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Oranghi Lorenzo, Bandinelli Angiolo - 2 giugno 1985
Mario Paggi e il dio mortale
di Lorenzo Oranghi

SOMMARIO: La figura di Mario Paggi, l'uomo politico che fu tra i promotori del Partito d'Azione e del Partito Radicale, ed anche fondatore e direttore, nell'immediato dopoguerra, della rivista "Lo Stato Moderno", è centrale nella storia del radicalismo moderno italiano. Importante fu dunque l'iniziativa promossa dal Club milanese "Il Politecnico", nel 1985, di ricordarne l'opera con un convegno. Gli atti vennero successivamente pubblicati, ma "La Prova" (n.4) potè dare in anticipo ai lettori quanto meno un ampio stralcio della relazione tenuta da Lorenzo Ornaghi sul tema de "lo Stato Moderno". Il testo apparve sul n.4 del supplemento a "Notizie Radicali", introdotto da una nota di Angiolo Bandinelli. Ci pare conveniente utilizzare la pagina di Bandinelli come sommario al testo di Ornaghi. Lo scritto di Angiolo Bandinelli reca il titolo "Liberali & Radicali", ed è siglato (A.B.).

(LA PROVA, Supplemento di discussione N. 4 - Notizie Radicali n. 135 del 2 giugno 1985)

LIBERALI RADICALI

di A. B.

Il 1· giugno scorso si è tenuto a Milano, promosso dal Club "Il Politecnico", un convegno di studi sulla figura di Mario Paggi, avvocato e uomo politico, tra i fondatori del Partito d'Azione prima e poi del Partito Radicale, e fondatore e direttore, dal 1944 al 1949, della rivista "Lo Stato Moderno".

Attendiamo la pubblicazione degli atti di questa giornata di studi con interesse: non vi è dubbio che Mario Paggi, con la sua complessa opera, sia tra le esperienze alle quali i radicali hanno guardato con più attenzione e di cui si sono più positivamente nutriti.

Come appare evidente dalla relazione del prof. Lorenzo Oranghi (di cui pubblichiamo uno stralcio, ringraziandone i promotori del Convegno) la ricerca teorica di Mario Paggi poneva, subito nell'immediato dopoguerra, problemi e questioni che sembrano tornare di attualità, dopo il referendum e nella ipotesi di una crisi, o di un affievolimento, della partitocrazia e della sua ipoteca sulle istituzioni e la società italiana. Mario Paggi e il gruppo dei collaboratori della rivista (un gruppo composito di cui facevano parte, oltre a Mario Boneschi, a Vittorio Albasini Scrosati, Giuliano Pischel, Sergio Solmi e Cesare Spellanzon - redattori - un Libero Lenti accanto a Mario Monti e a Achille Battaglia, a Norberto Bobbio, ad Augusto Del Noce e Guido Ceronetti; Gaetano Salvemini e Leo Valiani, Filippo Burzio e Vittorio De Caprariis, Guido Morpurgo-Tagliabue e Mario Albertini - e potremmo ancora elencare) capirono subito che l'eredità del fascismo poneva innanzitutto sul piano statuale (proprio, di teoria dello Stato)

enormi problemi, che non si sarebbero risolti con il ritorno puro e semplice al vecchio Stato liberale, ma richiedeva un tipo di riflessione e di iniziativa politica ben diverso da quello che attirava e sollecitava le forze dell'antifascismo, i partiti di nuova formazione. Questi, nella infatuazione del "progressismo" imperante, ritenevano che i problemi importanti e attuali fossero quelli che affioravano e si ponevano nel "sociale", piuttosto che quelli i quali urgevano a libello delle istituzioni. Di cui, l'incessante polemica di "Stato Moderno" contro l'ala socialista del Partito d'Azione, che fece cadere e disperse le speranze di molti in quello che apparve come il partito "nuovo" della democrazia italiana moderna.

L'esperienza di Paggi fallì assieme a quelle, parallele, di altre forze "liberali", illudersi di poter condizionare, in virtù di una più alta capacità razionale di analisi e di giudizio, il moto complesso della società e della politica italiana del dopoguerra. Ma riteniamo di poter affermare che proprio per sfuggire a questo fallimento e per inverare, attraverso un diverso e apparentemente contrastante percorso, il loro retaggio, i radicali degli anni '60 abbandonarono la pregiudiziale "liberale" per avviare un discorso e una iniziativa capaci di confrontarsi con l'"effettualità", senza schematismi e senza complessi di fronte ad una tradizione pur illustre. Il liberalismo di Paggi, in definitiva, trovava il suo inveramento, anche qui a libello teorico (di teoria dello Stato moderno) nel partito dell'obiezione di coscienza e della nonviolenza.

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Ed ecco il testo di Lorenzo Ornaghi.

Mario Paggi e il dio mortale

di Lorenzo Oranghi

Ma, innanzitutto, perché questo titolo "Lo Stato moderno"? Perché l'impiego e la ripetizione di una formula i cui due elementi costitutivi, lo "Stato" e il "Moderno", appunto, erano stati resi, non solo frusti, ma anche ideologizzati al massimo grado dalla cultura politica dell'età fascista? Personalmente io continuo a non restare insensibile al richiamo evocativo e al fascino ambiguo di una formula che sembra legare inesplicabilmente la storicità dello Stato alla eternità o alla temporalità del politico; la conoscenza o la scienza di un modo storico di organizzazione del potere - lo Stato - alla sua ideologia di legittimazione. Resto sempre meravigliato dall'audacia culturale, ancor prima che politica, con cui l'impiego di una formula convenzionale identica riuscì a diventare, nelle mani dei redattori dello "Stato moderno", lo strumento di maggior distacco e contrapposizione rispetto alle concezioni che oggi si definirebbero statocentriche o statolatriche, di quelle di gran parte del fascismo, ma anche di q

uelle che, sopravvivendogli, continueranno anche dopo il fascismo.

Introdotta da tempo, almeno dalla fine del secolo scorso, e utilizzata abbondantemente dalla dottrina giuridica e dalla storiografia, la formula "Stato moderno" aveva infatti costituito il caposaldo dell'ideologia fascista. Sui due elementi costitutivi della formula, sullo Stato soprattutto, ma anche sull'equivoca nozione di modernità, era stata eretta l'intera costruzione giuridico-politica del fascismo - penso ad Alfredo Rocco, ma anche a Carlo Costamagna, fondatore e direttore di una delle riviste più significative del regime, intitolata, appunto "Lo Stato". Dalla composizione dei due elementi, d'altro canto, era stata legittimata ideologicamente l'antitesi tra il vecchio Stato di diritto liberal-parlamentare e il nuovo Stato corporativo fascista, giacché appunto - lo sosteneva Costamagna nel '32 - lo Stato fascista è Stato fascista era (è sempre una citazione da Costamagna) "l'espressione più rigorosamente unitaria e totalitaria di vita, e quindi di assetto e politico e giuridico cui sia pervenuto lo Sta

to moderno".

Impugnare di nuovo lo stinto stendardo del moderno Stato era dunque impresa per nulla fortuita o involontaria ed anzi, benché non azzardata, audace al punto da apparire temeraria. Le ragioni più profonde di una tale scelta le indicò con grande chiarezza, già nel primo numero clandestino della rivista, Mario Paggi; è un passo intitolato "Il Dio mortale" che merita ancor oggi di essere riletto per esteso e meditato, anche perché - e questo mio richiamo non sembri irriguardoso e nemmeno avventato - proprio sullo Stato-Dio mortale si era soffermato pochissimi anni addietro, nel '39, Julius Evola, allorché si era interrogato, proprio sulle pagine dello "Stato", sulla modernità di Thomas Hobbes. Scriveva Paggi: "Rileggendo la energica definizione che Hobbes dà dello Stato - ogni tanto la sorte benigna riconcede a noi nascosti sui monti e in mezzo al grano, l'umana dignità della lettura - "Dio-mortale", mi è venuto di ripensare al doppio significato che l'aggettivo mortale ha nella nostra lingua, soggetto alla mort

e, oppure: che dà la morte. Tutti sanno in che senso l'abbia adoperato Hobbes; lo Stato è come Dio in terra. Sola nota differenziale è che, mentre Dio non nasce e non muore, lo Stato, cosa umana, passa e non dura. Ma oggi tutti, o almeno tutti gli italiani, possono arricchire la definizione hobbesiana di un secondo significato: lo Stato è il Dio che dà la morte. Dobbiamo questa volta essere grati alla scarna semplicità della nostra lingua se ci consente, nella stessa definizione, di introdurre la sua confutazione. E' qualche cosa di più di un gioco di parole, è una constatazione fatta prima che con il capriccio lessicale, con l'anima e col sangue; le rovine e i morti, le lacrime e i lutti parlano contro la onnipotenza dello Stato più alto e più forte di qualunque dotta trattazione teorica; "Dio mortale" è una frase che non ci toglieremo più dagli occhi, finché memoria ci serva, finché il ricordo di quello che abbiamo pianto e perduto ci accompagni; Dio mortale è un tremendo monito per chi si accinge alla cos

truzione dello Stato moderno che vogliamo sia, finalmente, donatore di vita".

In effetti, proprio la costruzione dello Stato moderno, e cioè di uno Stato - come era stato scritto nella presentazione di questo foglio - che sia la soluzione contemporanea dei problemi contemporanei, o - come dirà Pischel - di uno Stato moderno perché democratico, ma anche forte perché non confinato in un agnostico liberalismo assoluto, proprio la costruzione di questo Stato, dicevo, costituiva il grande tema di battaglia politica attorno al quale si rannodarono tutte le elaborazioni teoriche dei redattori della rivista; un grande tema, e va subito detto, al cui cuore erano collocate una analisi minuziosa e una comprensione profonda - scientifica, si sarebbe tentati di dire - della struttura e del funzionamento delle istituzioni del moderno Stato.

(...) Spostata dal terreno tipico di altre riviste di quegli anni, delle discussioni filosofiche ed etiche sulla libertà o sui rapporti fra liberalismo e socialismo, e collocata sul campo ben più solido delle istituzioni da riordinare e di quelle da fondare, la questione del ruolo e delle funzioni dello Stato era stata risospinta dalla rivista al centro dell'analisi e dell'azione politica; ma, come subito ebbe modo di osservare già nel dicembre del '44 Paggi, commentando con l'articolo "Due concezioni dello Stato, una terza via", i sedici punti dell'esecutivo romano del Partito d'Azione e i lineamenti programmatici annunciati dal gruppo toscano, alle spalle di questa questione del ruolo e della funzione dello Stato immediatamente se ne profilava, ben più ardua e complessa, un'altra: la questione, appunto, della "natura dello Stato". I due documenti - notava Paggi - denunciavano una radicale antitesi proprio su questa questione, correndo il pericolo politico - il primo documento - di uno Stato fortissimo e -

il secondo - di uno Stato debolissimo.

Osservava, infatti, Paggi: "Esaltazione, dunque, dello Stato da una parte, e diffidenza dall'altra: per gli uni lo Stato è il supremo regolatore della libertà, per gli altri è quasi da mettere in ceppi perché nuoccia il meno possibile". Siamo nel '44. "Da una parte si sente ancora un insegnamento di Gentile - annotava Paggi - e solo gli ingenerosi imbecilli e faziosi possono sentirsi turbati dal richiamo di Giovanni Gentile. Per noi il modo onde è morto Giovanni Gentile rappresenta la tragica e dolorosa espiazione per il suo mancamento alla sua propria dottrina; dall'altra, è tutta l'ispirazione crociana che domina. Gli amici fiorentini sono ancora irretiti nei residui di una trascendenza statuale medioevale e solenne, mentre i romani sembrano piuttosto affascinati dal senso tutto immanente e caduco di uno Stato costruito a simiglianza dell'uomo".

Eppure, proprio questa questione della natura dello Stato, di uno Stato non trascendente, ma di uno Stato nemmeno appiattito sulla mera gestione e conservazione dell'esistente, lasciava intravvedere come la ricerca di uno Stato moderno fosse soprattutto strumento, alla fine e nella sua intima essenza, per definire che cosa fosse la "politica nuova e moderna", e su questo, a me pare, il contributo culturalmente più alto e forse il più attuale del gruppo dello Stato Moderno. E' facile a questo punto capire perché, preso atto che la crisi dell'antico Stato significava soprattutto la fine di una vecchia politica, la definizione della nuova politica non potesse né arrestarsi ad un rammodernamento delle tradizionali dottrine liberali e socialiste né esaurirsi nel progetto di un sistema istituzionale, pur funzionante ed efficace, grazie a un gioco sofisticato di automatismi e di simmetrie procedurali, rispetto ai fini della società. Da qui, l'attenzione continua per il problema della classe dirigente, il quale "ape

rto in tutta Europa - sono parole di Paggi - dal trionfo della rivoluzione borghese del 1789, costituiva il requisito essenziale per ogni processo di innovazione politica, in Italia soprattutto, giacché - ancora Paggi - dal 1919 al 1921 non ci fu soltanto il fascismo, ci fu il crollo di un vecchio Stato e di una vecchia classe dirigente, e il problema nostro è quello di rifare lo Stato e la classe dirigente; chè dal 1922 in avanti in Italia non si è più fatto né lo Stato, né la classe dirigente". Da qui, da questa ricerca di definire una nuova politica derivava soprattutto l'opposizione decisa e spesso violenta al progetto dei 75 dapprima, e poi al testo costituzionale. Agli occhi del gruppo di "Stato moderno", la Costituzione, un "fragile tessuto - dirà Paggi - fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall'altro, con qualche malinconico residuo di liberalismo che ha persino il pudore della parola libertà" questa Costituzione consumava, infatti - sono ancora parole di Paggi -

"il delitto di essere vecchia prima di nascere".

Più apparenti che reali le garanzie di stabilità dell'esecutivo, e verbalistica l'autonomia della magistratura, i partiti stessi venivano lasciati alla deficiente struttura privatistica delle associazioni di fatto, mentre si rischiava addirittura di costituzionalizzare il dissidio tra una economia libera e una economia pianificata. In effetti, la riproposta di una nozione di politica accentrata sullo Stato e racchiusa interamente entro il rapporto tra quest'ultimo e i partiti costituiva la contrapposizione più palese a quella ricerca di una nuova politica che, cercando di bloccare o invertire il processo di apparente politicizzazione dello Stato, in realtà di una sua ulteriore assolutizzazione, si era sforzato di progettare ad un tempo uno Stato moderno che non fosse il mero gestore del potere, e un'azione politica che non restasse completamente subordinata all'autonomizzazione ormai in atto del sistema dei partiti nei confronti della società.

I pesanti rischi insiti nella riaffermazione della vecchia politica, furono colti con grande lucidità da Giovanni Vaccari allorché, nell'articolo del marzo '47 che richiamavo poc'anzi, ebbe a prendere atto della crescente omogeneizzazione dei programmi dei partiti e del processo, solo apparentemente contraddittorio rispetto al primo, del diffondersi di teologie e mistiche. Scriveva Vaccari. "Ma da una politica teologico-mistica non si può aspettare altro se non precisamente che essa trascuri le facoltà critiche e reazionali della gente; poi questa mobilitazione, questo politicizzamento integrale di tutti gli aspetti della vita, finisce col provocare naturalmente una reazione di nausea della politica, una fuga dalla politica" - e subito aggiungeva - "alla politica ideologica e a queste sue deviazioni che diciamo ecclesiastiche, l'antipolitica non ha lasciato a lungo mancare la sua risposta. La scettica derisione dei supremi ideali, la escogitazione dello Stato amministrativo, la contraddizione del partito dei

senza-partito hanno fatto la fortuna del qualunquismo: esso rappresenta un violento ritorno alla politica particolaristica, con il suo opportunismo, i suoi divi, le sue clientele. Il suo più vero contenuto reazionario sta in questa mancanza di posizioni universali e di fede". Con il suo progetto, uno "Stato moderno" quale strumento essenziale e decisivo per una politica moderna, la rivista aveva indubbiamente lanciato una sfida audace; audace perché essa comportava l'impegno, che ci fu, per un rinnovamento di gran parte degli schemi dottrinari della cultura politica italiana.

Ma audace soprattutto perché un tale progetto era orientato, attraverso appunto la edificazione di uno Stato moderno, a svecchiare una società che non solo restava vecchia e sempre più si stratificava per coacervi burocratico-parassitari, e il risorgere dei feudalismi indicati da Paggi, ma una società che già minacciava di diventare del tutto subordinata e, anzi, funzionale al consolidamento del processo di autonomizzazione, e quindi di autoperpetuazione della classe politica al potere.

La sfida, come è ben noto, venne perduta, e i programmi politici dello "Stato moderno", al pari - ed è ciò che forse oggi più conta - delle sue analisi e delle sue elaborazioni teoriche, davvero sembrarono subito diventare quella voce del sogno di una moderna democrazia italiana.

 
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