di Marco BoatoSOMMARIO: L'intervento di Marco Boato si inscrive nel dibattito sviluppatosi sul "Manifesto" in un momento delicato per il partito radicale, attaccato in quel momento sopratutto da una sinistra poco disposta ad accettare le aperture parlamentari a Craxi e al governo. Dopo aver dato il suo contributo al riconoscimento per l'opera storica compiuta dai radicali come "fattore di modernizzazione politica e di svecchiamento ideologico" in un sistema politico altrimenti "bloccato", Boato osserva come, dopo la perdita degli ampi consensi e la "sistematica emorragia" delle esperienze confluite nel partito fino al 1979, questo si è chiuso in una sorta di "integralismo partitico e ideologico", cui è seguito un forte indebolimento non compensato da escamotages come la candidatura di Toni Negri nel 1983 o la rivendicazione del "successo" al referendum sull'aborto, che invece ebbe per i radicali, a giudizio di Boato, un esito "fallimentare". A rilievi e critiche l'autore fa seguire alcune considerazioni finali, nella "sen
sazione di un lento declino e di una perdita di capacità di proiezione politica non meramente episodica", accentuata dalla "povertà della discussione politica e culturale interna agli organi dirigenti".
(IL MANIFESTO, 9 agosto 1985)
In genere, nelle fasi in cui le altre forze politiche sono assenti dalla scena quotidiana (Natale, Pasqua, ferie estive), tradizionalmente i radicali cercano di occupare maggiore spazio e di ottenere maggiore udienza nei "mass media" attraverso le loro peculiari iniziative. Anche in questa estate la regola non è stata smentita, se si pensa al momento (altrimenti intempestivo) in cui è stata lanciata la maggiore »offensiva sul caso Tortora e sul processo di Napoli contro la camorra. La regola, questa volta, viene indirettamente confermata anche dalla decisione del "manifesto" di aprire un dibattito (»Radicali addio? ) sul ruolo attuale del Pr e sui suoi possibile esiti.
Discutere dei radicali non è facile: o ci si trasforma in loro »propagandisti (magari con qualche critica marginale, che renda più credibile il sostegno) oppure si rischia di essere considerati pervicaci detrattori o disinformati commentatori. E' un riflesso difensivo, da »integralismo partitico, che è proprio di tutte le forze politiche, ma che spesso si accentua nelle formazioni più piccole e più affette dalla sindrome da »fortezza assediata . Si possono tuttavia tentare alcune osservazioni critiche, il più possibile obiettive.
Non c'è dubbio che l'esperienza radicale, osservata nel suo insieme e in un arco di storico sufficientemente ampio, rappresenta una realtà marginale e minoritaria, ma proprio per questo tanto più significativa nella vicenda politica, sociale e culturale italiana. Il nostro sistema politico e sociale sarebbe notevolmente diverso, e ancor più »bloccato , se non fosse stato sistematicamente attraversato e »provocato dalla iniziative radicali. Il nostro dibattito culturale sarebbe assai più sclerotizzato e più povero, se in esso non si fosse inserita con forza la riflessione e la presenza radicale. Questi giudizi non comportano affatto una sorta di »santificazione di tutto ciò che, nella storia italiana degli ultimi decenni, è comparso sotto l'etichetta »radicale (anche se una simile »santificazione è stata spesso tentata dalla "leadership" del Pr, con un simmetrico vittimismo rispetto alle chiusure e incomprensioni altrui). Spesso le iniziative radicali sono state discutibili e discusse, nella forma e nella
sostanza, ma altrettanto spesso hanno costituito un fattore di modernizzazione politica e di svecchiamento ideologico.
Minoritario ed extraistituzionale fino al 1976, il fenomeno radicale ha vissuto il suo »momento magico durante il periodo dei governi di unità nazionale e la fase storica (più ampia) del compromesso storico. Non è un caso che risalga alla fine di questo periodo, nel 1979, il massimo consenso mai ottenuto dai radicali.
Si erano intrecciati, in quella fase, molteplici fattori: le trasformazioni sociali e culturali post-idologiche della realtà italiana; il massimo di chiusura istituzionale del sistema politico »bloccato ; la crisi profonda della sinistra storica, e in particolare del Pci, che proprio in quegli anni vede iniziare il suo lento declino; la crisi tanto della vecchia-nuova sinistra quanto dei movimenti »totalizzanti degli anni '70; la crescente centralità (almeno nei settori più sensibili dell'opinione pubblica) dei diritti civili, delle tematiche garantiste e della nonviolenza, di fronte al reciproco avvinghiarsi della barbarie terroristica e dell'imbarbarimento istituzionale durante gli anni di piombo.
tuttavia, il »momento ma...
...realizzarsi anche e particolarmente per lo sforzo radicale di superare la propria ristretta dimensione partitica e ogni forma di integralismo ideologico, aprendosi alla convergenza e alla intersecazione con diverse esperienze politiche, culturali e sociali. Era la fase storica in cui il Pr puntava, più che ad una raccolta minoritaria e gradualistica del consenso attorno a se stesso, ad essere soprattutto fattore di rinnovamento e trasformazione sia dell'intera sinistra, sia della società italiana e del sistema politico nel suo insieme.
La perdita progressiva di questo consenso più ampio e la sistematica emorragia di quasi tutte le diverse esperienze che erano confluite nella »proposta radicale nel 1979 ha coinciso, non casualmente, con una forte accentuazione dell'integralismo partitico e ideologico, tanto sul piano parlamentare e istituzionale quanto su quello sociale e culturale, nel periodo 1979-83. Il momento in cui questa trasformazione è apparsa con maggiore evidenza è stato il fallimentare esito referendario (e la sua interpretazione come un »successo , sulla base del raffronto non con la maggioranza degli elettori, ma con il consenso al proprio partito) del 1981, ma con conseguenze che si sono protratte nel tempo, anche in termini di contrasti interni al gruppo dirigente e di »mutazione genetica della composizione sociale e culturale del Pr.
A mio parere, i due "escamotages" (per quanto abili e spregiudicati, ma non tanto da surrogare le debolezze interne) della candidatura Negri nel 1983 sono stati una conferma, e non una smentita, di questa analisi, tanto più se li si confronta con gli esiti quasi contemporanei, rispettivamente, delle liste del Pr nelle elezioni comunali di Napoli e nelle elezioni regionali della Sardegna.
Alla crescente debolezza complessiva del Pr, alla sua sostanziale scomparsa in molte realtà regionali (dove si era impedito, fin dal 1980, un radicamento anche sul terreno istituzionale, che avrebbe indubbiamente modificato le caratteristiche del partito), alla crisi profonda dei suoi modelli di militanza tradizionale, ha fatto da corrispettivo un esodo dichiarato dal terreno parlamentare (benché il parlamento eletto nel 1983 non sia certo peggiore di quello eletto nel 1979 o nel 1976) e il massimo di enfasi sulle iniziative della "leadership" centrale.
Personalmente non sono troppo scandalizzato dalla »spregiudicatezza di queste iniziative, anche quando le trovo moralmente discutibili (l'alleanza con un Flaminio Piccoli tenuto sotto la pressione - per usare un eufemismo - della denuncia dei suoi rapporti con Pazienza), o politicamente al limite della prevaricazione (la vicenda degli spazi televisivi delle liste verdi). Nell'ultimo anno, nella maggior parte dei casi, le iniziative sono state uno dei pochi fattori di innovazione e di salutare »provocazione nell'ambito del sistema dei partiti.
"Oportet ut scandala eveniant", si potrebbe affermare con un riferimento evangelico. E credo sia utile e positivo tutto ciò che esce dagli schieramenti precostituiti, che mette in discussione le divisioni puramente ideologiche, che non è rituale e scontato sulla base di comportamenti prevedibili e predeterminati: su questo terreno, anche quando non si condivide una loro specifica iniziativa, i radicali suscitano ben più interesse di tanti patetici custodi di vetuste ortodossie.
Ma resta il fatto che si ha la netta sensazione di un lento declino e di una perdita di capacità di proiezione politica, non meramente episodica, che si riflette (per quanto si legge e si ascolta dai dibattiti salutarmente pubblici) anche nella povertà della discussione politica e culturale »interna agli organi dirigenti radicali. Si tratta di un processo inevitabile e inarrestabile? Non saprei dirlo, e francamente mi auguro che così non sia. Nonostante le riflessioni critiche, continuo a ritenere che una sostanziale scomparsa del »protagonista radicale costituirebbe un impoverimento generale della società e del sistema politico italiano. Ma questo è un problema e un compito che riguarda, in primo luogo, i radicali stessi.