di Enzo TortoraSOMMARIO: Dopo il tramonto dell'art. 90, una circolare ministeriale centellina sui chili dei pacchi e toglie minuti ai colloqui dei detenuti con i parenti. Insieme alla collega Aglietta, in seguito ad una visita all'Ucciardone, ci siamo recati dal ministro Martinazzoli per denunciare diversi motivi di doglianza: trasferimenti brutali, così improvvisi da non lasciare neanche il tempo per avvertire i parenti o il legale; situazione sanitaria addirittura indegna; rifiuto delle strutture del territorio di ospedalizzare detenuti malati, cosicché tre detenuti negli ultimi tempi sono morti per mancanza di cure; improvviso stop da parte delle autorità giudiziarie di applicazione delle forme alternative di detenzione. Abbiamo avuto in risposta generici impegni e la promessa dell'abolizione della circolare ministeriale. Tuttavia, ciò contro cui si deve lottare è una giustizia che sulla base di un pentito consente che rimangano in carcere centinaia di persone, è lo sfascio e lo sconquasso del nostro sistema giudiziario
del quale, almeno a parole, oggi sembra rendersi conto anche Andreotti.
(NOTIZIE RADICALI N. 74, 10 maggio 1984)
(Dopo molte parole e grandi promesse, dopo il tramonto dell'articolo 90 una circolare ministeriale decide quanto deve pesare il "pacco detenuti". Un'offesa usuraria alla già orribile condizione di vita e di socialità nelle carceri. Dall'Ucciardone agli altri penitenziari, la protesta civile e univoca. Sono ricominciati i trasferimenti improvvisi ed immotivati. La situazione sanitaria è drammatica: tre morti fra l'indifferenza generale.)
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Ma a che serve, la bilancia della giustizia? Se è ridotta
davvero a pesare come quelle di un bottegaio i tre chili di alimentari o di vestiario che un'insensata circolare del ministero intende stabilire come "tetto" ai pacchi dei detenuti? Sta accadendo qualcosa di demenziale, in questi giorni, nel pianeta carcere. Dopo lo strombazzato tramonto, o per lo meno l'annunciato non rinnovo del famigerato "articolo novanta" (al congresso noi radicali lo salutammo come una prima svolta di civiltà), dopo tante belle parole e convinte promesse sul ritorno del sistema carcerario a principi di umanità e di diritto, eccoti fresco fresco il benservito. Una circolare ministeriale, ripeto, di tipo così stolidamente usurario (si centellina sui chili dei pacchi, si toglie un quarto d'ora ai colloqui) da riproporre con violenza la domanda che ho posto all'inizio: ma a che cosa si sono ridotte le sacre, impassibili bilance della Giustizia? Già era, ed è sufficiente, buttare su uno dei piatti la parola di un "pentito", perché tutto pesasse solo da "quella parte", e il processo penale a
cquistasse il sapore di un perverso, tragico e irridente rito. Ma ecco che le bilance della Giustizia non solo s'umiliano a pesare mezz'etto di mortadella in più o in meno come, ripeto, quelle dei bottegai: ma assumono anche la degradante funzione (vedi caso Naria) di pesare i corpi, o meglio gli scheletri dei detenuti, informandoci che l'attuale, inesistente struttura corporea di Giuliano Naria (ma l'hanno visitato, lorsignori, questo relitto umano, nell'ospedale di Parma?) è dovuta a un semplice "calo d'obesità". Era evidente che, nelle carceri (tutte: da quelle piemontesi a quelle siciliane) si riaccendesse, civilmente contenuta, e con norme rigorosamente nonviolente, la protesta. Con il segretario Giovanni Negri mi sono recato all'Ucciardone, dove folle di familiari esasperati sostavano davanti a quella prigione che rappresenta, in negativo, tutti i record di inabitabilità, di invivibilità del sistema carcerario italiano. Abbiamo incontrato, in un clima di grande, composta civiltà (che lezione, per certi
disinvolti pennivendoli!) una delegazione che ci ha informati sui motivi, più che legittimi, delle doglianze. Proviamo a riassumerli? Trasferimenti brutali, improvvisi, immotivati (oltre duecento negli ultimi tempi) di detenuti che vengono catapultati da un momento all'altro, e senza possibilità di avvisare un familiare, oppure un legale, a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dai loro cari. Non sempre quelle "ragioni di giustizia" che un magistrato può, legittimamente, invocare, si ha la sensazione che stiano alla radice di certi esodi dolorosi e sconvolgenti. Situazione sanitaria: addirittura indegna. Rifiuto delle strutture del cosiddetto "territorio" di ospitare o di ospedalizzare detenuti ammalati: ne sono morti recentemente tre. Fra l'indifferenza generale. Improvviso stop, da parte delle autorità giudiziarie, di applicazione di tutte quelle forme alternative della detenzione, pure esistenti nella legge, e alle quali numerosissimi detenuti avrebbero diritto di aspirare.
Ci siamo recati con la compagna Aglietta dal ministro Martinazzoli: e abbiamo puntualmente riferito ciò che, con dolore, avevamo visto. Premettendo anche che era nostra sensazione che non fosse tollerabile rispondere, con la brutalità di certe circolari, a un composto e democratico colloquio che pure i detenuti italiani cercano, ormai da tempo, di coltivare con i responsabili della politica nazionale. Altri rappresentanti di partiti, in commissione giustizia, hanno ascoltato (e spero condiviso) il nostro appassionato rapporto. Risultati? Per il momento, a parte i generici impegni (una commissione di controllo verrà inviata all'Ucciardone per verificare le condizioni sanitarie: noi ne proponiamo l'estensione a tutte le carceri italiane), il demenziale "tetto" dei pacchi viene alzato da tre a cinque chilogrammi (siamo sempre alle bilance del salumaio!) e c'è speranza, per non dire certezza, che questa circolare venga, di fatto, abolita. Ma c'è dell'altro, sul tappeto.
C'è il decreto, di squisito stampo repressivo, che ritarda l'applicazione della nuova legge sulla carcerazione preventiva, di circa un anno. Classico esempio di una classe politica che disattende e smentisce la sera ciò che ha fatto la mattina, in nome di malintesi concetti di "difesa sociale". Alle parole del ministro "verranno negati i benefici della nuova legge solo ai responsabili di delitti gravi", io ho replicato di essere, personalmente, non responsabile, ma "imputato" di delitti gravissimi e infamanti. E ho detto, con chiarezza, a Martinazzoli, che il problema stava nel vedere non tanto la gravità dei reati, ma la qualità di chi me li imputava: un pazzo criminale, un cosiddetto "pentito". Imbarazzo diffuso. Sulla parola di un pentito possono restare in carcere centinaia di persone? Ritengo che non si possa, bellamente, beffare la giustizia (quella vera) trincerandosi dietro alibi dialettici. Ritengo non sia degno della repubblica giocare con la pazienza e la tolleranza di chi soffre, spesso indebitam
ente, per lo sfascio e per lo sconquasso del nostro sistema giudiziario. Ritengo che un'opera assidua, continua, di vigilanza e di informazione sul mondo del carcere sia non solo doverosa, ma improrogabile.
C'è odore, anzi c'è lezzo, di elezioni amministrative. E vedrete che tra le promesse dei buffoni della partitocrazia, insieme allo stadio nuovo, per le smemoranti partite di pallone, usciranno promesso per chi sta dentro, nell'inferno carcerario italiano. Qualcosa però si muove. Perfino l'onorevole Andreotti ha scoperto l'acqua calda. L'altro giorno ha detto, più o meno, nella sua autodifesa alla Camera: ho avvertito quanto fragile e impotente deve sentirsi il comune cittadino davanti a certe forme di ingiustizia, se basta la parola di un delinquente a offuscare e spezzare tutta una vita di onesto lavoro. Lasciamo perdere l'"onesto" in bocca democristiana. Ma l'onorevole Andreotti, folgorato sulla via di Damasco da questa umile verità (per i cittadini comuni non si chiede neppure l'autorizzazione a procedere: "si procede") deve rendersi una buona volta conto che per noi non esiste neppure il conforto di essere giudicati innocenti o colpevoli dai compari per alzata di mano, o con la conta di palline bianche o
di palline nere. A certi riti barbari e disgustosi di "giustizia politica" (parodia della giustizia vera) si mette una buona volta fine. E si affronti da uomini, e non da privilegiati, il problema atroce dello Stato di diritto in questo povero paese che naufraga nella cultura del privilegio e del disprezzo.
A noi non interessano gli onorevoli o i ministri, anche se tardivamente "pentiti". A noi radicali interessano i cittadini.