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Teodori Massimo - 1 dicembre 1985
P2: la controstoria (16) IL CASO D'URSO: LA LEADERSHIP DELLA P2 PER UNA SVOLTA DI REGIME

Fatti e misfatti, uomini, banche e giornali, generali e terroristi, furti e assassinî, ricatti e potere, secondo i documenti dell'inchiesta parlamentare sulla loggia di Gelli

di Massimo Teodori

SOMMARIO: "Molto si è scritto della P2 e di Gelli ma la verità sulla loggia e sul suo impossessamento del potere nell'Italia d'oggi è stata tenuta nascosta. Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi votata a maggioranza a conclusione dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la Loggia non è stata un'organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l'uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica."

La "controstoria" di Teodori e una ricostruzione di fatti e delle responsabilità sulla base di migliaia di documenti; è la rielaborazione e riscrittura della relazione di minoranza presentata dall'autore al Parlamento al termine dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Sono illustrati i contorni dell'associazione per delinquere Gelli-P2; si fornisce l'interpretazione dell'attività eversiva dei servizi segreti e quella dei Cefis, dei Sindona e dei Calvi; si chiarisce il ruolo della P2 nel "caso Moro" e nel "caso d'Urso", nella Rizzoli e nell'ENI, nelle forze Armate e nella Pubblica Amministrazione. Sono svelati gli intrecci con il Vaticano, il malaffare dei Pazienza, dei Carboni e il torbido del "caso Cirillo".

(SUGARCO EDIZIONI - Dicembre 1985)

CAPITOLO XVI - IL CASO D'URSO: LA LEADERSHIP DELLA P2 PER UNA SVOLTA DI REGIME

Il caso D'Urso come e più del caso Moro. Pubblicare o no

i documenti BR in cambio della vita del magistrato?

Alla fine del 1980 il caso D'Urso è un passaggio cruciale della vicenda politica in cui è rilevante l'intervento della P2. Il 12 dicembre il magistrato Giovanni D'Urso, dirigente degli istituti di prevenzione e pena del ministero della Giustizia, viene sequestrato dalle Brigate Rosse che ne rivendicano subito la responsabilità con un comunicato in cui si accusa il giudice di essere »responsabile di quanto concerne il trattamento dei proletari prigionieri e si chiede lo smantellamento del »circuito di differenziazione nelle carceri e »la chiusura del supercarcere dell'Asinara .

La vicenda che segue, fino alla liberazione del 15 gennaio, ripropone atteggiamenti, posizioni e scontri che si erano già verificati durante il caso Moro. Anche sul caso D'Urso si formano schieramenti contrapposti che interessano le forze politiche, la stampa, gli apparati dello Stato e l'opinione pubblica a due giorni dal sequestro, il 14 dicembre, si manifesta il cosiddetto »partito della fermezza guidato dal senatore Leo Valiani del PRI (»Al rapimento D'Urso è necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro )(1) e dal senatore Ugo Pecchioli del PCI (»Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile. Oltretutto, se si cedesse, si ridarebbe spazio e forza al terrorismo, lo si aiuterebbe a superare la crisi in cui si trova ).(2)

Sul versante opposto si collocano, con interventi in Parlamento nel dibattito del 16 dicembre, i parlamentari radicali che propongono la »strategia del dialogo , contro la trattativa e contro la fermezza, per esplorare tutte le possibilità di salvezza per D'Urso. Il radicale Franco De Cataldo sostiene che l'iniziativa di prolungare il fermo di polizia serve a incrudelire la spirale della violenza: »Qualsiasi tentativo deve essere fatto nel rispetto della legge e della Costituzione per salvare la vita di D'Urso: uno Stato è forte non perché sia forte oggettivamente, ma perché dimostra dentro di sé la sua forza nel momento in cui è anche capace di verificare le condizioni per cui un membro, un componente della società non venga spietatamente, barbaramente ucciso .(3) Il deputato radicale Marco Boato in commissione Giustizia della Camera afferma: »Non arrivare a dover accettare il ricatto dei brigatisti sul carcere dell'Asinara... chiudere il carcere dell'Asinara e rivedere tutto il regime delle carceri special

i, delle carceri di massima sicurezza è una rivendicazione sacrosanta che dobbiamo portare avanti autonomamente e con forza, per ragioni di giustizia, di civiltà del diritto, di democrazia del nostro paese .

Lo scontro fra le opposte posizioni si inasprisce nelle settimane mentre si susseguono i comunicati delle Brigate Rosse. Al centro del conflitto vi sono due nodi: la chiusura del carcere dell'Asinara e la pubblicazione dei comunicati delle BR. Del resto la chiusura del carcere era stata già deliberata dagli organi governativi, come ricorda la direzione del PSI il 25 dicembre, allorché dopo tentennamenti i socialisti imboccano la strada umanitaria del salvataggio di D'Urso: »Nelle circostanze attuali la chiusura dell'Asinara può apparire una concessione fatta al ricatto terroristico in cambio della liberazione del giudice D'Urso, ma in realtà essa coincide con un adempimento assolutamente giustificato e da più parti, ivi comprese fonti governative e amministrative, richiesto e sollecitato , la decisione non comporta »alcun indebolimento e rinuncia mentre è »necessario offrire subito ai rapitori del giudice D'Urso l'occasione di evitare un ennesimo barbaro crimine .

Il 23 dicembre Marco Pannella pubblica su »Lotta Continua un lungo intervento in cui afferma che i radicali e i nonviolenti sono contrari ad instaurare con i violenti qualsivoglia trattativa, ma che sono sempre disponibili per un dialogo con i »compagni assassini . L'intervento si conclude così: »Riteneteci a vostra disposizione non per collaborare ma per dialogare lealmente . Il 26 dicembre, con decisione ministeriale, il governo annuncia la chiusura del carcere dell'Asinara: un provvedimento già disposto da tempo che viene definito »grave dal PCI che lo interpreta come un cedimento. Il 31 dicembre le BR uccidono a Roma il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi. Lo stesso giorno viene arrestato il giornalista de »L'Espresso Mario Scialoja che, insieme al collega Giampaolo Bultrini, aveva avuto contatti con il brigatista Giovanni Senzani e questi gli aveva consegnato il resoconto dell'interrogatorio di D'Urso e un documento delle BR. Il 4 gennaio viene annunciata dai brigatisti la condanna a morte di D

'Urso con la sospensiva qualora fossero state rese note e pubblicate dalla stampa e dalla Rai Tv le opinioni dei detenuti »politici di Palmi e Trani. Nel frattempo, il 28 dicembre, i detenuti del supercarcere di Trani entrano in una rivolta che viene rapidamente e violentemente repressa dopo un giorno.

Ecco che emerge il nodo centrale di tutto il »caso : pubblicare o no i documenti dei brigatisti? Dar voce alle loro richieste per salvare D Urso oppure ricorrere al silenzio e alla censura? »Partito della fermezza e »partito del dialogo si scontrano non tanto sui provvedimenti da prendere quanto sull'atteggiamento che devono tenere la stampa e la Rai Tv. Gran parte dei giornali decidono per il blackout: dapprima »Il Tempo di Gianni Letta, seguito dal GR2 di Gustavo Selva; quindi si associano i quotidiani della Rizzoli con in testa il »Corriere della Sera , poi il »Giornale di Montanelli e le testate radiotelevisive della Rai Tv. L'atteggiamento dei giornali di totale censura è innovativo anche rispetto a quello praticato durante il caso Moro. Sullo stesso fronte del blackout si schierano anche »la Repubblica e, con decisione, i giornali del PCI, »l'Unità e »Paese Sera .

Nel corso di quelle settimane la polemica sul blackout si fa durissima perché attraverso di essa passa la possibilità o meno di salvare D'Urso e di assicurare a quell'ennesimo sequestro un esito diverso dall'assassinio. Alla testa del partito del blackout sta il sistema rizzoliano di informazioni controllato, diretto ed orientato dagli uomini della P2. Il »Corriere della Sera interviene il 6 gennaio 1981 con un comunicato di Di Bella (direttore) e di Tassan Din (responsabile del gruppo editoriale) nel quale si propugna la censura totale sugli avvenimenti di cui abbiamo già parlato nei capitoli precedenti.(5) »L'Occhio , nato per diretto volere di Gelli e della P2 , impagina un editoriale del suo direttore, Maurizio Costanzo, intitolato "E' guerra", nel quale si chiede l'instaurazione del codice di guerra, la sospensione delle garanzie costituzionali e quindi la pena di morte.(6)

Il fronte guidato dalla P2 viene rotto solo da pochi giornali e giornalisti: da Giuliano Zincone, direttore del »Lavoro , che in seguito alla decisione di non praticare la censura è costretto dal vertice P2 della Rizzoli a dare le dimissioni; da »Il Messaggero , dall'»Avanti! e da »Lotta Continua ; in parte da »Il Giorno che si impegna a pubblicare documenti delle BR dopo la liberazione di D'Urso. Al direttore de »La Nazione , Gianfranco Piazzesi, viene vietato ogni comportamento difforme da quello formalmente deciso dal vertice del gruppo Monti in evidente collegamento con altri gruppi editoriali. In quell'occasione scrive Piazzesi a Sciascia: »L'editore mi ha espressamente invitato a non pubblicare i documenti .. Considero che questo conflitto di opinioni è circoscritto ad un solo episodio. Spero di non trovarmi più in una situazione del genere... .(7) Nove mesi più tardi Piazzesi verrà rimosso da direttore de »La Nazione perché una situazione del genere si era nuovamente verificata con la pubblicazione

di una serie di articoli su Gelli.(8)

Perché il »blackout sulla stampa? Il »governo diverso di Visentini. P2 e PCI pilastri del »partito della fermezza

Perché lo scontro sul caso D'Urso è così aspro? Perché ha come posta l'atteggiamento di una stampa che pure era stata prodiga di attenzione verso i libelli del partito armato, con l'abbondante pubblicazione di comunicati e interviste? Da chi vengono impartiti ai giornali ordini tassativi e vengono fatte pressioni tali da imporre il blackout? Evidentemente c'era dell'altro che non un semplice atteggiamento giornalistico professionale o una scelta etico politica.

Si era alla fine del 1980 con un governo di centro sinistra guidato da Arnaldo Forlani che si andava logorando, da ultimo per lo scandalo dei petroli di matrice piduista e per il giudizio negativo largamente diffuso sul suo comportamento di fronte al terremoto dell'Irpinia. Da più parti venivano avanzate proposte di governo del paese alternative alla formula di coalizione allora in atto e difformi dalle consuete modalità parlamentari. Il Partito comunista aveva abbandonato ufficialmente, con la cosiddetta seconda »svolta di Salerno , la strada dell'unità nazionale, lanciando la parola d'ordine di un governo senza la DC anche con formule riconducibili al »governo dei tecnici e degli onesti .

Il senatore Bruno Visentini, presidente del Partito repubblicano e della Olivetti, propugnava, anch'egli, una qualche soluzione tecnica alla crisi del paese per fronteggiare l'emergenza economica innestata sull'inefficienza dello Stato. La sua candidatura, come possibile leader per soluzioni di emergenza, circolava nella stampa e in alcuni circoli politici e imprenditoriali. In occasione della consegna da parte del presidente Pertini di un premio a Visentini all'Accademia dei Lincei, i giornali riportarono una frase attribuendola al leader repubblicano: »Presidente, pensavo che mi consegnasse qualche altra cosa e mi desse un incarico! . Questa ipotesi di candidatura raccoglieva consensi ne »la Repubblica che praticamente se ne fece portavoce caldeggiando l'incontro fra il mondo imprenditoriale rappresentato da Visentini e il mondo del lavoro rappresentato dal PCI.

Anche la P2, nelle sue diverse espressioni, si muoveva per favorire soluzioni tecnico autoritarie capaci di fronteggiare secondo le sue eufemistiche dichiarazioni, la corruzione del paese, l'inefficienza dello Stato e il degrado dell'economia. Significativa, a questo riguardo, è l'intervista che Gelli si era fatta fare sul »Corriere della Sera del 5 ottobre e i servizi che lo stesso quotidiano andava pubblicando con grande rilievo sulla corruzione dei partiti, sugli scandali, sui colpevoli ritardi nei soccorsi per il terremoto e sulla necessità di ricorrere a misure straordinarie.

Tutti questi fatti venivano ricordati e ricapitolati nel proclama del blackout del 6 gennaio 1981. Nella estesa intervista del 5 ottobre Gelli aveva dichiarato: »Credo che i partiti scelgano i migliori elementi che hanno a disposizione per destinarli ai posti guida ma, nonostante l'alternarsi di tutti questi "geni", le cose vanno di male in peggio... Questi geni lavorano esclusivamente nell'interesse del paese oppure solo nell'interesse del loro partito? Penso che in questa ultima ipotesi non riusciranno mai a riunire in un unico crogiuolo i vari componenti necessari per fondere una lega che dovrebbe proteggere gli interessi del popolo... nella loro meschina mediocrità non riescono a comprendere le esigenze del popolo e non riescono a sentire le loro responsabilità... .(9)

Il sequestro D'Urso avviene quando disparati e importanti settori della politica e del mondo imprenditoriale e alcuni centri di potere, palesi e occulti, richiedono soluzioni eccezionali al governo del paese e alla crisi delle istituzioni. La montatura dello scandalismo non è opera degli ambienti più rigorosi quanto di coloro che sono più responsabili degli Stessi scandali. Tipica la campagna del »Corriere della Sera che giorno dopo giorno effettua denunce clamorose in prima pagina e invoca rimedi eccezionali. Anche l'attacco al sistema dei partiti viene mosso da circoli, tecnocratici e piduisti, che pure di quel sistema sono parte integrante e da esso traggono vantaggio. L'emergenza economica si sovrappone all emergenza contro il terrorismo, a sua volta mantenuta artificiosamente in tensione proprio da quelle forze dell'ordine che avrebbero dovuto fare di tutto per prevenire e reprimere la spirale della violenza.

Senza tale contesto il sequestro D'Urso sarebbe stato simile a tanti altri episodi dello stesso tipo. Il silenzio stampa, così decisivo per il suo esito e in definitiva per la vita o la morte dello stesso D'Urso, non sarebbe divenuto il punto cruciale di così aspro scontro. Il fatto è che attraverso le scelte dei giornali e le decisioni dei giornalisti in quel momento passa qualcosa che vale molto di più di una notizia. E' la possibilità che si verifichi un incidente, la morte di D'Urso, in grado a sua volta di scatenare un processo molto più generale verso misure autoritarie e verso imprevedibili soluzioni politiche. Le ipotesi non hanno riscontro nello svolgersi dei fatti ma probabilmente il cadavere di D'Urso sarebbe stato in quel momento determinante per far coagulare governi extracostituzionali.

Forze di diverso orientamento erano interessate a determinare svolte nella situazione politica. La consapevolezza che in quelle settimane si stesse giocando una grossa partita era generale. Vasto e variegato era lo schieramento di quanti non paventavano un evento di morte o che addirittura lo auspicavano in vista di operazioni più generali. Come e forse più che nei giorni di Moro, il »partito della fermezza coagulava interessi diversi: ma i suoi pilastri erano obiettivamente costituiti da una parte, dal PCI e, dall'altra, dagli uomini della P2. In esso confluivano attivamente anche i dirigenti del gruppo Monti attraverso i suoi giornali: i propugnatori della »questione morale come Scalfari e i »borghesi illuminati del Partito repubblicano con Leo Valiani, autorevole editorialista del »Corriere ; i giornalisti piduisti come Di Bella e Costanzo e quelli di »Paese Sera , giornale tenuto artificialmente in vita solo grazie ai miliardi di Calvi.(10)

L'analisi dei fatti, della loro concatenazione e dei loro effetti evidenzia quindi che nel caso D'Urso la P2 scende in campo direttamente per determinare significativi mutamenti del regime. Ne è prova l'atteggiamento del »Corriere che assume la leadership del »fronte della fermezza e propugna ad ogni costo il blackout, in seguito all'intervento diretto di Gelli, Ortolani e Tassan Din.

La mattina del 15 gennaio il giudice D'Urso viene trovato vivo in un vecchio quartiere di Roma, nei pressi del ministero di Grazia e Giustizia. Quel successo della vita, dopo tante vicende nelle quali la violenza e la morte avevano prevalso, probabilmente spuntò le armi di coloro che intendevano attuare progetti di uscita anche formale dalla Costituzione pur se animati da intenzioni diverse. Segnò una battuta d'arresto anche per la strategia della P2 che, come in altri periodi del decennio si era inserita per fare opera di destabilizzazione al fine di gestire il disordine così fomentato. Il commento del direttore del »Corriere Di Bella del 16 gennaio è rivelatore dello stato d animo di disillusione che D'Urso vivo aveva provocato nella P2: »Abbiamo accolto la notizia del ritorno alla vita di D'Urso con un sospiro di sollievo. Ma se questo obiettivo è stato conseguito non lo si deve certamente a questa maggioranza di governo ondivaga, incerta, ambigua e bifronte che ha dato all'opinione pubblica uno degli sp

ettacoli più desolanti negli ultimi 35 anni di storia patria .(11)

Che fosse la P2 a condurre il gioco in prima persona lo avevano capito i radicali che ne fecero un esplicito, costante e martellante punto di denuncia durante quei drammatici giorni. In una nota del 20 gennaio, Marco Pannella commentò: »Non a caso, ormai, è il direttore del "Corriere della Sera" ad auspicare che il ministro degli Interni e quanto del governo deve occuparsi dell'ordine pubblico sia tenuto da comunisti quali Pajetta e Pecchioli, e a dichiararlo dalle colonne della "Repubblica", che colano lacrime e pietà, di fronte alle sventure del povero Di Bella. Il compromesso storico con il mondo cattolico e clericale, voluto dagli stalinisti e da Togliatti, ha impedito il sorgere della prima Repubblica in Italia. Quello che gli epigoni impazziti e frustrati stanno ormai cercando di realizzare con il "capitale", saldando Calvi, Gelli, Agnelli, la finanza piduistica sindoniana, aprendo perfino i salotti romani al tentativo di sfruttare l'azione delle BR per destabilizzare ulteriormente governi e Parlamento

per giungere al governo detto Visentini, sotto la sferza dell'editore dell'"Espresso" e di "Repubblica", e del capofazione Scalfari, e quella degli andreottiani, puntano ad affermarsi sulle macerie della Repubblica e della democrazia .(12)

NOTE

1. Leo Valiani, "Non bisogna trattare ma trattarli con durezza", »Corriere della Sera , 14 dicembre 1980.

2. Ugo Pecchioli, "Nessun cedimento ai terroristi", »l'Unità , prima pagina, 13 dicembre 1980.

3. Atti parlamentari, resoconto stenografico del 16 dicembre 1980.

4. Mario Scialoja e Giampaolo Bultrini, giornalisti de »L'Espresso , avevano avuto contatti con il brigatista Giovanni Senzani il quale consegnò loro il resoconto dell'interrogatorio di D'Urso e un documento intervista nel quale le BR rispondevano a numerose domande che in effetti erano esse stesse a porsi.

5. Cfr. capitolo XII.

6. Ibidem.

7. Pubblicando su »La Nazione gli appelli di Sciascia e delle famiglie D'Urso, Gianfranco Piazzesi, direttore del quotidiano, scrive di suo pugno una lettera aperta allo scrittore.

8. Nel settembre 1981 Gianfranco Piazzesi viene rimosso dalla direzione de »La Nazione in seguito alla pubblicazione di una serie di servizi su Gelli.

9. Licio Gelli, intervista al »Corriere della Sera , 5 ottobre 1980 (Parla, per la prima volta, il »signor P2 ).

10. Cfr. capitolo XIV.

11. »Corriere della Sera , 16 gennaio 1981.

12. Comunicato di Marco Pannella, pubblicato in »Notizie Radicali del 20 gennaio 1981

 
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