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Bandinelli Angiolo - 1 gennaio 1985
Il Progressista. Storie degli anni '30
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO. Ripercorre il percorso storico ed ideologico dell'intellettuale italiano dal fascismo all'antifascismo. Inizia con il ritratto di un personaggio reale, l'intellettuale comunista romano (incontrato ad un dibattito del festival dell'"Unità") "ultimo superstite del gruppo che, a cavallo della guerra, creò e resse il partito" a Roma. Come gli altri membri del gruppo, nacque "nei luoghi deputati della cultura e della politica" della Roma degli anni '30, uno tra gli intellettuali, già "organici" al "Politico", dominati da Bottai. L'a. ne tratteggia un gustoso e vivo profilo, che si espande fino a divenire giudizio su ambienti e caratteristiche della capitale in anni decisivi del suo sviluppo.

All'origine di questo fenomeno degli intellettuali fascisti c'è, egli afferma, il GUF, l'organismo ubniversitario fascista, nato forse per fronteggiare la crescita poderosa dell'associazionismo cattolico e una certa vivace rinascita di pensiero "liberal" che trovava persino, nella Scuola Normale di Pisa e nella Enciclopedia Treccani, qualche nicchia di positiva sopravvivenza e sviluppo. Il GUF è lo strumento posto in essere dal fascismo per assicurarsi il controllo delle future classi dirigenti. Ma è da questa struttura che, alla fine, nascerà la classe dirigente e politica del dopoguerra e del dopo/anti/fascismo. Essa prolungherà e farà sviluppare, anche nel nuovo clima, i temi e i valori su cui si era formata, valori che si possono racchiudere nella formula del "superamento del liberalismo", nell'"incontro con la cultura cattolica" e nella teorizzazione del corporativismo. Il suo apprendistato si farà nelle aule universitarie, ma essa si proietterà presto al difuori - alla conquista degli "strumenti modern

i del consenso" - nella scalata al Politico e al nuovo Potere che si forma ed espande (cavalcando e assorbendo il precedente associazionismo socialista o cattolico e dando persino vita ad una nuova lingua, la lingua della "Nazione" totalitaria) a partire dalle forme di economia pubblica sviluppatesi per garantire allo Stato le risorse necessarie alla sua politica di potenza nazionale.

Nel paese divenuto totalitario sopravvivono isole di cultura liberale, cui Mussolini guarderà ad un certo punto con interesse puntando su di esse parte delle sue chances di governo. L'accostamento e l'intreccio sono resi possibili da una comune preoccupazione, quella del comunismo montante nell'Unione Sovietica e in altri paesi europei.

In questo intreccio di problemi si sviluppa la figura dell'intellettuale degli anni '30, protagonista della storia del secolo, persino nel suo passare senza soluzione di continuità dall'obbedienza fascista a quella comunista.

(LA PALLACORDA, bimestrale, Torino, 1· semestre 1985 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)

Roma, settembre 1984. Festa dell'Unità. Rivediamo una vecchia conoscenza. E l'intellettuale comunista che ora prende la parola nel dibattito indetto per discutere dei mali di Roma. Un piccolo tronco un po' rugoso, ma con occhi ancora brillanti, la voce pepata.

E forse l'ultimo superstite del gruppo che, a cavallo della guerra, creò e resse il partito in questa città. Fu dopo, per anni, un gruppo non solo autorevole, ma caratterizzato e distinguibile per una sua fisionomia che si stagliava nella topografia del partito. Non ne conosco gli altri esponenti, ma penso abbiano matrici parallele, col primo giovanile affacciarsi e affermarsi nei luoghi deputati della cultura e della politica degli anni '30, Bragaglia, il GUF, le redazioni di Tevere e di Quadrivio - la rivista che anticipa Il Mondo, oggi introvabile - i caffè, le Quadriennali. Qualche puntata sulla nascente Cinecittà. I dibattiti sull'arte (molto importanti, all'epoca), la disputa sull'idealismo - Croce o Gentile? - denso di ammiccamenti. Su tutto, l'ombra di Bottai, il gran lusingatore.

Una minuscola e minuta cronaca da ricostruire pazientemente, anche se con scarse speranze. Questi posti, questi ambienti bazzicavano coloro che si scoprivano allora a Roma, con loro stessa meraviglia e nel disorientamento scandalizzato delle generazioni appena più avanti negli anni, intellettuali, ma non sapevano di essere già intellettuali organici (nessuna notizia, ovviamente, del detenuto Gramsci): una specie umana molto vitale, nella storia della mediaborghesia della metà del secolo, gonfia di miti già "progressisti", sottilmente erede, con le sue speranze palingenetiche, del manganello troppo rozzamente fascista: essa lascerà infatti il suo marchio indelebile sul linguaggio e sulla prassi del Politico, per decenni a venire. Fascisti, antifascisti, doppiogiochisti? Tutto, sia quando ortodossi sia quando facevano l'opposizione (che però veniva chiamata fronda): perché questi promettenti intellettuali erano contemporaneamente dentro e fuori del Palazzo, le cui fondamenta venivano erette in quegli anni e pr

oprio da questi intellettuali. Anche nell'ipotesi, alquanto vaga, di caduta del fascismo, le primogeniture erano già state loro garantite.

Il vecchio comunista che dibatte su Roma sembra restituirci, come un limone spremuto, la quintessenza di quell'ambiente e di quei gruppi; anzi si direbbe che, con naturalezza o attento studio, ci tenga a mantenere vive certe stimmate, certi segni caratterizzanti, cifrati e gergali. Vi sono reduci che ostentano come bambini le medaglie della loro lontana ed ultima guerra; servono a garantirgli il vitalizio di qualche penoso diritto, fosse solo quello di poter occupare in autobus il sedile con la targhetta "riservato agli invalidi civili e di guerra"; cianfrusaglie, cui però tengono con patetico accanimento, con arteriosclerotica paranoia. Accanto a questi, vi sono i reduci che esibiscono il loro passato con sguaiatezza ancora prepotente. Come costui, che partecipa alla serale tavola rotonda della Festa di partito e ancora ritma impudicamente la sua cadenza dialettale romanesca, la gesticolazione enfatica: una sorta di lasciapassare a scadenza indefinita, che bisogna tollerare, e guai a protestare. Per quarant

a lunghi anni egli ha gestito con spregiudicatezza tali suoi dati ormai fisiognomici, pervicacemente convinto che il loro sbandieramento gli accatterà comunque e sempre la sua utile razione di applausi, e di voti, intellettuali o di periferia (a Roma, i due ambienti si intrecciano abbastanza bene).

Con questi mezzi ha rappresentato per il partito oltreché nel partito (quasi in forma di malcelato ricatto) una forza, seppur solo a livello locale. Lo si avverte pronto, quando costretto a un braccio di ferro e nel timore di essere sconfitto, a una sceneggiata in cui esibisca tutti gli artifici mimici della sua plebea romanità; fino all'insulto, alla offesa, alla parolaccia che intimidisce e allontana. Armi pericolosissime nel clima romano, così "complice" una volta che abbia incontrato ed eletto un personaggio nel quale la gente possa identificarsi e assieme al quale incanaglirsi: forse poiché in poche altre città come questa, moltiplicatasi nell'immigrazione, la gente (su fino alla piccola e media borghesia) è povera di identità collettiva, e deve quotidianamente rinforzarla attraverso l'esibizione - che diviene, così, cultura - della mimica, del linguaggio, del gergo cui viene attribuita la virtù tonificante di concedere l'ambita identificazione col gruppo egemone; ed è forse per questo che il dialetto

romano è così greve, così "imitato", così sforzato e ammiccante.

Certo, la sgradevolezza del personaggio è unica. Sembra quasi che i consensi che riesce ancora a raccogliere attorno a sé anche in questo Festival siano fondati, paradossalmente, sull'antipatia che da lui sprigiona e sulla sua ricattatoria ineluttabilità.

* * *

La sociologia, o meglio l'antropologia della sinistra progressista è un elemento di portata rilevante, se non determinante, nelle cronache se non nella storia dell'ltalia postbellica. Ma il momento in cui questo ceto si organizza va cercato negli anni che vanno dalla guerra d'Africa alla seconda guerra mondiale. In questo giro di anni una buona parte dei giovani intellettuali che emergono in questa o quella sede universitaria, con questa o quella rivistina letteraria o artistica (fiorentina o provinciale), per motivi diversi e in vari modo comincia a guardare con occhio disincantato e critico al regime. Tra poco si saluteranno, prenderanno strade diverse, diverranno persino l'un l'altro nemici ma per ritrovarsi presto tutti, dopo la breve diaspora, alla Costituente e dintorni.

Il GUF, l'organismo universitario fascista, è il serbatoio per la formazione delle nuove leve dirigenti. Sarebbe interessante verificare se e in che misura questo associazionismo abbia adempiuto in particolare al compito di fronteggiare la defascistizzazione della classe dirigente al potere, conseguenza della immissione nel circuito politico di forti nuclei di provenienza cattolica o, in senso lato, liberale. Da una parte le robuste organizzazioni chiesastiche danno corpo e spessore politico alla ripresa teorica del tomismo, dentro e fuori la Cattolica; dall'altra parte entra nel conto una nuova fioritura di pensiero genericamente idealista, a volte persino marcatamente crociano, "liberal", che esercita una influenza non trascurabile nei ristretti circoli dove "si fa politica". L'Enciclopedia Italiana, la Scuola Normale di Pisa vanno svolgendo il ruolo di camere di compensazione nelle quali viene a sperimentarsi la commistione (e, certo, il confronto) tra il fascismo "duro e puro" e queste nuove forze ideali

, una convivenza cui troppo facilmente si applica l'etichetta di "tecnica". Sarà pur vero che le consulenze, i contributi e le collaborazioni sono offerte, e accolte, dietro tale finzione; ma la realtà resta, di una classe dirigente e politica sempre più apertamente variegata e ricca di spinte diverse, contraddittorie e confuse, in parte anche dichiaratamente anti- o a-fascista ma tuttavia non aliena dal prestare il proprio servizio al paese nel clima acceso della guerra "nazionale", la guerra d'Africa, punto alto del coagulo del consenso alla politica mussoliniana. Non è impossibile pensare che il fascismo avverta la pericolosità, nel lungo periodo, di quella liberalizzazione e della fronda che vi prende piede, e cerchi di rispondervi concentrando i propri sforzi su alcune roccaforti ideologiche, gestite in proprio, che siano i serbatoi del futuro della rivoluzione; forse va vista anche in questa ottica la creazione della Scuola di Mistica fascista, o appunto del GUF, che certamente raccoglie il meglio dell

a "nuova classe" .

Ma è da qui che, imprevedibilmente, escono anche i quadri più prestigiosi dell'antifascismo militante, della classe politica post- e antifascista, e in particolare il nucleo centrale dell'intellighenzia progressista di questi decenni; è qui che persino si rintracciano, in germe, i suoi linguaggi, i suoi miti, i suoi dibattiti interni (spesso, per chi non è stato nella cerchia, cifrati e incomprensibili, fino ai nostri giorni, o quasi): qui nascono il "superamento" del liberalismo e la "terza via", la cultura organicista dello Stato e del Politico, il populismo e il neorealismo, un certo americanismo che esploderà e dilagherà nel dopoguerra; la nuova attenzione alla cultura cattolica, l'incontro con la sua antropologia, il "dialogo" con la sua teologia; la mistica della classe, del lavoro, certo pansindacalismo, ecc.

E una cultura, quella del fascismo anni '30, che non solo vive nelle aule universitarie, ma si proietta all'avida conquista degli strumenti moderni del consenso, la grande, straordinaria categoria del Potere, l'affascinante moloch che insidia e condiziona le menti di questa nuova borghesia "pubblica" cui spetta il gravosissimo compito di interpretare le diverse facce dello Stato che sta sorgendo nell'ambito del Moderno. Questo Stato totalitario non può più fare ricorso al manganello e alla sua primitiva violenza; se non altro perché i ceti subproletari e contadini stanno se non scomparendo certamente assimilandosi, almeno in parte, grazie all'opera capillare e colossale della propaganda fascista e dei suoi strumenti, che hanno ricondotto allo Stato e alla Nazione le migliaia e migliaia di piccole e grandi forme associative socialiste, cattoliche, anarchiche o repubblicane che tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale costituivano un potenziale "libertario", temutissimo e pericoloso. Il reticolo dei m

ass-media, dai giornali al cinema, viene così profondamente penetrato e occupato dal fascismo; le "veline" di cui ci siamo fatti scandalo e di cui abbiamo riso non sono che l'ultima manifestazione, l'ultimo effetto del profondo e intenso dialogo che il potere centrale irradia attraverso il paese.

La lingua di cui quelle veline, le veline del Minculpop, sono impastate è la lingua orwelliana, una lingua artificiale e strumentale. Di questa strumentalità, della strumentalizzazione generale di ogni aspetto dell'immaginario collettivo di quegli anni ci si è fatti e ci si fa ancora meraviglia; ci si domanda come sia stato possibile che migliaia di intellettuali abbiano potuto credere, obbedire e combattere sull'onda di raffigurazioni e affabulazioni infantili quanto stupide. Ci si dimentica che analoghi processi di "riduzione" del linguaggio sono stati largamente diffusi dovunque, in tutti i paesi emergenti e in quello che dopotutto è stato definito il secolo delle ideologie manipolatrici; e che questo è il dramma di tutti i sistemi linguistici contemporanei: dover scoprire l'assoluta artificiosità e convenzionalità delle proprie strutture, definitivamente disancorate da ogni radice naturalistica. E invece bisogna riconoscere che la semplificazione, l'irrigidimento, la torsione espressionista dello slogan

fascista sono adeguati al compito cui devono assolvere, di penetrare capillarmente nel paese. Con errori, con cadute nel grottesco più plateale, questi slogan plasmano importanti direttrici di fondo del simbolico, dell'immaginario collettivo, per una generazione e forse più: la Nazione prende corpo così, integrando a sé la riottosità contadina dell'antichissimo mondo cattolico, trascinato faticosamente fuori del suo cosmo primitivo e magico e portato finalmente a confrontarsi con lo Stato moderno, sul terreno del nuovo modello di potere, certamente non instaurato "per grazia di Dio", e con tanti saluti al cardinal Ruffo; o dando dignità ai confusi conati di crescita dei ceti medi in dilatazione.

Questi si sono sviluppati senza che un Gogol o un Cechov ne interpreti il grottesco e le frustrazioni, cosicché Mussolini poté essere "piccolo borghese" senza autoironia; ma rappresentano una massa imponente e necessaria dell'edificio statuale. La carenza di capitale privato, imprenditoriale, di rischio, borghese e liberale hanno da tempo (almeno dal tempo eccezionale della guerra, la prima guerra mondiale) costretto lo Stato ad una supplenza grandiosa e prima mai esperimentata: occorre sempre più sviluppare la raccolta forzata di capitale (quindi capitale pubblico) e provvedere alla sua redistribuzione strategica. La definizione politica di questa strategia è dettata dalle esigenze dell'ideologia nazionalista (che è non invenzione provinciale Italiana, quanto piuttosto struttura forte del secolo), ma ricade su una classe dirigente nuova e impreparata, sulla quale pesa poi anche l'onere della successiva gestione di queste risorse attraverso i mille Enti (poi diverranno "inutili") per mezzo dei quali, in dife

tto di un sistema bancario borghese, il capitale di Stato raggiunge bene o male le sue mille destinazioni. Da questa commistione di responsabilità, inevitabile viste le premesse storiche che l'hanno prodotta, nasce la corruzione che contrassegnerà da allora in poi questi carrozzoni. Il nuovo Stato totalitario, in grazia di tali operazioni (tutte giocate nella sfera del Politico) può finalmente caratterizzarsi (checché ne dicano gli storici) non come mero Stato di polizia o Stato dei mazzieri giolittiani. La mutazione genetica dello Stato pone dinanzi alle sue responsabilità infine, e alle sue debolezze se non ai suoi fallimenti, l'intellettualità liberale che, pur esigua, è presente, e nobilmente, lungo una grande, storica tradizione faticosamente mantenutasi, in secoli bui e nell'isolamento più penoso. Dinanzi alla "calata degli Hyksos", con i loro linguaggi sguaiati, incomprensibili e aggressivi, il ceto liberale reagisce con dignità ma, bisogna pur riconoscerlo, non raccoglie che raramente la sfida all'op

posizione frontale. Quando non accettano il compromesso, i suoi rappresentanti si chiudono in un isolamento un po' stizzoso, che certamente potrà apparire ai loro stessi figli, all'interno delle loro stesse famiglie, risposta inadeguata, persino vile e inaccettabile per chi senta scorrere nelle sue vene il sangue ardente di una gioventù cui il secolo, le circostanze, lo stesso regime promettono a ogni piè sospinto allettanti, anche se vaghe e forse provinciali, avventure ("Really, I'm in the wrong sector of the right side", il partigiano Johnny avrebbe potuto dirlo dieci anni prima).

A parte gli irreducibili, un pugno di testardi maniaci espatriati o chiusi in anguste celle di prigione, questi liberali si sforzano di mantenere distinta l'immagine dello Stato da quella del nuovo Potere. E' il loro grande errore teorico. La distinzione in parte è ambigua, dettata dall'antica consuetudine di questi ceti alla "dissimulazione onesta", l'atteggiamento morale che ha forse consentito nei secoli il vivacchiare qua e là di isole "europee" in un paese chiuso al mondo moderno e al suo dibattito; in parte, però, essa va fatta risalire alle caratteristiche stesse dello scontro avutosi tra il fascismo e la sua Italia "di Vittorio Veneto", e le vecchie caste e ceti; di queste caratteristiche Mussolini è acutamente consapevole, e sarà lui il primo ad accantonare il "fascismo", il partito, quando necessario, per governare il paese attraverso un sostanziale accordo con quei ceti e la loro cultura: un'operazione che sarebbe sciocco continuare a denunciare come prova della identificazione tra fascismo e capi

tale. Mussolini compie un'operazione di rilievo, anche se magari egli stesso è consapevole che i suoi esiti potranno essergli fatali (come puntualmente accadrà). Così, esponenti primari di quei ceti entrano ed escono dalla cerchia del governo e dell'economia, profondamente convinti di star compiendo, anche se in orbace, un imprescindibile dovere civico.

In parte, infine, dell'ambiguità di questa risposta va fatto responsabile un anticomunismo che è non solo profondamente sentito ma persino motivato: perché occorre dire (e oggi è possibile farlo con maggiore franchezza) che l'accreditamento del comunismo come sbocco alle speranze di liberazione del mondo è molto posteriore a questi anni. Non occorreva essere biecamente reazionari, negli anni '30, per nutrire serie perplessità verso gli sviluppi staliniani della rivoluzione di ottobre. La vera svolta si ha, ma solo per certi aspetti, con la guerra di Spagna. E infatti gli anni trenta (la seconda metà degli anni trenta) sono percorsi, non solo in Italia ma a livello europeo, da un dibattito grandioso, in alcune sue punte drammatico, che coinvolge e travolge gli intellettuali in un confronto su vasta scala: con tragedie e smarrimenti, drammi e incomprensioni da riempirne pagine splendide di storia civile e culturale. Di fronte all'avanzare delle nuove forme del Potere, così diverso da quello che è stato proprio

dei vecchi, scalcinati, e letteralmente incredibili Stati prebellici di cui la Cacania musiliana è la raffigurazione insieme grottesca e veritiera, l'intellettuale assurge a responsabilità sconosciute prima e vi si impiglia, restando lacerato tra poli sui quali viene a misurarsi, senza possibilità di equivoci, il suo impegno, il suo éngagement: verità e populismo, potere e ragione si scontrano in conflitti tremendi. Si può uccidere e ci si può uccidere; si può morire ma anche far morire, con uguale diritto all'appello ai valori, alla Storia, al destino, al dovere: da destra come da sinistra si può sentire come egualmente pregnante il richiamo dell'Etica come quello dell'Utile (ah, Croce!), ai valori dello Spirito come alla Ragion di Stato. Così, senza essere né giustificazionisti né revisionisti, possiamo e dobbiamo farci carico, noi, anche di Céline e di Junger, di Gentile e di Schmitt, della intera cultura di destra di quella travagliata stagione; perché anche essa è parte della nostra storia: vi è una ma

linconia fascista che trova non scusanti ma, con un minimo di pietas storica, ragioni da non trascurare. Stalin non fu un episodio, né lo riscatta l'adesione ai valori (o alla propaganda?) della Guerra di Liberazione. Se, insomma, la borghesia intellettuale e liberale Italiana non mostrò tempra eroica, fu anche perché i tempi erano confusi, incerti, faticosi. E del resto, anche quando moralmente rigorosa, l'opposizione non fu però lungimirante e attenta ai grandi fenomeni del secolo, primo di tutti la nascita del nuovo Potere, dai contorni così drammaticamente moderni, non cancellati nemmeno da quaranta anni di ritorno alla "formale" democrazia. Attraverso tutte le sue carenze e incomprensioni, va però ricordato che quella borghesia seppe elaborare l'idea-forza grandiosa (concetto, pseudoconcetto?), in certo senso ancora da esplorare, della religione della libertà. A quale altra zattera potevano aggrapparsi quanti cercarono di mediare, ma invano, Valori e Ragion di Stato, libertarismo e doveri, tutte le endi

adi nelle quali vennero a fronteggiarsi le tentazioni demoniache dell'anima e delle istituzioni in quegli anni?

In queste polarizzazioni, gli estremi ebbero più fortuna che non i termini medi, come sempre accade. Al fascismo dunque meglio si contrappose, più naturalmente e facilmente che non l'inafferrabile (e concettualmente impreciso e incerto) liberalismo, l'antagonista comunista. Cosicché quando il giovane intellettuale gufino avverte la crisi del fascismo e cerca un esito nuovo alle sue inquietudini, è ovvio che trovi non solo le sue certezze ma anche la sua rigenerazione morale in primo luogo nel Grande Avversario, il comunismo. Sono quelli i due totalitarismi che si sono accampati sull'unico palcoscenico che la storia del mondo offra, all'epoca, il palcoscenico dell'Europa, sul quale ancora una volta (forse l'ultima) si rappresentano le Avventure della Ragione. Dalle ceneri dell'intellettuale fascista nasce in primo luogo l'intellettuale progressista.

L'éngagement è bifronte, ed è in tale qualità che esprime il poderoso tentativo di realizzare nella storia del mondo l'epifania definitiva della Ragione, che sconfigga il Caso e l'Usura e, insieme a queste, le infinite cause della atavica miseria e fame che per secoli hanno oppresso le Masse.

 
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