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Teodori Massimo - 1 dicembre 1985
P2: la controstoria (13) CASO MORO: TRA P2 E P38
Fatti e misfatti, uomini, banche e giornali, generali e terroristi, furti e assassinî, ricatti e potere, secondo i documenti dell'inchiesta parlamentare sulla loggia di Gelli

di Massimo Teodori

SOMMARIO: "Molto si è scritto della P2 e di Gelli ma la verità sulla loggia e sul suo impossessamento del potere nell'Italia d'oggi è stata tenuta nascosta. Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi votata a maggioranza a conclusione dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la Loggia non è stata un'organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l'uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica."

La "controstoria" di Teodori e una ricostruzione di fatti e delle responsabilità sulla base di migliaia di documenti; è la rielaborazione e riscrittura della relazione di minoranza presentata dall'autore al Parlamento al termine dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Sono illustrati i contorni dell'associazione per delinquere Gelli-P2; si fornisce l'interpretazione dell'attività eversiva dei servizi segreti e quella dei Cefis, dei Sindona e dei Calvi; si chiarisce il ruolo della P2 nel "caso Moro" e nel "caso d'Urso", nella Rizzoli e nell'ENI, nelle forze Armate e nella Pubblica Amministrazione. Sono svelati gli intrecci con il Vaticano, il malaffare dei Pazienza, dei Carboni e il torbido del "caso Cirillo".

(SUGARCO EDIZIONI - Dicembre 1985)

CAPITOLO XIII - CASO MORO: TRA P2 E P38

Il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro, con quel che accadde nei drammatici 55 giorni fra il marzo e il maggio 1978, segnano uno spartiacque nella storia del nostro paese. La scomparsa di uno dei maggiori leader nazionali, uomo di partito e di governo, candidato alla presidenza della Repubblica, non ha inciso tanto in relazione ai suoi disegni politici quanto per il fatto che intorno al suo cadavere si sono composti e scomposti equilibri parlamentari, scelte e obiettivi politici. Dapprima il sequestro e poi l'alternativa fra Moro vivo o morto sono stati essi stessi gli elementi determinanti negli indirizzi di politica nazionale al di là dell'episodio terroristico e delle tragiche conseguenze che esso ha comportato.

Si è molto discusso della P2 in relazione al caso Moro, spesso con misteriosi accenti di ambiguità. Si è cercato di associare l'enigma ancora parzialmente irrisolto, »come fu possibile togliere dalla scena un personaggio di primissima grandezza? col carattere occulto del potere esercitato da Gelli e dai suoi accoliti. A ciò hanno contribuito anche le dichiarazioni del maestro venerabile che a pochi mesi dall'assassinio ebbe a dire, con l'aria di saperne molto, a Marcello Coppetti, giornalista fiorentino, e a Umberto Nobili, un ufficiale dei servizi di sicurezza dell'aeronautica: »Il caso Moro non è finito; è un affare di Stato .(1) Pur senza dare eccessivo peso a queste parole, senza dubbio furono molti gli uomini della P2 che si trovarono in posizioni cruciali durante le settimane del sequestro. I loro comportamenti, esaminati a distanza, a mano a mano che si conoscono nuove circostanze, hanno avuto un punto in comune. Tutti gli uomini della P2 hanno sempre sostenuto che salvare Moro era »impossibile . Es

trapolare da tutto ciò la convinzione che vi sia stato un disegno comune e generale della P2 contro Moro, è forse troppo meccanico: tuttavia le coincidenze restano tali e tante che sarebbe superficiale trascurarne il significato.

Perché non fu fatto tutto il possibile per giungere al ritrovamento dell'onorevole Moro e quindi alla sua salvezza? La presenza e i fatti in cui compaiono i piduisti sulla scena del caso Moro non riguardano il sequestro e le sue motivazioni ma la seconda fase: cioè il suo mancato ritrovamento e la mancata conclusione dei pur tanti tentativi effettuati in quei giorni per giungere alla sua salvezza. Questo interrogativo se lo è posto anche Leonardo Sciascia che da deputato radicale ha seguito i lavori della commissione parlamentare d'inchiesta: »Perché Moro non è stato salvato dalla sua prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla salvaguardia alla sicurezza, all'incolumità dei singoli cittadini, della collettività, delle istituzioni? .(2) Ed è proprio nell'ambito dei servizi di sicurezza e delle altre forze e strutture a cui lo Stato in quel momento affidò la responsabilità delle indagini, che si riscontrano le più numerose e più gravi singolarità di comportamento di membri della P2.

Perché non fu ritrovato Moro? L'inefficienza dei servizi segreti

In nessun modo operarono i servizi segreti durante i 55 giorni per giungere all'identificazione della prigione di Moro e per individuare quelle piste che avrebbero potuto portare ad un esito positivo, impiegando quei mezzi e quell'impegno che la gravità della situazione richiedeva. La branca militare del servizio, il SISMI, che era forte di oltre tremila uomini e aveva ereditato tutto l'apparato del SID, il servizio segreto unitario che lo aveva preceduto, non pose in atto significative iniziative. L'altra branca, quella civile di recente istituzione, il SISDE, affrontò il caso Moro in condizioni di assoluta inadeguatezza e smobilitazione, essendo subentrato al Servizio di Sicurezza (SdS) del ministero dell'Interno, già Ispettorato Antiterrorismo, senza alcun patrimonio di uomini esperienze e archivi che pure erano stati accumulati nella lotta al terrorismo. »Il SISDE afferma il direttore di allora generale Grassini non ereditò nulla da nessuno ed iniziò a costituirsi con uno sparuto gruppo di ex apparte

nenti al SdS e al SID, senza peraltro essere in grado di esplicare alcuna attività operativa .(3)

A capo dei due settori erano stati posti al SISMI il generale Giuseppe Santovito e al SISDE il generale Giulio Grassini, entrambi appartenenti alla loggia P2. A capo dell'organo di coordinamento, CESIS, di nuova istituzione e dipendente dalla presidenza del Consiglio, era stato nominato il prefetto Gaetano Napolitano con il compito di rendere più funzionale e più coordinata l'attività di tutti e due i servizi. Ma proprio durante quei 55 giorni, il 5 maggio 1978, il prefetto Napolitano fu costretto a dare le dimissioni per l'impossibilità di svolgere adeguatamente il suo lavoro, ostacolato dai vertici del SISMI e del SISDE e per la sordità del governo a cui aveva reso note le difficoltà incontrate. A Napolitano subentrò allora il prefetto Walter Pelosi, anch'egli stranamente affiliato alla P2. In questo modo tutti e tre i capi dei servizi erano collegati nella medesima organizzazione massonica.

Il governo, dopo l'esautoramento del Parlamento ad opera del direttorio dei partiti, affrontò la crisi attraverso il Comitato interministeriale per la Sicurezza (CIS) che si riunì una prima volta il giorno stesso della strage di via Fani sotto la presidenza del ministro degli Interni Francesco Cossiga con la partecipazione del ministro della Difesa Attilio Ruffini, del capo della polizia Giuseppe Parlato, del comandante generale dell'Arma dei Carabinieri Pietro Corsini, dei direttori del SISMI Santovito, del SISDE Grassini, dell'UCIGOS Fariello e del questore di Roma De Francesco. Al CIS parteciparono dal 17 marzo anche il comandante della Guardia di Finanza, generale Raffaele Giudice (P2), e il capo di gabinetto di Andreotti, Vincenzo Milazzo. Il ministero degli Interni, a sua volta, aveva costituito un gruppo politico tecnicooperativo e il suo ministro si avvaleva di alcuni »consulenti personali tra cui il professor Franco Ferracuti (P2). In questa proliferazione di organismi che svolsero molto poca attiv

ità sia in termini speculativi che operativi il tasso di piduisti presenti era assai alto: Santovito, Grassini, Pelosi, Giudice, Ferracuti.

Se tali erano le strutture di coordinamento, non di minor conto era la presenza piduista al livello operativo. Il responsabile dei posti di blocco di Roma era il generale dei carabinieri Giuseppe Siracusano (P2), noto per essere un fedelissimo di Gelli da antica data. Tra le tante inefficienze e omissioni basta ricordare l'episodio dei brigatisti che, in presenza delle spettacolari operazioni disposte dal Siracusano, poterono indisturbati riportare le automobili che avevano usato per la strage nei pressi di via Fani alcuni giorni dopo il sequestro. Ha osservato Leonardo Sciascia: »Sforzo imponente ma per nulla da elogiare (i posti di blocco, i controlli delle auto, gli arresti ed i fermi). Prevalentemente condotte a tappeto e però con inconsulte eccezioni, le operazionì di quei giorni erano o inutili o sbagliate . Si ebbe allora l'impressione e se ne trova ora conferma che si volesse impressionare l'opinione pubblica con la quantità e la vistosità delle operazioni, non curanti affatto della qualità... Pi

ano Zero... Mancanza di uomini per il pedinamento... La nostra opinione sulla vacuità delle operazioni di polizia è condivisa e trova autorevole conferma in questa dichiarazione del dott. Pascalino, allora procuratore generale a Roma: "in quei giorni si fecero operazioni di parata più che ricerche". Ed incontrovertibile che chi volle, chi assentì, chi nulla fece per meglio indirizzare il corso delle cose, va considerato nel grado di responsabilità che gli competeva pienamente responsabile .

Al comando del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma si trovava il colonnello Antonio Cornacchia (P2) che dopo il caso Moro fu chiamato a far parte dei servizi segreti. Anche fra i funzionari di Pubblica Sicurezza che si occuparono della vicenda, un posto di rilievo è ricoperto dal vicequestore Elio Cioppa, vicecapo della Mobile romana, che significativamente entra a far parte della P2 qualche mese dopo l'assassinio del leader democristiano. Il funzionario fu il protagonista del più misterioso dei pur tanti episodi oscuri di tutta la vicenda. Avvertito da una telefonata di movimenti sospetti in un appartamento di via Gradoli, il Cioppa condusse una perquisizione dell'edificio fermandosi davanti alla porta chiusa nonostante l'ordine di sfondamento delle porte nel caso di impossibilità di accesso. Solo un mese dopo, il 18 aprile, fu accertato che l'appartamento era un covo delle Brigate Rosse. In precedenza la questura di Roma aveva fatto credere di non essere stata messa sulla giusta pista di via Grado

li perché aveva scambiato il nome di un paese per quello della via, affermando a sostegno di ciò che quella stessa via non esisteva nello stradario romano.

All'indomani dell'uccisione di Moro, Cioppa viene chiamato alla vicedirezione del SISDE guidato dal generale Grassini, e contemporaneamente entra nella P2, quasi che fra le due cose vi fosse un legame necessario. In questa sua nuova funzione Cioppa è designato ancora a indagare sul caso Moro per iniziativa, secondo la sua stessa testimonianza, del generale Grassini che gli consegna un appunto che proveniva da Gelli o da una riunione alla quale Gelli aveva partecipato. In questo appunto si parla tra l'altro dei motivi per cui Moro era stato sequestrato e di ambienti delle BR che dovevano essere implicati. Qualche anno dopo, all'indomani della strage di Bologna dell'agosto 1980, Cioppa, continuando una frequentazione abituale, contatta nuovamente Gelli ritenuto »importante fonte confidenziale per lui stesso e per il SISDE.(5)

L'ex questore di Arezzo, Antonio Amato (P2), parla di un vasto rastrellamento nella zona dell'Aretino promossa dall'allora vice direttore della polizia(6) Santillo, il quale durante quei giorni gli chiese di approfondire la personalità del maestro venerabile, con ciò lasciando intendere che la pista Gelli andasse battuta in relazione a notizie e informazioni che potevano essere utili al ritrovamento dello stesso Moro.

Del rapporto fra caso Moro e attività di Gelli parlano anche il giornalista Marcello Coppetti e il maggiore Umberto Nobili, dei servizi di informazione dell'aeronautica.(7) Ai due che lo avevano incontrato a poca distanza dagli avvenimenti, Gelli disse che vi era un infiltrato dei carabinieri in un gruppo delle BR. A sua volta questo infiltrato avrebbe fatto sapere che il materiale scoperto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo milanese di via Montenevoso riguardante l'uccisione e il sequestro di Moro era stato asportato e coperto col segreto di Stato in quanto contenente cose assai imbarazzanti per uomini di partito e di governo. Questa circostanza relativa alla sparizione di materiale di Moro sequestrato il primo ottobre 1978, riguarda Andreotti, secondo quanto ampiamente riportato dalla stampa nella deposizione all'autorità giudiziaria della brigatista Anna Carla Brioschi resa il 5 luglio 1982.

E non è senza significato quel che lo stesso Gelli afferma nel memoriale n. 2 inviato alla commissione d'inchiesta parlamentare: »La tragica uccisione di Aldo Moro fu avvenimento imputabile alle deficienze dell'apparato di sicurezza . Gelli sapeva dunque direttamente che l'apparato dei servizi segreti era in parte deficiente e che, nei settori in cui non lo era, quella deficienza fu voluta. Il capo della P2 tiene poi a smentire quel che pure è documentato e cioè le sue interferenze: »Ho conosciuto il generale Grassini... ma durante i nostri incontri non gli ho mai posto domande sul lavoro che svolgeva... Ho conosciuto Cioppa e smentisco le sue affermazioni... laddove afferma che io sia stato presente a riunioni dei servizi segreti... e laddove sostiene che il generale Grassini gli aveva affidato un accertamento da compiere sulle motivazioni politiche del sequestro specificandogli che lo spunto a questa azione informativa proveniva da una riunione di lavoro a cui era presente Gelli .(8) A queste troppo ripetu

te e troppo recise smentite per un personaggio accortissimo come Gelli, corrisponde la volontà di occultare, rifacendosi agli aspetti formali, i suoi legami con i servizi segreti da cui traeva il potere informativo e sui quali esercitava la sua influenza. Il fatto che Gelli affermasse che »Moro era stato un affare di Stato non gli poteva venire che da una conoscenza dall'interno dei meccanismi dei servizi di sicurezza che a loro volta riflettevano opinioni del mondo politico trasmesse per orientare gli stessi servizi.

Reticenze, ambiguità e mistero. La necessità di consegnare il cadavere di Moro alla politica italiana

A questo punto due conclusioni appaiono scontate: i servizi segreti e gli altri apparati dell'ordine pubblico non hanno funzionato e in essi ha operato una larga rete di elementi della P2. Le inefficienze del SISMI, l'inerzia del SISDE, l'inconcludenza dei vari comitati e l'ingannevole carattere di tante operazioni a cui partecipano piduisti è stata una pura casualità o va ravvisata una deliberata convergenza di volontà per non ottenere risultati positivi? A favore della seconda ipotesi vi è la decisione presa in sede elevata di smantellare l'Ispettorato Antiterrorismo (poi Servizio di Sicurezza) diretto dal questore Emilio Santillo. Quest'organismo nel 1977 era l'unica struttura dei servizi che, a conoscenza della P2, della sua natura e dell'attività del suo capo, ne aveva dato ufficiale notizia alle autorità politiche con tre successive note, del 1974, del 1975 e del 1976; e al tempo stesso aveva dato prova di essere sulla buona pista del terrorismo di ogni colore comprese le BR.

Alla domanda del perché l'Ispettorato di Santillo fosse stato improvvisamente smantellato addirittura prima del tempo previsto dalla legge, il ministro dell'Interno del tempo, Francesco Cossiga, interrogato dalla commissione Moro, ha risposto con ragionamenti molto poco convincenti: »Lo scioglimento fu una conseguenza della legge e ad un certo momento si ebbe la sensazione che vi potessero essere delle reticenze nell'attuazione della riforma ed allora si decise di procedere e vennero emanate le disposizioni per cui il SID fu cambiato in SISMI, ed a capo del nuovo organismo fu chiamato il generale Santovito: per cui in attesa che si costituissero gli organismi del SISDE, si passò al Servizio di Sicurezza (SdS), fino alla piena applicazione della riforma alle dipendenze del SISDE. Per quanto riguarda l'arruolamento, richiamo l'attenzione sul fatto che in base alla legge non vi è nessun potere di trasferire d'autorità il personale al SISDE e al SISMI, in quanto nessuno può comandare, in base alla legge, di pres

tare servizio in questi organismi. L'arruolamento è fatto su base volontaria: passò al SISDE chi volle farlo di quelli del Servizio di Sicurezza .(9) Ciò affermando, l'onorevole Cossiga non riporta i fatti esattamente in quanto molti alti funzionari dell'Ispettorato Antiterrorismo che chiesero di andare al SISDE furono inspiegabilmente respinti dal nuovo servizio senza che fossero approntate alternative. Tant'è vero che durante i 55 giorni il SISDE non funzionò potendo disporre solo di un pugno di uomini. Dice ancora Cossiga: »Ricordo che al momento dello scioglimento del SdS è sorto, per quelli che non vollero o non chiesero di andare al SISDE, un problema. Gli uffici politici, infatti, dovevano essere la destinazione naturale di costoro, ma vi era il fatto che c'era il capo dell'ufficio politico che era più anziano, per cui alcuni di questi chiesero di non andare agli uffici politici proprio per motivi di collocazione .(10)

La liquidazione dell'Ispettorato rimane quindi un mistero: uno dei tanti del caso Moro. Ma è forse quello che in termini di responsabilità è il più grave perché quella operazione misteriosa risultò oggettivamente funzionale al sequestro e al suo tragico esito. L'Antiterrorismo di Santillo fu fatto fuori perché, unico fra le molte sezioni dei servizi segreti italiani, era a conoscenza dell'attività della P2 e di Licio Gelli e non recedeva da questa pista, contrariamente a tutti gli altri servizi segreti per i quali dagli anni Sessanta fino al 1981 le indagini su Gelli erano assolutamente tabù. Insieme a questa singolare liquidazione di un funzionario efficiente va ricordato un altro fatto ugualmente inspiegabile: l'assoluta passività o omissione di intervento di tutti gli apparati di sicurezza dello Stato.

Non si può parlare di un deliberato disegno per non salvare l'on. Moro e restituirlo morto invece che vivo alla scena politica italiana. Non esistono prove. Ma il comportamento di tutti quegli organismi politici, tecnici e operativi che dovevano adoperarsi per il ritrovamento, è convergente verso l'obiettivo opposto a quello che istituzionalmente avrebbero dovuto assolvere. In tutti questi organismi, da quello al più alto livello, il Comitato interministeriale per la Sicurezza, a quello più operativo, la questura di Roma, agivano uomini della P2 forse singolarmente, forse in qualche sorta di collegamento fra di loro, forse ognuno in contatto con Gelli il quale, a sua volta, non era certo privo di rapporti anche con alte sfere politiche.

E' provato che la politica dell'allarme sociale (quell'allarme, per esempio, che faceva fare le operazioni clamorose dei posti di blocco a puro fine spettacolare), del favoreggiamento del terrorismo, quindi delle morti e delle stragi, ha rappresentato una linea di fondo per tutti coloro che hanno perseguito l'emergenza come presupposto di leggi eccezionali, di sospensioni costituzionali, dello stravolgimento delle libertà e dei diritti dei cittadini. L'assassinio di Moro si inserisce in questo quadro. Non è il caso di rievocare qui la polemica sul »partito della fermezza : interessa solo sottolineare la funzionalità a questo »partito degli obiettivi e delle operazioni di cui i piduisti furono responsabili. In mancanza di una verità provata circa il complotto che costò la vita a Moro, in particolare per quel che riguarda il suo mancato ritrovamento, non si può che concludere che le molte tracce della presenza P2 in tutto il caso devono essere lette nel senso di un contributo necessario all'esito della vicend

a: la consegna della morte di Moro alla politica italiana come momento cruciale per gli assetti della Repubblica.

NOTE

1. Audizione del giornalista Marcello Coppetti alla Commissione Moro e Audizione del maggiore Umberto Nobili alla stessa Commissione del 23 febbraio 1982, in All. (T.), vol. III, tomo XII, pp. 313 465.

2 . Relazione di minoranza (Sciascia) alla Commissione Moro, DOC XXIII, n. 5, vol. secondo, p. 400, Parlamento, 1983.

3. Lettera memoria del generale Giulio Grassini alla Commissione P2 dell'11 giugno 1984, in All. (T.), vol. III, tomo XII, pp. 577 sgg.

4. Relazione di minoranza (Sciascia), cit.

5. Cfr. audizione di Elio Cioppa alla Commissione P2 del 18 novembre 1982; deposizione di Elio Cioppa al dott. Cudillo del 13 ottobre 1981; audizioni del generale Grassini alla Commissione P2 del 21 ottobre e 1· dicembre 1983, lettera memoria del gen. Grassini alla Commissione P2 dell'11 giugno 1984. Tutto in All. (T.), cit., pp. 467 587.

6. Appunto del questore di Arezzo dell'epoca, dott. Antonio Amato, relativo alle indagini sul caso Moro e ai suoi rapporti con Gelli, in All. (T.), cit., pp. 659 sgg.

7. Audizioni Coppetti e Nobili, cit.

8. Memoriale Gelli, seconda parte, cit.

9. Audizione di Francesco Cossiga alla Commissione Moro, in Atti della Commissione, DOC XXIII, n. 5, volume terzo, pp. 183 sgg., Parlamento, 1984.

10. Ibidem.

 
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