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Marconi Guglielmo - 23 ottobre 1984
IL CASO ITALIA: (40) Normativa premiale in favore di terroristi pentiti e principio del »poenam dignam scelere suscipere
di Guglielmo Marconi - LO STATO DELLA GIUSTIZIA IN EUROPA - I· CONVEGNO

STRASBURGO, 23.24 OTTOBRE 1984 - PARLAMENTO EUROPEO

SOMMARIO: Gli atti del convegno su lo stato della giustizia in Europa "Il caso Italia".

Con questa prima iniziativa, parlamentari di tutte le correnti politiche comunitarie intendono verificare lo stato della giustizia in Europa.

Deroghe nei confronti di alcune garanzie democraticamente poste a tutela dei diritti della persona, sanciti dai trattati comunitari e dalle costituzioni nazionali, si registrano in diversi paesi della comunità europea. Molto spesso queste violazioni delle fondamentali libertà civili sono state giustificate dall'insorgere di forme violente di contestazione politica, dall'esplosione di fenomeni terroristici o dal rafforzamento delle organizzazioni criminali.

Avviare il processo di ristabilimento democratico della legalità compromessa, rappresenta l'impegno dei promotori di queste iniziative.

Il primo caso che viene esaminato è quello italiano. In due giorni di discussione a Strasburgo il 23 e 24 ottobre.

("IL CASO ITALIA", Lo stato della giustizia in Europa - I· Convegno - Strasburgo, 23-24 Ottobre 1984 - Parlamento Europeo - A cura del Comitato per una Giustizia Giusta - Cedam Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova 1985)

GUGLIELMO MARCONI

Normativa premiale in favore di terroristi pentiti e principio del »Poenam dagnam scelere suscipere

Durante la fase della emergenza terroristica sono state introdotte nel nostro sistema penale disposizioni che non a caso sono state giudicate eversive rispetto alla Costituzione. Non si sottraggono di certo a questa etichetta le norme contenute negli artt. 4 e 5 L. 15/80 e, più in particolare, nella L. 304/82, la cui applicazione ha di sovente ingenerato nella pubblica opinione la precisa idea di un generale deterioramento dei principi basilari di giustizia propri di uno Stato di diritto.

Ed invero, quando si abbia riguardo alla normativa in parola non può sfuggirsi alla sensazione che essa ha rappresentato, per un verso, la saldatura logica della strategia di stabilizzazione complessiva del sistema e di produzione di consenso perseguita dall'establishment attraverso lo scambio simbolico tra microgratificazioni e criteri generali di deterrenza (basti qui semplicemente accennare al fatto che la L. 304/82 ha p. es. segnato il momento di sublimazione della tecnica di sperimentazione di strategie alternative a quelle tradizionali fondate sulla pura deterrenza sanzionatoria), e, per altro verso, il portato di un modello istituzionale di controllo che, pur di conseguire il risultato »performativo e roboante della pacificazione sociale non ha esitato a deflettere dai canoni tralatizi della potestà punitiva dello Stato, della non contrattualità dei poteri coercitivi e della risolutezza dell'apparato di fronte ai ricatti della violenza armata.

Sotto diverso, ma parallelo profilo, sembra del pari evidente che l'aggregato normativo di cui si discute, nella misura in cui e servito a delineare una autonoma tipologia d'autore, quella del "seditiosus", sulla quale si sono catalizzate le aggettivazioni e le negatività del nemico dello Stato, per riconnettervi, sulla scorta di ben noti presupposti sostanziali e processuali, la concedibilità di benefici che non trovano eguale rispondenza in altri settori dell'ordinamento penale vigente, ha finito per provocare una sensibile subiettivazione dei principi sui quali tende d'ordinario a regolarsi la fisiologia del rapporto intercorrente tra reato, pena e libertà personale dell'inquisito, alterandone in maniera rimarchevole gli equilibri diacronici.

Il portato di tali scelte, così ampiamente conosciute e discusse da non necessitare di ulteriori specificazioni, si è precipuamente avvertito e sostanziato in una serie di aperture premiali il cui innesco e sempre determinato da un improprio meccanismo di "Selbstbekenntniss" processuale.

E' in realtà oltremodo noto che le condotte definite di »recesso , di dissociazione, di »collaborazione , anziché essere apprezzate e rimunerate sul piano pratico come prodotto di sintesi di una attività antagonistico-contrannitente rispetto a quella punita, e teleologicamente orientata verso la dissoluzione delle conseguenze lesive del fatto criminoso, hanno funzionato (e funzionano per quel che concerne la parte di normativa rimasta in vigore) in termini assolutamente eccentrici al piano della offesa e sono state incoraggiate, essenzialmente, come controprova di una »scelta di campo e come abiura del precipitato criminale che si addita a negazione delle regole di democrazia costituzionale.

Da questo angolo prospettico, orbene, si è davvero assistito ad una inversione di tendenza nei confronti della stessa legislazione fascista, proprio perché la legislazione in oggetto ha valorizzato come avvenimento reintegratorio molto più la "Gesinnung" penitenziale e le motivazioni intime del recedente, che l'aspetto obiettivo della riparazione e composizione del danno criminale cagionato.

Sta di fatto, insomma, che le disposizioni di cui si tratta, nel focalizzare l'immagine reale di detto cambiamento sulle esponenzialità subiettive della resipiscenza, piuttosto che sulla sua efficacia causale dirimente, si sono prestate (e si prestano) ad incentivare, con la conversione morale del reo, una sua attività processuale supererogatoria, allo stesso tempo funzionale alla repressione dei »nemici dello Stato e dimostrativa di una pubblica autoidentificazione con le ragioni del sistema istituzionale e con i criteri di stabilità e sicurezza democratica che costituiscono la antitesi delle precedenti velleità eversive del ravveduto.

La logica del premio, perciò, si giustappone costantemente nelle previsioni di cui agli artt. 4, 5 L. 15/80, 1, 3, 6 L. 304/82 a quella della coadiuvazione della »accusa filtrata essenzialmente attraverso comportamenti delatori. A giustificare i quali non può certo bastare la scusante per la quale l'onere di fornire informazioni et similia agli inquirenti sarebbe imposto soprattutto dalla preoccupazione di non lasciare spazi a fenomeni di metanoia ridotti ad afflato meramente labiale, oltreché al correlativo intento di rendere gli atti di recesso apprezzabili nella loro autenticità sulla base di un indice di valutazioni che possiede una rispondenza oggettiva; perché appare altrettanto innegabile che la richiesta della condotta exomologetica, dalla quale dipende la applicazione dei benefici ammessi per legge, è per lo più strumentale a ragioni di pura opportunità inquisitoria. E ciò vale così per le ipotesi che sono state attagliate ai terroristi marginali, come pure, ed a "fortiori", per le ipotesi che defi

niscono i casi di dissociazione e collaborazione.

Ed anzi, l'enfasi con la quale proprio in queste disposizioni si è proposta la figura del terrorista pentito come modello positivo di riferimento denota ampiamente come il legislatore si sia qui posto a ricalcare i tratti di una "gehenne" di antica memoria nella quale si propone al reo come immediata soluzione salvifica, ed in segno di autosottomissione penitente, la confessione e l'obbligo della testimonianza contro se e contro altri correi.

A ben vedere, quindi, non può seriamente dubitarsi della connotazione contrattualistica che permea le previsioni legali richiamate. Né, d'altronde, può contestarsi che il meccanismo premiale di cui si è sottolineata la eteronomia è governato appieno dal rapporto di corrispondenza intercedente fra premio e livello dei servigi resi in sede processuale nell'accertamento di circostanze e di responsabilità penali. Ed ancora, merita di essere rimarcato che l'effetto più rilevante di detto meccanismo abbia finito (e finisca) per esercitarsi in modo assai appariscente sul principio di proporzionalità della pena rispetto al reato commesso, provocandone il totale scadimento.

E' infatti ampiamente riscontrabile come le riduzioni del carico sanzionatorio consentite siano state graduate sulla scala del contributo informativo fornito. Sicché, le une divengono (ma in questo caso sarebbe meglio dire divenivano) tanto maggiori, quanto più ampio e dettagliato risulta l'altro. E tanto più consistente si appalesa il contributo, quanto più importante e prolungato è stato il ruolo svolto dal pentito nella realizzazione degli illeciti a sfondo eversivo realizzati dall'organismo di appartenenza. Così che, in buona sostanza, il plafond dei benefici e delle ricompense tocca (ed e toccato finora) al reo che abbia raggiunto il massimo stadio della compromissione terroristica e che abbia successivamente mostrato grandissima, quasi illimitata, disponibilità al "judicial agreement"; mentre l'esatto contrario avviene nei riguardi di chi sia stato solo limitatamente coinvolto nella commissione dei reati-fine mandati ad effetto dal gruppo, o il cui recesso dal sodalizio criminale risalga a più antica d

ata.

Il vero e quindi che mediante disposizioni del tipo di quelle più volte richiamate si è data la stura alla più deleteria applicazione di un genere di normativa premiale che, basandosi sulla logica della »salus reipublicae suprema lex esto , ha garantito il contenimento radicale delle pene, e per l'incontro l'estensione di ragguardevoli benefici processuali, proprio a quella genia di terroristi che, per la natura dei crimini commessi, avrebbero dovuto considerarsi in sommo grado pericolosi per il consesso civile: ed ai quali viene invece riconosciuto il massimo delle gratificazioni consentite per legge, a condizione che siano in grado di prestare quella collaborazione definita ora rilevante, ora decisiva, ora eccezionale.

In guisa di ciò si è verificato un complessivo ribaltamento del principio del »poenam dignam scelere suscipere , al quale fa preciso riscontro la rarefazione delle linee che individuano le figure normative corrispondenti alle diverse categorie di »pentiti delineate dal legislatore.

La aleatorietà del paradigma premiale si coniuga così assai bene e con la tecnica descrittiva adottata nella definizione delle fattispecie delittuose previste dagli articoli 270, 270 bis, 305, 306 c.p., e, vieppiù, con la dinamica del ravvedimento, che, passato al vaglio del caleidoscopio processuale, trarrà seco la qualifica di »rilevante , »decisivo , »eccezionale .

Sembra pertanto assolutamente pertinente la asserzione secondo la quale l'incertezza delle figure normative è in realtà l'unico strumento atto a consentire forti margini di intervento inquisitorio, producendo nello stesso tempo due importanti fenomeni: il primo è quello di una sorta di »potere di grazia del giudice; il secondo è quello del riconoscimento di un improprio "plea bargaining".

Per quel che concerne il primo aspetto, esso testimonia della attribuzione al giudice di un enorme sovraccarico di decisionalità discrezionale che, se rafforza la valenza inquisitoria di un modello istituzionale di processo incentrato sul canone politico della ragion di Stato e sacralizza alla stregua di "autodafé" le chiamate di correo, perde per converso di significato come luogo di coltura delle garanzie costituzionali attinenti ai "due process".

Il secondo aspetto sottolinea, in contrasto con la rigidità quantitativa delle riduzioni di pena previste e con l'indeterminatezza dei presupposti ai quali si aggancia l'entità effettiva del pentimento, il potere di sindacato, scevro da ogni limite che non sia imposto dagli spazi della contrattazione, lasciato al giudice in vista del dimensionamento qualitativo del fatto di resipiscenza che si trova a considerare. La contrattazione, perciò, proprio perché gestita nel chiuso del segreto istruttorio, non solo diventa l'asse portante dell'intero snodarsi delle successive fasi processuali (e in primo luogo di quella dibattimentale, dove la semplice messa in dubbio della prova testimoniale fornita dal ravveduto rischia di far crollare l'intero castello accusatorio), ma assume oggettivamente un indefinito carattere polifunzionale senza argini di legalità normativa che diano garanzie agli imputati e certezza al lavoro dei magistrati.

Di contro, si rafforza la sensazione che per tal via si possono creare forti diseguaglianze tra imputati che hanno scelto di collaborare con la giustizia e quanti altri abbiano rifiutato in tutto o in parte tale prospettiva. Su questi ultimi, infatti, si fa incombente il rischio di una sovrapposizione dei livelli di colpevolezza: per il crimine commesso e per la mancata conversione. Quando ciò si è verificato la coerenza stessa dell'ordinamento è entrata profondamente in crisi (es. caso Tobagi, laddove Barbone ha usufruito del trattamento previsto per i pentiti »eccezionali e conseguentemente del beneficio della libertà provvisoria, e Francesco Giordano, pur esprimendo il proprio totale distacco dall'esperienza pregressa e tutto il suo dolore per il male causato ai parenti della vittima, si è visto condannare a 30 anni ed 8 mesi di reclusione dalla Corte di assise di Milano, in ragione della assurda ed inevitabile contrapposizione dicotomica tra pentiti ed irriducibili).

Non a caso dunque gli stessi magistrati lamentano oggi i rischi connessi alla giurisdizionalizzazione del pentitismo.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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