di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Per un secolo, l'intellettuale si è sforzato di far coincidere la "struttura" della modernità, cioè il sistema industriale, con le sovrastrutture dei grandi comportamenti sociali, antropologici e perfino politici. Mentre l'intellettuale reazionario ha sempre denunciato la sostanziale identità dei diversi piani, l'intellettuale marxista e quello di formazione laica e liberale si sono dati battaglia per imporre, ciascuno, la propria "ragione" storica ed ideologica alle grandi trasformazioni in corso (accanto a questi però va collocato, con pari dignità, l'intellettuale fascista...).
Tale speranza è venuta meno. Il "moderno" è entrato in crisi, e con esso è venuta meno la figura dell'intellettuale "engagé" formatasi negli anni '30. La crisi piùl grave appare essere quella del marxismo, ma l'apparente vittoria della cultura liberale, sperimentale, è una vittoria su cui occorrerà discutere: fondata come è sull'utilitarismo, essa lascia fuori troppe cose - i "valori" innanzitutto - col rischio di veder risuscitare, tra gli interstizi, il Demoniaco.
(LA PALLACORDA, bimestrale, Torino, 1· semestre 1985 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Insomma, il Moderno è più complesso di quanto sognino i "nuovi filosofi" o quanti, convertiti al verbo dell'individualismo, riducono il Politico contemporaneo a sistema in cui conti solo la distribuzione sociologica del voto, espresso a partire dallo "scambio" politico giocato sugli interessi.
Il Moderno viene così allo scoperto, nudo, spoglio di una razionalità visibile che lo governi, e in qualche modo ne esorcizzi la pericolosità (il demoniaco?) che già Tocqueville, autore insospettabile, aveva intravisto covare nel suo seno. La ragione ha abdicato al suo compito, dopo oltre un secolo di confronti e di ricerche, di scoperte clamorose e innovatrici, con le quali essa si è sforzata di porre ordine nelle oscure vicende della Struttura.
La Struttura è la società industriale, con la sua fenomenologia ignota ma certamente irreversibile. Per un secolo, soprattutto in Europa si è cercato di far combaciare questa struttura con le sovrastrutture dei grandi comportamenti sociali e antropologici, cosicché questi aderissero a quella realtà, la rendessero comprensibile e gestibile, senza residui. Una volta conquistata la corrispondenza, si sarebbe avverato il miracolo del dispiegamento del tempo lineare, o del non tempo, il compimento della degnità vichiana secondo la quale "Verum et Factum convertuntur". Questo è stato il campo di battaglia su cui si è confrontato l'intellettuale europeo del secolo. Marxisti e laicoliberali, innanzitutto, fratelli anche quando in lite: da sempre infatti i reazionari, da Donoso in giù, hanno denunciato la sostanziale univocità dei due progetti, pur se aspramente concorrenziali l'uno rispetto all'altro. E poi accanto a loro, con dignità appena minore, gli intellettuali fascisti, piaccia o meno ai puristi dell'antifasc
ismo: nell'esito infelice e inadeguato della risposta fascista vediamo baluginare oggi, tra le incertezze del presente, problemi e questioni di non secondario peso. Certo è che la promessa che scintillava dinanzi agli occhi di questi intellettuali era enorme; chi di loro si fosse impossessato del Moderno - che indiscutibile, fascinoso, lineare, si presentava ben disteso dinanzi ai loro occhi - sarebbe stato il consigliere del Principe, in uno Stato di forza e di tenuta illimitate.
Tale certezza è venuta meno. Il Moderno si è d'improvviso dileguato, si è sfinito (di già!) nel Postmoderno, un tempo che programmaticamente non concede nulla alle esaltazioni; e si è dileguato prima che alcuna delle parti duellanti potesse innalzare il vessillo della vittoria. Così dobbiamo rassegnarci a constatare, in forme definitive, il declino storico dell'éngagement, del ruolo dell'intellettuale occidentale quale si era venuto configurando dagli anni '30 fino ad oggi. Ma quello che è venuto meno non è solo il ruolo dell'intellettuale, quanto la sostanza stessa su cui quel suo ruolo poteva giustificarsi, e di fatto è stato esercitato. Aron contestò ai suoi tempi questo ruolo, ne denunciò l'apparenza mitica, ma solo perché egli rappresentò, nella disputa, il polo critico-laico. Aron se la prese con l'intellettuale marxista per la sua smisurata superbia e per la sua altrettanto clamorosa cecità: ma, per suo conto, egli non dubitava di cosa fosse il Moderno, di come fosse fatto. Anzi, anche lui se ne dichi
arava autorizzato interprete, in nome della metodologia laica, liberale, sperimentale.
Fin'ora, il prezzo più alto lo ha pagato la cultura marxista. E una perdita grave, perché ci coinvolge tutti. In fondo, dobbiamo ammetterlo onestamente, col marxismo se ne va l'ultimo grande sistema di interpretazione del mondo che fosse schiettamente europeo, anzi - per paradossale che possa sembrare - eurocentrico. Tutte le sue categorie erano modellate in termini che si fondevano con la storia europea, presa come parametro indiscutibile d'ogni altro possibile percorso, di ogni altra possibile crescita, di ogni altro modulo di sviluppo. Si affievolisce quindi la permeabilità alla ragione di tanti termini-chiave, da quello, mitico, di Progresso, all'altro, essenziale, di Potere. La crisi del Moderno ha svalutato tutta questa antropologia, i cui concetti sono rimessi in discussione, le cui conquiste vengono rovesciate.
Indicazioni stradali, picchetti, punti di riferimento sui quali si è fatto il cammino di generazioni sono travolti. L'eclissi del Sol dell'Avvenir offusca anche la luce della ragione, la capacità, o possibilità, di leggere e interpretare, in qualche misura indirizzare, gli eventi a un fine compatibile. Insieme a tutto questo scompare anche il fascismo, versione spuria ma non indegna del progressismo del nostro secolo. Anche il fascismo volle avere a che fare con la gestione del Moderno, si occupò delle sue categorie, in sintesi che troppo scopertamente cercavano puntelli e avalli sullo spiovente della tradizione reazionaria. L'operazione di sintesi, di confronto era (ed è) necessaria, ma a livelli diversi, e con strumenti più solidi.
Resta in piedi vincitrice - apparentemente vincitrice - la cultura del liberalismo sperimentale; neoliberalismo, si definisce, neocontrattualista, pragmatico, interessato solo alle metodologie dello scambio fondato sul sistema economico. Ma è almeno da discutere se esso possa davvero far suo il premio che spetta a chi per primo tocca la mèta. Tutti convengono che lo scambio regolato sulle categorie dell'economico lascia fuori del contratto tutta una serie di temi, i tanto disprezzati Valori, con i quali esso non vuole avere nulla a che fare. Essi sono lasciati fuori del Politico. Sarebbe un risultato encomiabile e del tutto accettabile se questa nostra società dell'industriale postmoderno lasciasse sopravvivere in qualche nicchia magari appartata un qualche frammento di festività comunitaria. Ma questo non succede, e non sarà l'ingenuo Illich a resuscitarlo, perché le armi con le quali la società industriale è capace di annientarle, tali isole, sono troppo poderose. Perciò c'è il rischio che questa efficient
e società del postmoderno, così asettica e lineare, finisca invece col risuscitare e far dilagare il Demoniaco, a bloccare il quale debba alla fine essere chiamato ancora, in tutta la sua potenza irrazionale ed exlege, il Potere. Il puro Potere.