Prefazione di Leonardo Sciascia al libro di Lino Jannuzzi "Così parlò Buscetta", pubblicato nel 1986 dalla Sugarco Edizioni.SOMMARIO: Analisi critica e ironica del processo contro la mafia in corso a Palermo, e intorno al quale il giornalista Lino Jannuzzi ha scritto il libro per il quale Sciascia detta la sua prefazione: "dalla greve e atroce materia - scrive Sciascia - del processo che si svolge a Palermo [...] a momenti si solleva un che di parodistico e comico"; è il "'sistema' mafioso che viene fuori dalle rivelazioni" dei due "imputati-accusatori": che è - continua Sciascia - "il sistema del costituirsi di una credenza, del raggiungere un apice di quasi perfezione, del declinare e del disgregarsi", come succede per tutti gli imperi. "La credenza che sosteneva la mafia è in crisi..."; essa è una "credenza ormai d'involucro, una credenza in cui nessuno più crede", col venir meno del "principale articolo di fede che la costituiva: la regola del silenzio, dell'omertà". Buscetta e Contorno, con le loro rivelazioni cercano di affermare la credenza, ma invano, "nel momento stesso in cui di fatto la rinnegano..."
Queste ed altre considerazioni "stanno a monte della lettura degli atti istruttori e dei resoconti dibattimentali...che Lino Jannuzzi fa in queste pagine...Una lettura intelligente, sagace...", piena anche di "divertimento"...
---------------------
Prefazione
Tra Ortega y Gasset e "A qualcuno piace caldo", tra il »sistema della storia di Ortega e »gli amici dell'opera italiana - qui ed ora: »gli amici dell'opera dei pupi siciliana - del film di Billy Wilder: dalla greve e atroce materia del processo che si svolge a Palermo contro la mafia - e cioè contro un gruppo di suoi capi e affiliati (presunti, si capisce) così numeroso e rappresentativo da dare la falsa impressione che la mafia ci sia dentro tutta - a momenti si solleva un che di parodistico e di comico. E l'indugiarvi potrebbe apparir cinico o peggio, nel catalogo dei delitti che il processo viene srotolando, ma in effetti è il modo migliore per assumere e vagliare criticamente il materiale istruttorio e dibattimentale che solitamente e generalmente, nel nostro paese, nei luoghi alti e bassi in cui l'informazione senza ormai opinione viene maneggiata e trasmessa, viene recepito acriticamente, come risultanze apodittiche, come certezze. Ma forse è dir poco, che come certezze vengano recepiti i materiali
istruttori e dibattimentali: per gli strumenti della comunicazione di massa sembra siano certezze giudiziarie anche i mandati di cattura. Il che vuol dire che siamo a mal punto.
Quel che parodisticamente ci fa ricordare Ortega è il »sistema mafioso che vien fuori dalle rivelazioni dei due cardinali imputati accusatori (cardinali da cardine, ma un po' anche per le precauzioni e i riguardi di cui son circondati): che è il sistema del costituirsi di una credenza, del raggiungere un apice di quasi perfezione, del declinare e disgregarsi: che è per Ortega il sistema che costantemente si ripete nel nascere, affermarsi e dissolversi degli imperi, ma di ogni credenza che scompare sopravvivendo elementi in quella che la sostituisce. E nel dissolversi della credenza mafiosa - sempre parodisticamente - si può anche intravedere, ancora di Ortega, lo »schema delle crisi . La credenza che sosteneva la mafia è in crisi con le stesse modalità di quelle che hanno sorretto e sorreggono gli imperi. Per dirla banalmente: una credenza ormai d'involucro, una credenza in cui nessuno più crede. E appunto risulta evidente, il non più credere nella credenza, dall'affermazione di crederci ancora da parte di
coloro che invece se ne distraggono e la negano col venir meno al principale articolo di fede che la costituiva: la regola del silenzio, dell'omertà. Buscetta e Contorno non solo non rinnegano quello che Pitrè direbbe il loro »sentire mafioso , ma nemmeno rinnegano il loro » agire mafioso : quasi la mafia fosse uno Stato di cui si è cittadini così come per nascere altro luogo non c'è che quello in cui si nasce, uno Stato in cui si sta come dentro la propria pelle. Lo Stato come pelle, dice ancora Ortega parlando della storia romana dalla cacciata dei re all'avvento degli imperatori cioè degli anni in cui la credenza era così vigorosa da adattarsi ad ogni novità ed esigenza, da permearla, da assorbirla. A somiglianza della repubblica romana, la mafia fu pelle del cittadino mafioso. Ma poi - per restare all'immagine - venne la rogna: e il prurito. La qual rogna e il qual prurito crediamo stiano in analogia a quel che parallelamente avveniva nella società (si dice per dire) civile: e cioè la sollevazione contr
o la » meritocrazia . A livello della soldataglia mafiosa (termine esatto, stando alla nomenclatura buscettiana) grazie alla mappa ormai leggibilissima delle isole degli illeciti tesori, e facilmente raggiungibili, cominciò ad apparir facile il promuoversi a generali e il fare da generali. Ed era effettivamente facile, politica e droga aprendo vasti, agevoli e agiati spazi: solo che un esercito tutto di generali può magari essere concepito in utopia, e alquanto folle per di più. Nella realtà i generali ci vogliono, anche nelle guerre che sembra facile poter vincere. Generali che abbiano intuito e pratica, poiché studio e teoria non bastano: come ci dà esempio Matteo Bandello, quando racconta di una manovra che Machiavelli voleva far fare a una truppa in piazza d'arme; e nacque tale confusione che bisognò Giovanni dalle Bande Nere desse un paio di secchi ordini perché si effettuasse la manovra voluta da Machiavelli e si potesse andare al rancio. Nella mafia, forse un Giovanni dalle Bande Nere non c'era più o
, più probabilmente, non riusciva più a trovare riconoscimento e obbedienza: fatto è che le manovre cominciarono a finire in scontri.
Buscetta e Contorno, come si è detto, affermano la credenza nel momento stesso in cui di fatto la rinnegano: il che vuol dire che non sanno più riconoscerla e che se ne fingono una inautentica, inattendibile, buona a giustificare la loro condotta di oggi e ad ottenere condono per quella di ieri. Dalle loro rivelazioni vien comunque fuori un certificato di morte della credenza. Che non è, beninteso, un certificato di morte della mafia, ancora in manovra e risonante di scontri. Scontri che il più corrente giornalismo direbbe di secondo livello, considerando terzo - e il più alto -quello dei politici e primo quello che si potrebbe dire dei salariati, infima manovalanza da »una tantum . Livello alquanto trascurato, nell'ansietà di raggiungere il terzo (forse irraggiungibile): ma che si ha l'impressione stia per salire al secondo, profittando della decimazione poliziesca e giudiziaria che stanno subendo gli effettivi del vecchio secondo livello, parzialmente identificato. E s'intende che stiamo parlando della maf
ia palermitana e delle sue propaggini e delle sue riproduzioni: che attraverso le rivelazioni di Buscetta e Contorno, e di altri minori impropriamente detti pentiti (e non lo sono per nulla, essendo soltanto degli sconfitti che chiedono allo Stato di vendicarli: cosa da parte loro inconcepibile, se veramente ancora fossero dentro la credenza), si offre in uno spaccato attendibile nei dettagli, inattendibile nell'insieme. Nelle rivelazioni c'è insomma una intrinseca ed essenziale contraddizione: l'affermare la mafia come fatto unitario, che come una cattedrale si conclude nella »Cupola , e il darne al tempo stesso una rappresentazione di disordine, di micidiali diffidenze interne, di interne prevaricazioni e sopraffazioni. Una contraddizione che, se non la si coglie tempestivamente, si corre il rischio di accettare la tesi che tutti i delitti accaduti a Palermo negli ultimi anni - e specialmente quelli di cui son stati vittime i rappresentanti dello Stato - siano da imputare a quegli elementi già individuati
che stanno nelle gabbie dell'Assise o ancora sono latitanti: elementi di quella parte detta - ancora impropriamente - vincente. E invece, a guardar bene, una simile tesi lascia fuori tanti delitti, non li spiega, non conferisce loro un movente anche vago. E per esempio: I'assassinio del procuratore Costa, non sarebbe da imputarlo alla parte perdente? La conclusione cui sensatamente si può arrivare è insomma che parte vincente e parte perdente, gruppi di vecchia costituzione e gruppi che, in via di costituirsi, cercavano - è il caso di dire - il loro »ubi consistam gareggiando in delitti »forti , abbiano agito al di qua o al di là della credenza che più non funzionava, delle regole che più non servivano: tra le quali era preminente quella di ignorare il carabiniere, la magistratura inquirente, il giornalista (e di accattivarsi, blandire e convincere, senza mai minacce o violenze, la magistratura giudicante: come diceva il vecchio procuratore generale Mirabile, cui personalmente dobbiamo la più netta nozione
del fenomeno mafioso come credenza e come organizzazione: della mafia di cui, a suo tempo, fu implacabile accusatore). Si può aggiungere, a condensare e semplificare la tesi, diciamo, di questo lavoro, che c'è nel processo di Palermo una interna contraddizione nel porre tutti i membri della Cupola o Commissione a pari responsabilità in tutti i delitti: mentre è evidente che anche la parte perdente, e che stava dentro la stessa Cupola, era oggetto dell'offensiva della parte vincente e non poteva dunque essere mandante di certi delitti.
Queste considerazioni, che dovrebbero essere svolte e precisate in un più lungo discorso, stanno a monte della lettura degli atti istruttori e dei resoconti dibattimentali - e peculiarmente di quelli relativi alle testimonianze di Buscetta e Contorno - che Lino Jannuzzi fa in queste pagine. Una lettura intelligente, sagace, spregiudicata: che non solo rompe lo scontato e il conformistico che nelle cronache del processo di Palermo prevalgono, ma suggerisce delle valutazioni critiche di quel che nel processo confusamente scorre: e per la fiducia preventivamente accordata ai due accusatori, e per la sfiducia di cui ora pare stiano per essere toccati: che sono il dritto e il rovescio della emotività suscitata dalle loro rivelazioni, che invece bisogna sottoporre a freddo e critico giudizio, magari ringraziandoli per quello che hanno detto, e che davvero aiuta a capire in sede sociologica e storica, oltre che giudiziaria; ma non perdendo coscienza di quel che hanno taciuto - legittimamente taciuto, se in civiltà
giuridiche meno incomplete della nostra si dà avvertenza a un presunto colpevole del momento in cui quello che dice gli si può torcere contro. Non inganni, dunque, il »divertimento che in queste pagine trascorre e cui abbiamo tentato di partecipare (e specialmente si è divertito, Jannuzzi, nell'ordinare quasi in forma di dizionario certe impagabili definizioni e battute di Buscetta e di Contorno): sotto il » divertimento è il problema della giustizia che si agita, in Italia ormai grave e allarmante.
Leonardo Sciascia