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Pisapia Gian Domenico - 23 ottobre 1984
IL CASO ITALIA: (35) Gian Domenico Pisapia (relazione conclusiva) - LO STATO DELLA GIUSTIZIA IN EUROPA - I· CONVEGNO
STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEO

SOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".

Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.

Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.

Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.

Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.

("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)

GIAN DOMENICO PISAPIA

(Relazione conclusiva)

Onorevoli deputati, illustri colleghi, signore e signori. Ringrazio innanzitutto il presidente on. Zagari per le cortesi parole che ha voluto esprimere nei miei confronti e mi accingo a svolgere la relazione di sintesi, in parte mutilandola per ragioni di tempo, in uno stato d'animo che molti di voi comprenderanno: non certo di assoluta serenità, ma di una certa mortificazione per l'inopinato atteggiamento assunto dall'Associazione nazionale magistrati e per la improvvisa defezione, all'ultima ora, del Gruppo democratico cristiano. Ciò nonostante, noi riaffermiamo la massima stima nei confronti della magistratura e delle forze dell'ordine, complessivamente considerate: stima che nessuno qui, in questa sede, ha messo in discussione...

Certamente, non sono mancate, né potevano mancare, critiche, che sono non solo consentite - almeno finché esisteranno l'art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'art. 21 della Costituzione italiana - ma sono doverose, proprio come espressione di stima, di considerazione e di volontà di collaborazione.

Non è certo sottraendosi a tale confronto che si danno risposte adeguate alle critiche, tanto più se, in ipotesi, infondate o espresse in forma troppo cruda; mentre è proprio con l'aperto e pubblico dibattito, tanto più in una sede europea, che si rende il migliore omaggio a quel prezioso contributo di lavoro, di sacrificio, di dedizione e anche di sangue che la maggior parte della magistratura italiana ha dato, e continua a dare, e che è stato più volte ricordato anche in questo convegno.

Detto ciò, io devo esprimere il mio compiacimento per questa iniziativa del Comitato per una giustizia giusta di indire dei convegni sullo »stato della giustizia in Europa : convegni che non avrebbero potuto avere sede più adatta che questa capitale d'Europa che è Strasburgo. E non deve sorprendere che il primo convegno sia stato dedicato al »caso Italia , perché l'Italia è forse il Paese che ha vissuto e sofferto in modo più drammatico e cruento proprio la dolorosa esperienza del terrorismo e, mentre non sono ancora del tutto rimarginate le ferite, materiali e morali, da esso inferte, sta conducendo un'altra aspra e difficile battaglia contro altre pericolose forme di criminalità organizzata. Si tratta di fenomeni che non sono certamente esclusivi del nostro Paese; ma proprio perché hanno dato luogo ad una imponente e tormentata produzione legislativa, meglio si prestano ad un'analisi critica sia delle norme, sostanziali e processuali, che sono state varate per combatterli, sia di certe prassi applicative c

he hanno determinato le doglianze della maggior parte dei giuristi.

Il mio compito certamente non è facile, sia per la molteplicità degli argomenti che sono stati trattati nelle relazioni introduttive e nei numerosi e pregevoli interventi, sia per la ristrettezza del tempo a mia disposizione: la discussione, come sapete, è terminata solo qualche ora fa. Per cui mi scuso fin d'ora per le inevitabili lacune ed omissioni, che saranno colmate dalla pubblicazione di tutti gli interventi e delle comunicazioni pervenute. Peraltro, se il mio compito non è facile, esso è agevolato dalle ampie ed esaurienti relazioni introduttive, al cui contenuto posso rinviare, limitandomi qui a qualche richiamo essenziale.

Il professor Trechsel, valendosi anche della sua particolare esperienza di membro della Commissione europea dei diritti dell'uomo, ha segnalato i casi nei quali la Corte europea ha ritenuto che la legislazione o la giurisprudenza italiane non si siano conformate alle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. In particolare ha ricordato i casi Foti e Corigliano, nei quali e stata riscontrata dalla Corte la »eccessiva lentezza del processo penale italiano , in violazione dell'articolo 6 par. 1 della Convenzione europea, secondo cui - come è noto - "»toute personne a droit que sa cause soit entendue équitablement, publiquement et dans un délai raisonnable "; i casi Artico e Goddi, nei quali è stata ravvisata violazione dell'art. 6 par. 2 lettera c, secondo cui "»toute personne a droit à se défendre lui meme ou avoir l'assistance d'un défenseur de son choix et, s'il n'y a pas les moyens de rémunerer un défenseur, pouvoir être assisté gratuitement par un avocat d'office .

Il prof. Trechsel ha fatto anche un accenno ai casi Guzzardi e Luberti, in cui fu ritenuto violato l'art. 5 par. 1 e 4, che tutela la liberà personale; nonché ai casi Rubinat e Colozza, non ancora decisi dalla Corte, ma per i quali la Commissione ha ritenuto che la disciplina del giudizio contumaciale nella legislazione italiana non risponda ai principi di un »procès équitable . A questo riguardo mi permetto segnalare che, proprio a seguito dell'intervento della Commissione europea, nella nuova legge delega per il Codice di procedura penale, già approvata da un ramo del Parlamento e attualmente all'esame del Senato, e stata espressamente prevista una nuova disciplina del giudizio contumaciale, in armonia con i princìpi della Convenzione. E' noto, del resto, che fin dalla prima legge delega per la riforma del processo penale, del 1974, si poneva in primo piano la direttiva secondo cui il nuovo processo penale italiano dovrà adeguarsi alle norme ed alle convenzioni internazionali, che sono ormai diventate legg

e dello Stato. Tale impegno ha un valore non soltanto morale e giuridico, ma costituisce anche una spinta verso quell'unificazione del diritto dei Paesi europei che è stata sottolineata poco fa dal nostro presidente, e che rappresenta la vera ragion d'essere di questo convegno.

Ma la parte più interessante del rapporto Trechsel consiste, a mio avviso, nella illustrazione delle motivazioni in base alle quali la Corte ha ritenuto che ricorressero le citate violazioni delle norme convenzionali, formulando anche delle ipotesi circa le ragioni per le quali si sarebbero verificate le suddette violazioni. A questo proposito, il professor Trechsel si è rammaricato che gli italiani abbiano fatto raramente ricorso alla Corte europea, come dimostrato dal fatto che ben pochi sono stati i casi di ricorso individuale.

In realtà la Convenzione europea, mentre è stata ampiamente conosciuta e commentata dai giuristi italiani, non ha subito trovato larga applicazione da parte degli avvocati: ma ciò perché solo nel 1973 è stata riconosciuta dall'Italia la clausola relativa al ricorso individuale, e perché non sempre le persone interessate erano a conoscenza di tale loro diritto o avevano la possibilità di farlo concretamente valere. Ma l'ostacolo maggiore è forse dato dal fatto che la condanna della Corte europea, mentre ha un grande significato politico per gli Stati, ha, nei confronti delle parti, un effetto necessariamente limitato, concretandosi solo nel riconoscimento di un indennizzo a carico dello Stato. Siamo, comunque, vivamente grati al professor Trechsel per il suo importante contributo.

La magistrale e penetrante relazione del professor De Figueiredo Dias, muovendosi su un diverso piano, ha concentrato la propria attenzione soprattutto sulla struttura del processo, ravvisando giustamente nel sistema inquisitorio una delle principali e fondamentali ragioni delle disfunzioni della giustizia e delle compressioni dei diritti di libertà, quali si verificano - come egli ha giustamente sottolineato - non solo in Italia ma anche in Portogallo e nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale. L'illustre collega ed amico esprime con decisione la necessita che i giuristi di tutti i Paesi assumano una posizione critica rispetto al regresso della evoluzione democratica che caratterizza le legislazioni dei Paesi europei in questi ultimi anni. Colgo l'occasione per esprimergli il mio personale ringraziamento per il giudizio positivo che ha voluto esprimere sul Progetto preliminare del Codice di procedura penale italiano del 1978, redatto dalla commissione ministeriale che ho avuto l'onore e la resp

onsabilità di presiedere.

Questa mattina, infine, il professor Ancel ha offerto al convegno un prezioso contributo di diritto comparato, confermando la diagnosi già formulata dal professor De Figueiredo Dias, ma fornendo interessanti particolari su alcune norme introdotte, in questi ultimi anni, nelle legislazioni della Germania federale, dell'Inghilterra, della Spagna e della stessa Francia: Paesi nei quali - come in Italia - si è verificata, a partire dal 1975, quella inversione di tendenza, in senso autoritario e repressivo, contro cui il professor Ancel ha preso nettamente posizione. A proposito del progetto francese del 1980, denominato »Securité et liberté , egli non ha esitato a dire che, in effetti, vi è »plus de securité que de liberté , esprimendo la sua preoccupazione per la lenta erosione che si verifica, nel diritto sostanziale, del principio di legalità e, nel diritto processuale, della »presunzione di innocenza . Egli ha ricordato come in Germania si sia arrivati ad ammettere processi senza difensori; come, anche in Fr

ancia, vada prendendo rilevanza processuale la figura del »sospettato , accanto a quella dell'imputato. Ed ha concluso con un vigoroso appello alla più attenta vigilanza da parte di tutti i democratici, sottolineando il dovere di reazione e di protesta da parte dei giuristi, per evitare che le esigenze di difesa sociale comprimano i diritti di libertà.

Ho lasciato di proposito per ultimo il richiamo alle due relazioni italiane, quella del professor Vassalli e quella dell'avvocato Mellini, perché esse mi consentono di abbreviare ulteriormente questa mia sintesi, rinviando ad esse per la puntuale e completa esposizione dei numerosi e complessi problemi che oggi presenta la giustizia in Italia: problemi nella cui identificazione e valutazione, giuridica e politica, io pienamente concordo, anche se il tono forse troppo duro e vivace di una di esse - quella dell'on. Mellini - ha suscitato le polemiche e la reazione dell'Anm, cui ho fatto cenno all'inizio.

Entrambi i relatori hanno denunciato la compressione dei diritti della difesa; l'abuso della esigenza del segreto istruttorio; il clima di diffidenza, se non di intimidazione, che talora si riscontra nei confronti degli avvocati difensori; e soprattutto la eccessiva facilità con la quale alcuni magistrati italiani ricorrono alla carcerazione preventiva dell'imputato. In questa degenerazione dell'istituto si inquadrano sia la sua utilizzazione come strumento per l'acquisizione della prova, sia l'eccessivo rilievo dato alle dichiarazioni degli imputati che accettano di collaborare con la polizia o con la giustizia. Premiare le chiamate in correità dei cosiddetti pentiti con la concessione della libertà provvisoria o anche in altro modo comporta il rischio evidente di incoraggiare anche false accuse e di dare ingresso ad una specie di »ideologia della delazione , estremamente pericolosa, oltre che incivile. E' stato anche segnalato, come fenomeno degenerativo, il ricorso, che talvolta e stato fatto, alla contes

tazione di »imputazioni strumentali , o di reati più gravi di quelli che si potrebbero fondatamente addebitare all'imputato, con l'effetto di prolungare arbitrariamente la durata della carcerazione preventiva.

Tali inconvenienti - e molti altri (come, per esempio, la celebrazione di megaprocessi con centinaia di imputati) - possono farsi risalire sia alla cosiddetta legislazione dell'emergenza, che dal 1974 in poi ha aumentato sempre più i poteri della polizia e dei magistrati, comprimendo correlativamente i diritti e le garanzie della difesa, sia, in misura ancor più rilevante, alla deformata mentalità di alcuni magistrati che troppo disinvoltamente - è stato detto - credono di poter dare preminenza alle ragioni (reali o anche soltanto ritenute) della lotta contro il delitto rispetto ai principi fondamentali del processo e dei diritti di difesa e di libertà. E proprio contro i pericoli di abuso del potere giudiziario a danno dei fondamentali diritti individuali, oltre che delle regole probatorie proprie di un »equo processo , hanno già da tempo preso posizione la maggior parte dei giuristi italiani, esortando i magistrati a tenere in maggiore considerazione il principio costituzionale della presunzione di innocen

za, con maggior rispetto per la libertà personale dell'inquisito, spesso sacrificata senza alcuna reale necessità.

Il professor Vassalli, nella sua ampia e documentata relazione, ricca anche di richiami di diritto comparato, ha cercato tuttavia di spiegare alcune delle ragioni obiettive di questa situazione, ricordando l'esigenza di spiegare alcune delle ragioni obiettive di questa situazione, ricordando l'esigenza di combattere certe manifestazioni, particolarmente allarmanti, di criminalità organizzata. Ma non ha potuto disconoscere che alcuni magistrati tendono a credere ai cosiddetti »pentiti in modo eccessivo e non sufficientemente controllato, con il rischio di contaminare il rigoroso rispetto del sistema probatorio che deve caratterizzare gli accertamenti processuali. In realtà un conto è ammettere il ricorso ai »pentiti per combattere certe forme di criminalità, altra cosa è il »momento giudiziale dell'utilizzazione dei pentiti come fonte di prova.

Alle relazioni del professor Vassalli e dell'onorevole Mellini hanno fatto eco una serie di pregevoli interventi, che hanno completato e documentato il preoccupante quadro del »caso Italia . A prescindere dalle numerose comunicazioni scritte, di cui si troverà traccia negli atti del convegno, fra i molti interventi orali, tutti interessanti, ricorderò, fra i tanti, - e chiedendo ancora una volta scusa per le involontarie omissioni - oltre a quelli dei professori Chiavario, Scaparone e Pecorella, dell'onorevole Baget Bozzo, degli avvocati Rocco Ventre e Raffaele Della Valle, quelli, particolarmente toccanti, dell'Abbé Pierre e della moglie di Giuliano Naria, detenuto da più anni in attesa di giudizio.

Una segnalazione a parte meritano gli interventi dei tre magistrati, il presidente Battaglini ed i dottori Labozzetta e Drigani - ai quali desidero esprimere un ringraziamento particolare - che, pur intervenendo a titolo strettamente personale, hanno fornito quelle risposte e quei chiarimenti che in parte erano già emersi dagli interventi del professor Chiavario e dalla stessa relazione Vassalli, dando così vita a quella aperta e leale dialettica del confronto che era appunto nei voti dei promotori del convegno.

Detto questo, mi resta ben poco da aggiungere, non potendo far di meglio che associarmi ai rilievi contenuti nelle relazioni introduttive e negli interventi che ad essi hanno fatto seguito. Ma mi pare giusto e doveroso sottolineare che, se oggi parliamo del »caso Italia , è emerso, dai riferimenti di diritto comparato che sono stati fatti da più di un oratore - in particolare dal professor Ancel, dal professor Vassalli e dal professor De Figueiredo - come disfunzioni della giustizia si riscontrino, purtroppo, in quasi tutti i Paesi dell'Europa; e, del resto, dalla stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo emerge in modo evidente come la violazione dei princìpi sanciti dalla Convenzione europea del 1948 non sia una prerogativa del nostro Paese. Se Sparta piange, ahimè!, Messene non balla!

Per concludere, io penso che i punti dolenti della attuale situazione della giustizia penale in Italia possano ricondursi essenzialmente a questi: a) la lentezza dei processi; b) la compressione di alcuni fondamentali diritti individuali e delle garanzie processuali; c) l'eccessivo e non sempre giustificato ricorso alla carcerazione preventiva e la intollerabile durata della stessa; d) il deterioramento del sistema probatorio, soprattutto per effetto della eccessiva rilevanza processuale data alle dichiarazioni dei cosiddetti »pentiti . A determinare queste gravi disfunzioni hanno contribuito la legislazione dell'emergenza da un lato che, dal 1944 in poi, ha progressivamente ristretto lo spazio delle libertà individuali nel processo, con l'introduzione del »fermo di polizia , con l'aumento dei casi di cattura obbligatoria, con i divieti di libertà provvisoria e soprattutto con l'aumento dei termini massimi di carcerazione preventiva; dall'altro l'atteggiamento repressivo ed inquisitorio assunto da una parte

della magistratura, che, sia pure nell'apprezzabile intento di combattere più efficacemente la criminalità organizzata di vario tipo, si è valsa dei propri già ampi poteri in modo eccessivo, tanto da rasentare talvolta l'arbitrio. Ne è derivata quella che è stata giustamente chiamata, da alcuni, una vera e propria »cultura dell'emergenza , con un grave e pericoloso deterioramento dei rapporti tra magistrati e difensori, spesso trattati con diffidenza o guardati addirittura con sospetto, quasi fossero fiancheggiatori dei loro assistiti.

Quanto alla lentezza, può dirsi che si tratta di un tale cronico della giustizia penale italiana, tanto che ad essa possono farsi risalire molti degli altri inconvenienti di cui si è parlato in questi giorni. Così, ad esempio, spesso si afferma - con una inaccettabile inversione logica - che la lunga carcerazione preventiva si giustificherebbe proprio per la eccessiva durata del processo!

Si è già ricordato che lo Stato italiano è stato per ben due volte condannato dalla Corte europea di Strasburgo per la violazione dell'art. 6, n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo cui ogni persona ha diritto di essere giudicato »dans un delai raisonnable ; ed è doveroso riconoscere che le condanne sarebbero state ben maggiori se si fosse fatto più frequente ricorso a questo organo internazionale. Ma abbiamo già osservato che, a parte il ritardo con cui l'Italia ha riconosciuto la clausola del »ricorso individuale , gli effetti di una tale condanna, se hanno un indubbio valore morale e politico per gli Stati contraenti, hanno un limitato interesse per le parti private, nei cui confronti vi è soltanto il riconoscimento di un »indennizzo a carico dello Stato nazionale.

Né vale osservare che la formulazione dell'art. 6, n. 1 della Convenzione è alquanto vaga e si limita a parlare di »termine ragionevole , perché non potrebbe essere usata una espressione diversa, dato che la durata di un processo è certamente variabile a seconda della gravità e complessità della procedura e del numero degli imputati. Del resto, la stessa Corte costituzionale italiana ha più volte fatto riferimento al criterio della »ragionevolezza , come parametro giuridicamente rilevante nella interpretazione ed applicazione delle norme. Ma quando un processo dura anni senza che neppure si compiano atti istruttori oppure se intercorrono lunghi tempi morti fra l'istruzione ed il dibattimento, viene certamente violato non solo il diritto che ogni imputato ha di essere giudicato in tempo ragionevole, ma anche il diritto che ha la società di sapere che il colpevole sia prontamente punito e - a maggior ragione - che l'innocente ingiustamente processato (e il più delle volte anche per lungo tempo detenuto) sia al

più presto prosciolto.

L'ammonimento di Cesare Beccaria, secondo cui non è tanto la severità delle pene che importa ma che esse siano prontamente applicate ai colpevoli è, a questo riguardo, più che mai attuale.

Certo, la responsabilità di questa lentezza del processo non può ascriversi esclusivamente ai magistrati (la pigrizia di alcuni è, infatti, compensata dal lodevole impegno di molti altri), ma deve attribuirsi anche alla deficienza di strutture e di attrezzature adeguate, (si è già ricordata l'esigua parte del bilancio dello Stato, lo 0,75%, riservata al ministero di Giustizia), e, soprattutto, al sopravvivere di un sistema processuale macchinoso e ricco di adempimenti formali, non sempre necessari. E' auspicabile, a questo proposito, che la riforma del processo penale e l'adozione di un sistema a struttura accusatoria, secondo lo schema contenuto nella legge-delega in corso di approvazione da parte del Parlamento, possa consentire - anche mediante previsione di tipi di procedimenti alternativi adeguati alle diverse situazioni processuali - di superare questa grave disfunzione.

Ma la lentezza del processo penale diventa drammatica ed assolutamente intollerabile nei casi in cui il processo si svolga nei confronti di imputati detenuti. A questo riguardo si sovrappongono e si intrecciano i diversi aspetti che sono stati oggetto di particolare attenzione da parte dei relatori e della maggior parte degli interventi, in quanto viene in gioco quel bene fondamentale della libertà personale che è tutelato non solo dall'art. 5 della Convenzione europea ma anche dall'art. 13 della Costituzione italiana.

Le eccessive compressioni della libertà personale sono state prese in considerazione, in questo convegno, sotto un triplice aspetto:

a) la grande facilità con cui si ricorre, in Italia, alla carcerazione preventiva, spesso in violazione - o con una interpretazione estremamente elastica - dei presupposti che sono alla base di questo istituto;

b) la mancata identificazione - o, meglio, la distorta interpretazione - dei fini cui deve tendere la carcerazione preventiva. Troppo spesso si dimentica che questo istituto - che giustamente Carrara definiva »la lebbra del processo penale - pur essendo ammesso in tutte le legislazioni come un male necessario, costituisce pur sempre una eccezione al principio di presunzione di innocenza, dato che si applica a persone che non sono state ancora riconosciute colpevoli.

A questo riguardo è stato giustamente osservato come la condizione dei »sufficienti indizi di reità , richiesta dall'art. 252 del Codice di procedura penale per poter emettere un provvedimento restrittivo della libertà personale, sia spesso elusa o coperta dietro l'esigenza di tutela del segreto istruttorio: per cui, nel timore, anche soltanto immaginato, di un possibile »inquinamento della prova , l'imputato viene privato della libertà personale e mantenuto in stato di detenzione anche dopo compiuti i necessari accertamenti istruttori;

c) la eccessiva e il più delle volte ingiustificata durata della carcerazione preventiva.

Se si pensa che prima della riforma attuata con la legge 28 luglio 1984, n. 398, la carcerazione preventiva poteva raggiungere la durata di dieci anni ed otto mesi, ci si renderà conto come l'istituto venga completamente deformato nelle sue finalità istituzionali e, oltre a trasformarsi in una anticipata esecuzione della pena (il che costituisce già una aberrazione giuridica), finisce per diventare un vero e proprio equivalente della tortura.

Né sono rari i casi in cui, dopo una lunga carcerazione preventiva, segua una sentenza di piena assoluzione. Se a ciò si aggiunge che, secondo la legislazione italiana vigente, l'imputato che abbia subita una ingiusta carcerazione preventiva non ha neppure diritto ad una riparazione - come previsto dall'art. 5 della Convenzione europea - e non può nemmeno far valere la carcerazione preventiva ingiustamente sofferta in caso di altra eventuale condanna penale, si dovrà necessariamente concludere chef legislatore italiano non abbia neppure cercato di attenuare in qualche modo le conseguenze, talora incalcolabili, di chi abbia avuto la sventura di cadere negli ingranaggi della giustizia penale.

Ma la conseguenza più grave e pericolosa dell'uso distorto che si fa della carcerazione preventiva si verifica allorché essa viene utilizzata come mezzo per ottenere la confessione dell'imputato o comunque per acquisire la prova o le prove del reato. Il tema della prova - non lo si dimentichi - resta pur sempre il tema centrale del processo penale, ed anzi il processo stesso riceve la sua connotazione essenziale proprio dai limiti di ammissibilità, dai metodi di assunzione e dai criteri di valutazione della prova.

Giustamente è stata ricordata, nel corso del convegno, la degenerazione del principio del libero convincimento che si è verificata nella giurisprudenza italiana, che lo ha trasformato da principio di libera valutazione della prova legalmente assunta in espediente per dare ingresso, e rilevanza, nel processo penale, a mezzi di prova non espressamente previsti o addirittura esclusi dalla legge, ovvero a prove irritualmente acquisite, (spesso qualificandole inesattamente »indizi e coprendo con questa comoda forma compromissoria la violazione del principio della tassatività dei mezzi di prova nel processo penale). Su questo problema si innesta il tema - su cui si è largamente discusso anche in questo convegno - dei cosiddetti »pentiti . Si può anche accettare che nel diritto penale si innesti un cosiddetto diritto prediale, da valere come connotazione di ravvedimento dell'imputato, purché esso non abbia alcun collegamento con il tema processuale della prova.

Sono questi i punti salienti emersi dal convegno, che stanno ad indicare quella lenta ma strisciante erosione del principio fondamentale della »presunzione d'innocenza , enunciato dall'art. 6, n. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce del quale tutti gli altri princìpi processuali devono essere interpretati ed applicati. Certo - ed è questo un punto al quale anche altri hanno già accennato - nel denunciare le disfunzioni, le manchevolezze e i difetti del nostro sistema e pur segnalando certi casi drammatici che qui sono stati ricordati, occorre guardarsi dalle eccessive generalizzazioni né bisogna obliterare le cause prossime o remote che hanno provocato, o hanno contribuito a determinare, tali situazioni.

Ma, fatta tale doverosa precisazione, resta la necessità di porre tempestivamente un argine a certe tendenze autoritarie e repressive che si riscontrano sia nella legislazione sia nel comportamento di certi magistrati, che fanno un uso non sempre controllato dei loro poteri. Uno dei mezzi per correggere quest'ultima tendenza consiste, a mio avviso, nell'affrontare decisamente il problema della responsabilità del magistrato per gli atti che esorbitano dal corretto uso dei propri poteri. Tale problema, che è da più anni all'attenzione del Parlamento italiano, può essere risolto senza incidere sulla indipendenza della magistratura, sia perché è costituzionalmente garantita, sia perché costituisce essa stessa una fondamentale garanzia per tutti i cittadini. Senza entrare qui nel merito di tale delicato argomento, si può solo dire che una soluzione soddisfacente potrà essere trovata, in Italia, solo con una adeguata riforma del Consiglio superiore della magistratura.

Ma io vorrei concludere questa breve ed affrettata relazione di sintesi con un parola di fiducia e di speranza, che trova conforto in alcune recenti leggi, che segnano in modo abbastanza chiaro una inversione di tendenza rispetto alla »legislazione dell'emergenza proliferata in Italia dal 1974 in poi. Mi riferisco, in particolare, alla legge 24 novembre 1981, n. 689, che ha profondamente innovato il »sistema penale , introducendo tra l'altro, all'art. 77, il cosiddetto »patteggiamento , che consiste nell'applicazione - su richiesta dell'imputato e con il parere favorevole del pubblico ministero - di sanzioni sostitutive della reclusione; alla legge 12 agosto 1982, n. 532, che ha introdotto misure alternative alla carcerazione preventiva (come gli »arresti domiciliari ) ed ha creato un organo, denominato Tribunale della libertà, al quale compete il riesame, anche nel merito, ed in tempi assai brevi, dei provvedimenti restrittivi della libertà personale; ed infine alle leggi n. 397, 398 e 400 del luglio 1984,

che riducono i casi di arresto in flagranza, e diminuiscono i limiti massimi di carcerazione preventiva (denominata, più correttamente, »custodia cautelare onde meglio identificarne la natura e le finalità esclusivamente processuali). In questa prospettiva può forse anche collocarsi l'approvazione, in data 18 luglio 1984, da parte di uno dei rami del Parlamento, del disegno di legge-delega, presentato dal governo per la emanazione del nuovo codice di procedura penale, dove si riafferma l'esigenza di attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi alle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, nonché alle altre norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia, relative ai diritti della persona.

Questo richiamo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo costituisce un impegno non solo per l'Italia ma per tutti i Paesi che hanno ratificato la Convenzione, i quali dovranno uniformare le loro legislazioni a regole comuni, onde porre le basi di quel »diritto europeo che i promotori di questo convegno hanno certamente avuto di mira quando hanno collocato »il caso Italia nel quadro dello »stato della giustizia in Europa .

Da questo convegno deve, pertanto, partire un monito a che ogni violazione di questi principi sia fermamente denunciata, affinché tutti sentano che essi non sono delle mere enunciazioni verbali o delle formule prive di contenuto, ma costituiscono delle realtà saldamente ancorate nella coscienza di ognuno. Solo così la giustizia penale - intesa come sintesi di una legislazione moderna ma anche di operatori rispettosi dei diritti fondamentali dell'uomo - potrà dirsi degna di uno Stato civile e democratico.

PRESIDENTE:

Questo applauso va anche a quelli che hanno ispirato questo convegno. E' la dimostrazione più evidente che questo convegno era utile, che si doveva fare e che doveva portare il suo risultato.

Io mi auguro, a nome di tutti voi, che questo sia solo il primo di una serie di convegni che, tenuti nei giusti binari, porteranno un contributo fondamentale affinché quei valori che così bene ha descritto Domenico Pisapia siano salvaguardati.

Può darsi che qualcuno pensi che i margini della democrazia in Europa siano molto, molto limitati, può darsi che qualcuno mediti su chi ha detto che la democrazia può essere, forse, soltanto una parentesi nel tempo e nello spazio: bene, noi questa parentesi la difenderemo, insieme a coloro che hanno studiato i problemi fondamentali del diritto. Arrivederci a presto.

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