STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEOSOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".
Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.
Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.
Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.
Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.
("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)
MARIO DE STEFANO
Magistratura e potere
L'amministrazione della giustizia, di cui lo Stato assume il monopolio, è la funzione massima della sovranità, il potere eminente per cui lo Stato si giustifica come tale. Se questo potere e male esercitato, lo Stato si nega da solo, e deve consentire il sorgere di organizzazioni di fatto, quasi sempre di ordine criminale, che garantiscano in qualche modo il bisogno di giustizia. Diciamo subito che la paralisi totale del potere giurisdizionale dello Stato è ipotesi remota e teorica e che, piuttosto che di paralisi totale si deve parlare (e nella storia se ne trovano esempi frequenti) di disfunzioni della giurisdizione. Naturalmente esistono diversi gradi di cattivo uso del potere giurisdizionale, e si delineano abusi, sia di forma che di sostanza, che raggiungono limiti di intollerabilità, provocano dissensi e proteste, che si riassumono in una sola voce: la giustizia e in grave crisi.
La crisi della giustizia è quindi crisi dello Stato, nel suo complesso, e in ogni più lontana manifestazione della sua struttura: perché né il disordine dell'esecutivo, né le lacune della legislazione provocano un allarme paragonabile a quello causato dai giudici che non giudicano, o straripano dai loro poteri, o giudicano con ritardo. La situazione, nel nostro Paese, è giunta ormai ai margini di intollerabilità di cui s'è detto sopra. E vogliamo qui rapidamente indicare le cause di quanto avviene e, se possibile, profilare i rimedi più importanti ed urgenti che occorrerà prendere. Ove ciò non sia possibile in termini brevi, occorrerà rassegnarsi a quella paralisi totale che, in verità, nessuno vuole, e che tutti paventano.
La crisi della giustizia è la crisi del giudice, come persona che garantisce l'osservanza pratica del diritto. Altri punti critici ugualmente gravi riguardano le strutture materiali e giuridiche in cui si esercita la giurisdizione, e specialmente quella penale.
I giudici, com'e ovvio, e come giornalmente si conferma, contano nelle loro file, di circa 5.000 unità, una tipologia personale che corrisponde, all'incirca, alla qualità e moralità media dell'italiano e che, vista dall'esterno, e senza tormentose introspezioni, comprende l'ottimo, l'austero, il dotto, etc., etc., come l'imbecille, l'ignorante, il debole o il fanatico di una idea o di un partito. Su questo piano non vi è nulla da dire, ed occorre sperare ogni miglioramento dal faticoso progresso della civiltà. Sicuramente qualche prudente riforma del sistema di reclutamento attraverso i concorsi, ed una vigilanza più attenta da parte delle gerarchie e del Consiglio superiore della magistratura potrebbero portare sorprendenti miglioramenti.
Ma, a parte questi aspetti, tutto sommato, contingenti, a disegnare la figura del giudice ed i modi della sua attività in Italia, occorre riferirsi in prevalenza ad un punto: quello della responsabilità del magistrato.
Si deve subito dire che il sistema vigente è sicuramente inaccettabile.
Il cittadino comune forse non sa che un giudice, appena nominato, è un uomo più potente di qualsivoglia funzionario, portatore di qualsiasi carica amministrativa o politica, della Repubblica. E ciò per un motivo assai semplice: egli è più irresponsabile delle più eccelse autorità, dato che, a parte l'ipotesi del dolo, frode o concussione, qualsiasi suo comportamento colposo è, per la legge, irrilevante.
Esiste, è vero, (e ne parliamo, beninteso, ponendoci sul piano del cittadino quale utente di giustizia) una ipotesi di responsabilità per colpa, da imputare al magistrato. Ma è cosa non solo minima, tanto da riuscire praticamente impercettibile e statisticamente sconosciuta, ma mai - a nostra conoscenza - avvenuta nella vita giudiziaria di ogni giorno. Si possono interrogare, in proposito, anziani legali che hanno trascorso decenni nelle aule e nei corridoi dei palazzi di giustizia. Si è mai dato il caso, domanderemo, che un giudice sia stato condannato al risarcimento del danno, per titolo di colpa, consistente nel ritardo ad emettere il provvedimento richiesto, pur con le cautele predisposte dall'art. 55 cod. proc. civ., compresa la previa autorizzazione del ministro di Grazia e Giustizia?
Il caso, ne siamo sicuri, e certamente teorico, e tale è restato e, continuando a vigere i codici attuali, destinato a restare. Si tratta, in sostanza, di una previsione legislativa che ha tutto il sapore di una canzonatura che il legislatore ha commesso ai danni del cittadino. Dunque, la colpa e, rispetto al giudice, ed a tutela della parte litigante, solamente rilevante nel caso del ritardo. Ma, e qui sta il veleno dell'argomento, chi può agire per questa responsabilità ed il relativo risarcimento, agire contro il giudice? Sembra incredibile, ma è vero: è la stessa parte, la quale attende una decisione di merito, sperabilmente favorevole, sul suo caso, che deve affrontare il giudice ... Vi immaginate, per stare alla prassi civile, un attore od un convenuto che escute il suo giudice, prima della decisione di merito, per ottenerne la condanna al pagamento di una somma (sia pure la simbolica lira) per il suo ritardo? La minima reazione del magistrato, così sbeffeggiato ed infastidito, sarà di fare bensì il pr
ovvedimento, ma per ovvia debolezza umana, nel fare strazio delle sue ragioni e, in una parola, nel dargli torto. E' per questo che si deve credere che la responsabilità del giudice, per quell'esiguo lembo di colpa che e la colpa per ritardo, non sia mai capitata nella vita concreta dal processo, e non capiterà mai. La parte potrà attendere per mesi, anni, o addirittura decenni, che il suo caso sia deciso, senza fiatare: a meno che non possa far conto su pressioni influenti ed imperative cui il giudice sia sensibile, come il recente caso di Trapani ha evidenziato. Abbiamo davanti agli occhi il caso di un giudizio di appello in cui come si dice la causa è stata assegnata a sentenza, e tale sentenza si attende da circa cinque anni ... Che farci? Rassegnarsi in anticipo a perdere la causa con un inconsulto (veramente inconsulto!) ricorso all'art. 55 del codice di rito civile o, in definitiva, piegare il capo all'ingiustizia, perché il ritardo nel decidere è sostanzialmente un caso di denegata giustizia, e quin
di una delle forme più drammatiche di ingiustizia. E' chiaro, dopo quanto si è detto, che quell'umile traccia di rilevanza che si concede alla colpa del giudice, cioè la colpa nel ritardo, semplicemente non esiste e tutto ritorna, eliminata questa fiabesca eccezione, nella regola. Il giudice non risponde, a nessun titolo, per colpa.
Bisogna riconoscere che l'inesistenza pratica di garanzie per la parte, nel caso di prolungata denegata giustizia (in che si risolve, come si è visto, il ritardo ingiustificato), è incoraggiata dalla legge, che non solo è indulgente per il giudice tardo, ma addirittura predispone, a garanzia sua personale e non delle parti, un'altra insormontabile difesa. Si tratta dei termini.
Il processo, sia civile che penale, è, largamente inteso, un sistema di termini. E ve ne sono (quasi tutti) di ordine perentorio, la cui violazione espone la parte alle più funeste conseguenze. Ma, si badi, i termini di cui fin qui parliamo sono termini per la parte.
Vi sono, è vero, termini anche per i giudici: ma è qui che la legge dimostra un'inspiegabile indulgenza. Nessun termine imposto al giudice è perentorio!
Di termini per il giudice se ne leggono molti, sia nei codici di rito, sia nelle disposizioni di attuazioni, sia infine nel regolamento generale giudiziario. Ma che farsene, nella pratica? Essi sono intesi dai magistrati, quando pure sono per un attimo considerati, non più che blande raccomandazioni, senza obbligazioni e senza sanzioni. Di qui i rinvii di mesi e di anni, che si sentono nelle pubbliche udienze. E quel povero termine, che si legge nell'art. 120 disp. attuaz. cod. proc. civ. per cui la sentenza deve essere pubblicata nei trenta giorni dalla discussione della causa, e che la pratica giudiziaria irride regolarmente, ad ogni piè sospinto ...
Qualche cosa pur si muove: durante lo svolgimento dei lavori parlamentari per la riforma in materia di lavoro sfociati nella legge n. 533/1973 fu proposta l'istituzione, presso ciascun tribunale, di una commissione di controllo per l'osservanza dei termini ordinatori previsti dalla legge di riforma. La Commissione avrebbe dovuto essere composta da magistrati eletti per tre anni dall'assemblea dei magistrati della circoscrizione, ed avrebbe dovuto procedere - una volta l'anno - all'esame di tutti i giudizi riguardanti la materia del lavoro, pendenti o definiti presso ciascuna sede giudiziaria, e avrebbe dovuto redigere appositi verbali in cui fossero elencate specificamente le inadempienze, con le indicazioni dei magistrati autori di esse, e con la rimessione dei verbali stessi al Consiglio superiore della magistratura. La proposta, com'era da attendersi, urtava contro pregiudizi troppo saldi ed abitudini troppo inveterate, e non poteva avere, come non ebbe, fortuna: la previsione fu stralciata dal testo defi
nitivo.
Il Cappelletti (Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, Bologna, 12-13 giugno 1971) proponeva proprio in quel tempo che »l'inosservanza, da parte del giudice, senza gravissime ragioni, di qualsiasi termine stabilito dalla legge configura l'ipotesi di responsabilità civile ai sensi dell'art. 55, comma 1· n. 2 del codice di procedura civile, anche in mancanza del requisito indicato dal comma 2· di detto articolo, e senza la necessità delle autorizzazioni di cui all'art. 56 . Altre voci ancora si levarono nel senso che qui interessa, ma, come quella del Cappelletti, non ebbero seguito.
E' da notare come si trattasse di proposte, tutto sommato, assai blande. Quella del Cappelletti, poi, pur prevedendo l'abolizione dell'onere della previa intimazione al giudice, e la necessità, anche essa preliminare, della autorizzazione ministeriale, si muoveva nell'ambito antico, di porre l'iniziativa a carico del litigante: il che, lo ripetiamo, è per lo meno ingenuo, e costituirà sempre un insormontabile ostacolo psicologico e pratico a valersi di questo mezzo di tutela.
Il problema dunque esiste non risolto: ed è importante, ripetiamo, occuparsene, perché è, fino ad oggi, l'unico modo per costruire una responsabilità del giudice a titolo di colpa e costituirà, si spera, un valido argomento a favore dell'introduzione di questo istituto. La responsabilizzazione del giudice, a titolo di colpa, sia pure in casi numerati e specifici, ma necessariamente non pochi, sarà un'arma assai valida per difendersi dalla stasi e dalla crisi della giustizia, e per avviare più coraggiose riforme.
Sotto un altro profilo, nella parte riguardante il giudice, va esaminata l'odierna crisi della giustizia.
Fermo restando che la madre di tutti i mali che affliggono la giurisdizione è la ritardata (e praticamente negata) giustizia, come sopra si è visto, vogliamo ora indicare un altro, più delicato, motivo di ritardo, che appesantisce le liti oltre i limiti di quanto sia oggi tollerabile. La questione è stata assai dibattuta in tempi recenti, specialmente in Germania e non e rimasta senza eco anche nel nostro Paese.
Intanto ci sembra urgente, di fronte a casi clamorosi di irritualità e nullità del processo, risalenti al giudice, eliminare (quanto alla responsabilità per le spese) il vecchio principio »factum judicis factum partis , che impone al definitivo soccombente l'obbligo di rimborso per vicende processuali, e diciamo pure per errori grossolani e inesplicabili, che risalgono solamente al magistrato, inesperto o peggio, perché ci sembra che addossare al malcapitato soccombente anche le spese degli atti o di intere fasi processuali dovute ad errore o colpa grave del giudice, è una enorme ingiustizia, aggravando senza motivo il fardello della soccombenza. E inutilmente si ricorre all'ipocrita scappatoia della compensazione delle spese, che è anch'essa una pronuncia ingiusta, che denota solo il rimorso del colpevole.
Una saggia ricognizione degli altri casi, assai numerosi, in cui si profili una colpa del giudice, dara luogo, ove mai sia compiuta, a risultati sorprendenti. E' certo che non si debba in alcun modo attentare alla libertà di valutazione del merito. Ma esistono casi, non infrequenti, che la »quaestio juris sia decisa dal giudice con principi e regole che non sono quelli comunemente ricevuti, e che la negligenza o l'inesperienza del magistrato configuri una colpa tanto grave da confinare addirittura col dolo. Ciò avviene, il più delle volte, con giudici che sono fortemente politicizzati, e che quindi (secondo una distinzione autorevolmente proposta) sono se non parziali, solamente neutrali, il che è cosa del tutto diversa dalla imparzialità. Sono casi, ad esempio, come quello del giudice che sistematicamente si distacca da principi saldissimi nella dottrina e sorretti da decisioni consolidate e fermissime della Corte suprema. In questa specie di latente ribellione che spesso si prolunga per anni, e che viene
costantemente condannata in sede di impugnazione, noi vediamo un caso di colpa evidente. Se da alcuno si facesse ancora qui ricorso al comodo feticcio della libertà di convincimento, esso potrebbe scomparire senza gloria davanti all'affermazione che nemmeno al giudice e lecito ricorrere all'abuso del diritto, e sia pure al diritto di giudicare liberamente. Altro, infatti, è libertà, altro è arbitrio e partito preso. Ciò vale soprattutto per il giudice singolo, che non ha la copertura della decisione collegiale. Ma non ci facciamo soverchie illusioni circa la collegialità.
Quel che importa è persuadersi che la giustizia civile, dietro le sue composte apparenze, è gravemente travagliata da disfunzioni ed abusi che rendono problematica una vera tutela delle ragioni dei singoli. Insistiamo che la crisi in questo piano della giurisdizione mina profondamente la vita civile, ed apre la porta a surrogati pericolosi e, in breve, all'affermarsi di poteri di fatto esercitati da forze segrete, di cui si parla anche in questi giorni, e che lo Stato non può oltre tollerare.
Di maggiore risonanza pubblica e di giustificato allarme è poi la situazione della giustizia penale. Lasciamo deliberatamente da parte la giustizia amministrativa, che ha pure, specie nelle sue sedi periferiche, le sue mende, sofferte dagli interessati e dalle stesse amministrazioni pubbliche: anche qui i ritardi sono enormi e troppo spesso la pronuncia finale viene rimessa a date remote, con la costante conseguenza, come si è visto, di un sostanziale diniego di giustizia.
A parte i colposi ed intollerabili ritardi (per non parlare di ipotesi di reato e di dolo) la »chose judiciaire non desta, tutto compreso, grande allarme nelle folle, ed ha scarsa eco nella stampa e negli altri mezzi di comunicazione: il fatto è che la vita dello Stato è solo indirettamente impegnata nei litigi civili, che sono in genere cosa delle parti e, di massima, compongono un mondo di uomini di affari e di imprenditori.
Lo stesso non può dirsi del processo penale: qui non emergono di solito i complessi tecnicismi della materia civile, e la cognizione del giudice di merito è, con prevalenza di ogni altro aspetto, un problema di fatto: problema che investe, nella sua crudezza, anche il semplice cittadino, pur se sprovvisto di speciale esperienza giuridica. Il che si vede con le folle che spesso gremiscono le aule penali, mentre quelle civili sono di solito poco frequentate dal gran pubblico. Questa presunta esperienza della materia penale da parte della gente non altrimenti qualificata (dalla quale, infatti, si estraggono i giudici popolari) conferisce alla materia penale una risonanza che è massima nei reati gravi contro la persona e contro imponenti complessi del mondo economico e finanziario, che operano sui beni di un numero talvolta ingente di persone.
Si spiega così come l'andamento del processo penale, nel nostro Paese, è oggetto di discussione non solo tra gli operatori del diritto, ma tra tutti i cittadini in genere. Ed è interessante notare come da ambedue i lati le critiche e le proteste, sia pure diversamente sentite e motivate, occupino la stampa.
La giustizia penale, nella progrediente criminalità della nostra epoca, si è trovata interamente impreparata, sia per gli strumenti tecnico-legali, che per la preparazione e l'impegno dei giudici, sia infine per le vaste ripercussioni che ogni carenza, in questo campo, ha tra i cittadini: il sacrificio, anche personale, di molti magistrati eccellenti, non può bastare. La Repubblica non ha bisogno di eroi ma di servitori attenti e volenterosi, e di caratteri fermi.
Il processo penale ha un suo carattere proprio, ed il più evidente, che consiste nell'essere preceduto ed accompagnato, sin dal suo inizio, da misure restrittive della libertà personale: esse, salvo eccezioni numerate, riguardano tanto il tradizionale ladro di polli, quanto l'omicida o il bancarottiere; non esistono, da noi, le cause penali cosiddette »bagatellari , che si risolvono in sede di polizia, e si concludono immediatamente con una multa. Nella stragrande maggioranza dei casi, l'immagine del giudice che istruisce e poi decide una causa penale si riflette nell'imputato che è diventato un recluso.
Per quanto riguarda le garanzie costituzionali a tutela della libertà personale, l'introduzione nel nostro ordinamento della cosiddetta »legislazione dell'emergenza e, da ultimo, del »pentitismo con la legge n. 304 del 1982, sono certamente aspetti su cui occorre soffermarsi, non fosse altro per mettere in risalto l'emergere all'interno della magistratura di due spinte contrastanti: da una parte chi, di fronte al venir meno delle manifestazioni più preoccupanti del terrorismo che queste norme dovevano combattere, propugna un ritorno alla normalità; dall'altra chi sostiene la opportunità ed anzi la necessità di estendere questa legislazione alla delinquenza organizzata, ripromettendosi, soprattutto dalle norme sul pentitismo, un particolare impulso alle indagini ed all'attività repressiva.
Di fatto, questo secondo orientamento sta prevalendo, tanto che dei principi del cosiddetto pentitismo si fa già ampio uso (e, sarebbe il caso di dire, abuso) nella lotta contro la mafia in Sicilia, la camorra nel napoletano e la 'ndrangheta in Calabria. Questo ultimo aspetto della estensione surrettizia della legislazione sul pentitismo alla lotta contro la criminalità organizzata è quello che suscita più perplessità, tanto che, persino quella parte della magistratura italiana che propugna questa estensione già si chiede quale tasso di praticabilità possono avere, nel tormentato mestiere di magistrato penale, queste innovazioni normative, ed ancora »con quali accorgimenti si possono fronteggiare distorsioni, abusi, fraudolenze, inceppi strumentali nella macchina giudiziaria e »quali problemi di deontologia professionale e quante angosce nell'essere giudice tutto questo comporterebbe .
I casi, di cui già è stato investito il Parlamento, di clamorose deviazioni dalla legalità da parte di magistrati troppo frettolosi rischia di ripercuotersi come un boomerang contro la stessa magistratura inquirente, che in questi anni ha, così faticosamente e con tanto sacrificio di vite, perseguito la lotta contro la delinquenza organizzata.
Il rischio è, insomma, che certi atteggiamenti disinvolti travolgano del tutto le iniziative doverose di lotta contro la mafia. Stanno emergendo, purtroppo, attraverso il pentitismo, i peggiori aspetti patologici di questa legislazione dell'emergenza. L'uso che si fa delle dichiarazioni dei pentiti, oltre che rischiare di travolgere vite di innocenti confusi nel mucchio degli accusati, può rivelarsi un'arma a doppio taglio. In sostanza, si rischia di lasciare intatti i santuari della mafia e di consentire alla stessa di fare le sue vendette attraverso le dichiarazioni dei pentiti.
Quale credito possa, poi, darsi a dichiarazioni di individui spesso macchiatisi dei più infamanti delitti, è cosa tutta da valutare. Certo è che, così concepito, il »diritto premiale rischia di stravolgere i fondamenti stessi dello Stato di diritto.
Nel processo penale, il ritardo nell'istruire e nel decidere, attraverso i vari gradi della giurisdizione, non è allo stato che potremmo dire »puro , ma è un ritardo qualificato dal fatto gravissimo della perdita della libertà. Il che, a parte i riflessi tecnici della auspicata riforma del rito penale, che si attende da decenni, impone subito con urgenza il problema delle carceri.
Questo problema, naturalmente, ha molti aspetti, che non si potrebbero tutti nemmeno sfiorare in questa sede. Dobbiamo, secondo il programma, limitarci ai rilievi di maggiore allarme sociale, che sono quelli sofferti e dibattuti tutti i giorni, sia dai direttamente interessati, sia dalla stampa, sia nelle sedi istituzionali proprie.
I dati di cui occorre tener conto sono essenzialmente questi: 1) la popolazione carceraria ammonta oggi a circa quarantacinquemila detenuti, ed aumenta al ritmo di oltre ottocento unità al mese (quando non intervengano le maxiretate); 2) la massa dei detenuti è ospitata in edifici in gran parte inadeguati e fatiscenti e che, comunque, dovrebbero ospitarne un massimo di venticinquemila; 3) attualmente, il 30% dei detenuti è costituito da tossicodipendenti; 4) a fronte di un organico di oltre 25.000 unità, gli agenti di custodia sono oggi meno di 20.000 e, per di più, quasi tutti senza un'adeguata preparazione professionale; 5) circa il 68% dei detenuti è in carcerazione preventiva o, come oggi si dice, in stato di »custodia preventiva (in verità, in anticipata espiazione della pena).
La promiscuità ed il sovraffollamento delle carceri, la invivibilità della condizione carceraria sono ben altra cosa rispetto a quanto previsto dalla legge n. 354 del 1975, quella riforma penitenziale che, a tutt'oggi, è rimasta completamente inattuata. Il tutto, con buona pace di chi, ancora, ricorda l'art. 27, 3· comma, della Costituzione, che recita: »Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato , o ancora le solenni enunciazioni di principio contenute nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo sottoscritta, per ironia della sorte, a Roma nel 1950.
L'art. 90 della legge di riforma ha introdotto un pericoloso principio di discrezionalità nell'applicazione, da parte del ministro, di un particolare trattamento per i detenuti il cui comportamento possa mettere a repentaglio l'ordine o la sicurezza degli stabilimenti penitenziari. Di questa norma è stato fatto uso anche in circostanze e nei confronti di detenuti che non giustificavano obiettivamente la sospensione delle regole ordinarie. Nonostante il clima delle carceri sia sostanzialmente diverso da quello di alcuni anni addietro, ancora oggi, la distinzione dei detenuti in »comuni e »differenziati , l'applicazione di trattamenti diversi all'interno degli stabilimenti, l'art. 90 semplice e l'aggravato, tutto ciò crea una situazione di discriminazione non compatibile con i principi affermati nella legge di riforma. Il principio della pena volta ad emendare e rieducare il condannato viene ancora stravolto e dimenticato.
Un aspetto particolarmente drammatico del problema della giustizia in Italia e quello dei termini della carcerazione preventiva, da una legge recente ridotti rispetto agli undici anni previsti, per taluni reati, dalla legislazione d'emergenza.
Come è noto, il 68% circa dei detenuti è attualmente in stato di carcerazione preventiva, in attesa cioè che intervenga sentenza definitiva di condanna. I termini, spropositatamente lunghi, della carcerazione preventiva, rispetto ai tempi previsti da altri ordinamenti, sono sempre stati giustificati, da una parte della magistratura, con riferimento alle difficoltà materiali ed alle deficienze di personale ausiliario che, così si dice, allungano a dismisura i tempi delle istruttorie. Pur non negando che una parte di responsabilità per i tempi straordinariamente lunghi della giustizia italiana derivi da deficienze strutturali e di personale, occorrerebbe indagare quanto del tempo trascorso dai detenuti in regime di carcerazione preventiva viene, di fatto, impiegato in attività istruttorie.
Ciò che certamente non è ammissibile è che della vita di un cittadino, di cui, sino al momento di una sentenza definitiva di condanna, si deve presumere l'innocenza, si disponga con tanta larghezza e a volte con tanta leggerezza. Casi ancora recenti di lunghe carcerazioni preventive dovute a semplici errori o a casi di omonimia dovrebbero far riflettere i magistrati inquirenti circa il rischio di abusi, deviazioni e distorsioni nell'uso dell'istituto della carcerazione preventiva, deviazioni tali che spesso la trasformano in espiazione anticipata di una pena che resta solamente »eventuale .
Abbiamo voluto, per sommi capi, accennare a questi aspetti del problema più generale della giustizia in Italia, per due ordini di ragioni: anzitutto per completezza di esposizione, rappresentando questi, a nostro parere, gli aspetti più gravi e preoccupanti della crisi della giurisdizione; e poi, esemplificando le distorsioni che affliggono il sistema di garanzie delle libertà individuali, per cercare conferma della tesi che il nodo centrale del problema sia quello della responsabilità del giudice.
Ancora di recente un alto magistrato si chiedeva perché proprio oggi si riproponga all'attenzione degli studiosi il problema della responsabilità del giudice, accantonato da anni dopo un breve periodo di interesse che coincise anche con la presentazione in Parlamento di alcune proposte di legge al riguardo. Ebbene, il motivo di questo rinnovato interesse sta proprio nell'aggravarsi della crisi della giustizia, nel venir meno della certezza del diritto, nell'affermarsi di tendenze e di interpretazioni delle norme penali che più di prima mettono a rischio la libertà di ciascuno.
Il problema della responsabilità, come già delimitato nelle pagine precedenti, è certamente il problema più importante della riforma dell'ordinamento giudiziario e, come tale, non può essere taciuto o eluso. Non vi è dubbio che sia opportuno, all'interno del problema, distinguere due aspetti diversi, quello della responsabilità civile propriamente detta e quello della responsabilità disciplinare.
L'argomento è sempre guardato con sospetto dalla magistratura: ancora nel 1982 vi era chi ammoniva che ogni iniziativa su questo tema poteva produrre »pericolose forme di deresponsabilizzazione professionale e soprattutto rischiava »di far pagare ai singoli giudici l'inefficienza dell'apparato giudiziario e le difficoltà interpretative connesse ad un modo di legiferare sempre meno chiaro e coerente . Queste affermazioni avevano un pregio: quello di restituire alla classe politica la parte di responsabilità nella crisi della giustizia che ad essa appartiene, ma che ha sempre negato. Non vi è solo la responsabilità del giudice, che pur sempre applica, anche se con abusi o nel modo aberrante descritto, la legge; vi è anche, a monte, un'altra responsabilità, questa politica oltre che morale, dei partiti che questa legislazione hanno voluto ed approvato in Parlamento, che hanno introdotto nell'ordinamento le logiche perverse della legislazione di emergenza e del pentitismo e quegli altri fattori di distorsione d
i cui dicevamo prima. Vi è, certo, una situazione di difficoltà per la magistratura derivante dalla inefficiente ed insufficiente organizzazione giudiziaria. Vi è lo scandalo di un bilancio della giustizia ridotto allo 0,76% del bilancio statale. Organici esigui, mancanza di personale ausiliario, mancanza di strutture carcerarie decenti, sono tutti problemi che aggravano la crisi della giustizia. Ma l'errore è quello di nascondersi dietro queste pur fondate ragioni per negare la necessità, da molti ritenuta urgente, di affrontare il nodo della responsabilità civile del magistrato.
In quanto alla responsabilità disciplinare, anche tra i magistrati va affermandosi la tesi favorevole alla revisione degli odierni meccanismi, pur nel rispetto del principio della non-perseguibilità dei magistrati per l'interpretazione e per l'applicazione del diritto compiute nell'esercizio delle loro funzioni, senza che sia compromessa l'indipendenza di giudizio del magistrato. Un principio cui si richiamano tutte le proposte al riguardo è quello della tipizzazione dei comportamenti sanzionabili, principio che ci sembra interamente da condividere. Quanto alla responsabilità civile, in particolare, gran parte della magistratura e allineata su quelle posizioni negative che abbiamo prima riportato. A nostro parere, pur con le cautele che la materia richiede, è urgente, proprio per recuperare credibilità alla figura del giudice, introduttore il principio della responsabilità per colpa, cosicché il magistrato venga chiamato a rispondere oltre che per l'azione dolosa, anche per quella gravemente colposa che abbi
a cagionato alle parti o ai terzi un danno ingiusto e non altrimenti riparabile, e ciò sia che si tratti di atti positivi, sia che si tratti di omissioni o di ritardi che possano configurarsi come denegata giustizia. Ciò che è essenziale eliminare è l'istanza della parte, prevista dall'art. 56 c.p.c., punto debole della vigente normativa e motivo della scarsissima, se non nulla, applicazione che la stessa ha avuto, nonostante la frequenza e, diremmo, la quotidianità dei ritardi e delle lungaggini ingiustificate.
E' giunto il momento, infine, per affrontare il problema della riparazione per l'ingiusta detenzione. Troppi casi recenti hanno colpito l'opinione pubblica perché si tardi ancora a riformare la legge n. 540 del 1960.
La crisi che travaglia la giurisdizione vulnera, come e chiaro, direttamente lo Stato nel suo insieme, e gli nega la ragione stessa di essere. Infatti, alle disfunzioni interne, ai difetti di uomini, alla mancanza di materiali e di strumenti deve aggiungersi lo scadimento dell'intero potere giurisdizionale, che è, comunque lo si intenda, il più importante dei poteri sovrani. La stessa distinzione dei poteri, che sembrava una conquista inalienabile dei tempi moderni ed il pilastro di ogni Costituzione, ne esce offuscata. Si osserva che proprio la confusione che regna nell'organismo della giurisdizione finisce per cancellare i confini con gli altri due poteri dello Stato, e specialmente quello con il potere esecutivo. Si vedono giudici che di continuo si attribuiscono, e stranamente esercitano attività di ispezione, di controllo e simili, che spettano invece all'amministrazione: e ciò sotto il velo di indagini giudiziarie, o di accertamenti vari; per non dire poi di vere e proprie sanzioni, anche penali, che s
i sostituiscono ai doveri disciplinari di questo o di quel ramo dell'esecutivo, occupando lo spazio che questo diserta. Sono tutte attività che, comunque considerate, restano ai margini della giurisdizione vera e propria, e che contribuiscono allo sfacelo crescente dello Stato. Ovviare alla crisi della giustizia non e, quindi, solo provvedere alle istanze dell'utente di diritto o, in una parola, degli imputati e dei litiganti, ma è, e deve essere, soprattutto un risanamento delle strutture indebolite dello Stato, ed una remora all'incombente rovina di tutto l'edificio, di cui la giurisdizione, ripetiamo, è fondamento sovrano.
Le discussioni e le proteste che da ogni parte ormai si levano e le proposte di un risanamento effettivo ed incisivo della materia rendono ormai urgente ed indilazionabile l'intervento delle forze politiche e delle residue energie della Repubblica.
Interruzione dei lavori.