuto »riservato per asserite »esigenze istruttorie e solo molto più tardi, dopo lunghe attese trascorse in carcere, è possibile conoscere tali dati elementari ed essenziali su cui si fonda

il processo.

Qualcuno ha affermato polemicamente che nei processi di terrorismo non esistono »colpevoli ed »innocenti ma solo »pentiti ed »irriducibili . Sta di fatto che l'esasperante lentezza con la quale procede per ciascun imputato il calvario dell'istruttoria, che sembra assolutamente prescindere dalle ragioni e dalle difese dell'imputato, appare più diretta a produrre pentiti che ad accertare elementi di colpevolezza o di innocenza.

In questi maxiprocessi, vere e proprie operazioni di polizia in forma processuale, il principio della »difesa sociale anche a costo della libertà di un innocente sembra essere del tutto prevalente e così sembra che in essi regni sovrana la massima del diritto penale preilluminista: »in atrocissimis delictis et leviora indicia sufficiunt , la cui assurdità indignava Cesare Beccaria, cui la sorte non ha concesso essere profeta nella sua patria.

6. Il regime carcerario: carcere duro per gli imputati, privilegi per i pentiti

Il quadro degli effetti della legislazione speciale in Italia non può essere completo senza che si affronti la questione del regime carcerario.

L'esplosione del fenomeno terroristico si è manifestata proprio all'indomani dell'approvazione di una riforma del sistema e dei regolamenti carcerari improntata a notevole liberalità e intesa a garantire parità di trattamento ai detenuti (legge 26 luglio 1975 n. 354).

Purtroppo le strutture necessarie all'applicazione della riforma erano e sono del tutto inesistenti. Molte carceri italiane sono vecchi edifici che risalgono all'epoca delle monarchie assolute preunitarie, oppure sono dei vecchi conventi malamente ristrutturati. Il personale di custodia è assolutamente insufficiente e assai scarsamente qualificato. L'affollamento delle carceri, specie i alcuni centri, è addirittura inverosimile, le condizioni igieniche deplorevoli.

In queste condizioni in cui la promessa legislativa di migliori condizioni di vita carceraria rimaneva largamente inadempiuta, la riforma sembrò determinasse un periodo di turbolenze e di rivolte, di evasioni frequentissime e di crimini all'interno delle prigioni mentre appariva certa l'attiva partecipazione di esponenti del terrorismo e della malavita organizzata detenuti ai disegni criminosi realizzati all'esterno. Quale rimedio non si trovò che l'espediente di invocare la norma della legge di riforma, l'art. 90, che consente la sospensione di garanzie e di condizioni ordinarie di trattamento dei detenuti in casi di emergenza, applicandola, anziché in particolari contingenze, in maniera continuativa e »ad personam nei confronti di determinati detenuti »differenziati , ristretti perciò in speciali reparti e ivi assoggettati ad un regime di particolare rigore e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di condannati o di imputati in attesa del giudizio. Questa differenziazione, fondata su di un autentic

o travisamento di una norma di legge e per ciò stesso largamente discrezionale e arbitraria, anche se rappresenta l'applicazione di un criterio di differenziazione dei detenuti in ragione della loro pericolosità, ha fatto sì che le lunghissime attese di giudizio dei detenuti divengano ancor più una forma di pena anticipata ed un mezzo di costrizione alla »collaborazione . Il detenuto non ancora riconosciuto colpevole con sentenza, ma già definito »pericoloso e come tale trattato nella lunghissima detenzione preventiva, divenuta ancor più pesante e intollerabile, vede nel »pentimento non tanto un modo per sfuggire alla condanna e alla pena conseguente se riconosciuto colpevole, ma un mezzo per sfuggire al carcere speciale che gli viene irrogato prima del giudizio e quindi senza giudizio. Non è un caso che pentiti ormai celebri, sulle cui dichiarazioni si fondano mastodontici processi, sono per lo più delinquenti efferati, per i quali l'assegnazione al carcere di massima sicurezza in regime di »art. 90 sare

bbe altrimenti più che scontato. Molte delle contrattazioni per il »pentimento sono iniziate appunto con la profferta di »declassificazione , cioè di revoca dell'assegnazione al carcere speciale.

Ma soprattutto il sistema dell'assegnazione ad uno speciale regime carcerario anche per i detenuti in attesa di giudizio contribuisce a creare quel convincimento che sembra essere condiviso da giudici e imputati: che cioè in certi processi non ci sono colpevoli ed innocenti, ma »irriducibili e »pentiti .

C'è da aggiungere che per questi ultimi la detenzione non comporta talvolta neppure la permanenza in carcere. I »giudici »per esigenze istruttorie ordinano che siano trasferiti in caserme dei carabinieri, questure etc. dove rimangono a lungo in condizioni che ben poco hanno a che vedere con la carcerazione e con le carceri italiane.

7. Difensori incriminati. Le responsabilità. La giustizia fuori legge obbligata

Facilità e lunghezza della carcerazione preventiva, fabbrica ed utilizzazione dei »pentiti , maxiprocessi, regime carcerario sono per se stessi e per le reciproche influenze e connessioni questioni centrali nel fenomeno di degradazione del sistema giudiziario penale italiano.

Ma già in precedenza abbiamo dovuto far cenno ad altre questioni, ad altri sintomi, ad altre cause.

Si è detto, ad esempio, che il ruolo subalterno e marginale che la stessa legislazione impone al difensore nella fase istruttoria penale è ulteriormente compresso nelle maxistruttorie e, sempre di più, in tutti i processi di grande rilevanza e complessità, attraverso espedienti con i quali non solo la conoscenza delle fonti dell'accusa, ma persino quella dell'oggetto puntuale dell'addebito nelle sue complete articolazioni è negata all'imputato e al suo difensore o è rinviata ad un tempo molto lontano da quello dell'arresto e dell'inizio del procedimento. Ma limitazioni e compressioni ancora più gravi ed allarmanti si sono verificate per il diritto alla difesa e per la libertà del difensore. Ciò è stato denunziato dagli Ordini degli avvocati che hanno raccolto ampia documentazione, facendone anche oggetto di convegni e di proteste formali che sono giunte anche alla astensione dalle udienze, cioè allo sciopero della categoria è accaduto infatti, che, sul presupposto della »affinità ideologica tra imputati e d

ifensori, »affinità che è considerata il connettivo di quei »reati associativi comunemente addebitati agli imputati per fatti di terrorismo, alcuni avvocati di terroristi sono stati accusati di complicità nei confronti dei loro assistiti, per lo più perché sospettati di aver fatto da tramite tra gli imputati i stato di detenzione e i loro complici ancora in libertà. Altre volte l'accusa è stata di »favoreggiamento (art. 378 c.p) per aver aiutato gli imputati loro assistiti a »sfuggire alle ricerche di eludere le indagini e ciò per attività risultate poi o inesistenti o perfettamente legittime. Dal campo del terrorismo questo andazzo si è esteso ad altri settori, specie in reati di mafia e di camorra. E' inutile dire che in questo genere di accuse si sono lanciati ben presto i pentiti e non senza che ricevessero opportune sollecitazioni. E le loro accuse contro avvocati, anche »de relato , non hanno trovato accoglienza meno pronta delle altre. E' chiaro che incriminazioni ed arresti di avvocati per simili

imputazioni hanno creato un clima di intimidazione e talvolta di non dissimulato ricatto la cui gravità deve essere valutata tenendo conto del fatto che, come è stato più sopra accennato, certe prassi dell'istruttoria penale oramai usuali si fondano su aperte violazioni di legge da parte di magistrati inquirenti ed addirittura su veri e propri reati, che l'avvocato ha il dovere di contrastare e denunziare.

Insistere su questi episodi, nonché sull'illegittimità e l'arbitrio che li caratterizzano, può apparire un modo per eludere la descrizione del sistema processuale creatosi in Italia per passare alla denunzia delle violazioni e degli abusi commessi. Ma quando gli abusi non hanno praticamente rimedio, essi, anche a prescindere dalla loro frequenza, diventano prassi e, paradossalmente, »legge di fatto sulla quale poggia e con la quale si integra il sistema. Non è qui il caso di affrontare il problema, ripetutamente sollevato e totalmente irrisolto, della responsabilità del giudice nell'ordinamento italiano. Qui varrà la pena però sottolineare come, anche per ciò che riguarda la mera responsabilità disciplinare, soggetta al vaglio dell'organo di autogoverno della magistratura, il Consiglio superiore, a fronte di una quantità di procedimenti e di decisioni per addebiti disciplinari più vari, colpisce l'assenza totale o quasi di ogni addebito o sanzione per abusi, negligenze, ritardi etc. lesivi della libertà per

sonale dei cittadini. E ciò in un paese in cui si può dire che quotidianamente si ha notizia di mandati di cattura emessi per omonimia, per reati commessi mentre l'imputato si trovava custodito in carcere, per equivoci inammissibili.

Del resto sarebbe palesemente ingiusto, vista la dimensione di certi fenomeni, che dell'abuso fa prassi e legge, attribuirne la responsabilità solo al magistrato che direttamente li commette. A parte la responsabilità degli organi giudiziari superiori, che spesso legittimano, con espedienti logicamente aberranti, certi abusi e frustrano ogni tentativo di reagirvi, non va dimenticata la responsabilità politica in ordine, prima di tutto, a quella legislazione speciale della cui logica perversa le situazioni denunziate, anche se non conformi al dettato letterale delle leggi ordinarie o speciali che siano, sono il portato e il prodotto.

Si deve aggiungere che la sommarietà dei processi, l'assunzione delle dichiarazioni dei pentiti come sufficiente e »attendibile fonte di prova, l'assenza di vere indagini e di prove coscienziose, di riscontri e di verifiche diligenti è anche il portato di una situazione di inefficienza dell'organizzazione giudiziaria in cui è semplicemente ingenuo pensare che il magistrato possa fare altro che quel che fa, vista la quantità dei casi a lui affidati. Chi non si scandalizza ma si compiace per l'instaurazione di un maxiprocesso con centinaia di imputati è in realtà complice del modo di procedere nel quale il »pentito è arbitro della verità, della libertà dei cittadini e responsabile degli arresti per omonimia, delle prevaricazioni sul diritto alla difesa. Certo la responsabilità morale, e non solo morale, del magistrato non viene meno per ognuno di questi fatti solo perché concorrono altre responsabilità, ma queste altre responsabilità esistono e sono evidenti. Gli organici palesemente esigui di certi tribunal

i delle zone d'Italia in cui la criminalità ha una diffusione e un'organizzazione allarmanti, e il fatto che tali organici non sono talvolta neppure completi, la mancanza di locali, di personale ausiliario, di strumenti tecnici, la carenza di adeguate e decenti strutture carcerarie etc., la stessa carenza di una adeguata spesa pubblica per la giustizia, sono altrettante forme di complicità rispetto alla consumazione di certi abusi e per ciascuno di essi.

Non è questo l'oggetto specifico di questa trattazione, ma non può farsi a meno di farvi cenno perché la stessa descrizione, che sopra abbiamo tentato, della grave situazione oggettiva della giustizia penale in Italia non ne esca falsata. E per affrontare il problema della giustizia-caso Italia c'è bisogno anzitutto di verità.

PRESIDENTE:

Sospendiamo i lavori per questa mattina. Si riprende alle ore 15 con l'inizio del dibattito.

 
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