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Stango Antonio - 5 marzo 1986
Caso Filipov: vittoria della nonviolenza
di Antonio Stango

SOMMARIO: Il racconto degli ultimi momenti dell'iniziativa politica che ha consentito ai coniugi bulgari Filipov di ricongiungersi con i propri figli.

(Notizie Radicali n· 54 del 5 marzo 1986)

Roma, lunedì 17 febbraio.

Gli ultimi giorni sono stati concitatissimi: prima i comunicati-stampa con cui il governo di Sofia tentava di dimostrare che si trattava di una storia familiare e che occorreva che Sveja rientrasse in patria per provare a risolvere il caso lei stessa, »trattando con i genitori; poi il rifiuto di Sveja, motivato dal fatto che un suo ritorno, anche per un breve periodo, l'avrebbe privata dello status di rifugiata politica senza per questo che le fosse garantito, come previsto dalle convenzioni internazionali, di riottenere le proprie figlie; quindi la nostra proposta. Questa mattina io e Gino Del Gatto (io come rappresentante dei coniugi Filipov, lui come medico) chiederemo formalmente all'ambasciata di Bulgaria il visto per recarsi a Novi Pazar e tentare di farne ritorno con le piccole Micaela e Severina e con la nonna paterna Maria Kirova. Intanto siamo al dodicesimo giorno di sciopero della fame, e ci è riuscito di creare in tutta Italia la mobilitazione necessaria a far sentire alle autorità bulgare nonch

é al nostro ministero degli Esteri che questa storia deve giungere alla sua conclusione. Da molte parti sono piovuti sul ministero e sull'ambasciata telegrammi, lettere e telefonate per sollecitare l'applicazione degli accordi di Helsinki, e oggi i giornali annunciano una settimana di iniziative in diversi paesi d'Europa, una risoluzione del Parlamento europeo e l'intervento, al fianco dei radicali, di altre forze politiche, mentre »Stampa sera pubblica una lettera aperta di Marco Pannella ai »signori del governo bulgaro . Dobbiamo farcela: è questo che mi ripeto mentre con Gino, Sveja e Michail busso, come tante altre volte ho fatto durante questi cinque mesi di lotta, al portone dell'ambasciata bulgara.

Non ci rifiutano il visto. Non si oppongono, a differenza delle ultime due settimane, alla richiesta di autenticare la delega con cui i coniugi Filipov affidano a me le loro bambine fino al momento in cui potrò riconsegnargliele. Il timbro bulgaro va a occupare sul mio passaporto uno dei pochi spazi ancora liberi; ma si tratta soltanto di una formalità necessaria, non sufficiente ancora a garantirci che riusciremo a chiudere bene questa vicenda. Usciamo, tuttavia, con un sorriso. Fuori decine di compagni stanno attuando la manifestazione che avevamo programmato. »Ora basta! si legge su un cartellone: »Viva la Bulgaria, se rispetta i diritti umani! è scritto su un altro. »Quando partite? domanda un giornalista. »Col primo volo, naturalmente: alle 15.30 .

Dobbiamo correre. Fare i biglietti, passare dal partito, dire a Giovanni come stanno andando le cose, salire su un taxi insieme a Sveja e a Michail che vogliono adoperare i minuti che rimangono per raccontarci di Novi Pazar ed affidarci tutte le loro speranze. Quindi l'aereo della Balkan Air. In volo, penso a quando ho conosciuto i Filipov, l'estate scorsa, al partito; a quando li ho visti giorno per giorno perdere fino al quindici per cento del peso durante il primo, drammatico, sciopero della fame: al momento nel quale decidemmo, fra gli applausi e la commozione del congresso di Firenze, che, se mai fosse stato necessario un nuovo digiuno, saremmo stati anche fisicamente con loro; all'annuncio della nuova iniziativa nonviolenta dato a Chianciano, durante i lavori del Consiglio federale. Penso ai cinquantacinque cittadini di Trieste che hanno digiunato per un giorno; ai cinquanta, fra i quali Enzo Tortora, che stanno digiunando a Milano; ai compagni di Cremona impegnati in un digiuno a staffetta; ad Athos D

e Luca che è riuscito a far approvare all'unanimità un documento di solidarietà con i Filipov dal Consiglio provinciale di Roma; a Daniela, a Lucio, a Bonaria, a Pina, a tutti gli altri compagni che stanno lavorando su questo; ad Olivier che, in fondo, si trova in un carcere belga per lo stesso motivo per cui ora io e Gino siamo quassù diretti verso Sofia: per costruire un'Europa diversa e una diversa politica di difesa basata sulla democrazia, sui diritti umani, sull'informazione. Penso alle tante manifestazioni all'Est, a Marco arrestato a Sofia nel '68 per avere distribuito dei volantini contro l'invasione della Cecoslovacchia, a Lech Walesa che ho incontrato a Danzica poco più di un mese fa e che si è detto convinto che gli ideali di Solidarnosc possano ancora essere vincenti, se l'Occidente saprà farli propri.

Siamo a Sofia in due ore. Troviamo ad attenderci il consigliere della nostra ambasciata Fabio De Nardis, che ci porta alla sede della rappresentanza diplomatica italiana. L'ambasciatore Battistini e sua moglie ci accolgono con grande cortesia. Discutiamo del caso Filipov e riceviamo la conferma che le autorità bulgare sembra stiano per cedere, spinte a questo dal progressivo logoramento della propria immagine internazionale e infine dalle pressioni, prima tradizionalmente molto caute e a poco a poco più esplicite, della Farnesina. Parliamo naturalmente anche del processo ad Antonov, che è l'altra materia che da tempo causa un certo disagio nei rapporti italo-bulgari; ma ora è Novi Pazar la nostra meta. Domattina vedremo Micaela, Severina, Maria Kirova e i famosi nonni materni: quelli che avrebbero fino ad ora impedito che le bambine partissero per l'Italia. L'ambasciatore è ottimista; io preferisco non darmi, per un giorno ancora, una certezza che potrebbe rivelarsi illusoria. Ho speranza, ho fiducia. Più ta

rdi, all'hotel Vitosha, sento la radio bulgara che parla di due italiani giunti oggi da Roma, del caso Filipov e di Novi Pazar. Il tono è teso. Non capisco tutto, ma so che parlano di Sveja e Michail come di traditori della patria.

Sofia, martedì 18 febbraio. Il consigliere De Nardis viene a prenderci alle 6.30. All'aereoporto troviamo un'interprete dell'ambasciata, e insieme prendiamo un aereo per Varna. C'è molta nebbia, e tutti i voli sono in ritardo: ma quando arriviamo sulle coste del Mar Nero la giornata si è aperta. A Varna ci attendono due grandi macchine noleggiate dall'ambasciata, che ci conducono verso l'interno per una settantina di chilometri. La Bulgaria è quasi tutta coperta dalla neve, ma a Novi Pazar è il fango ad occupare le strade. Ci sorprendiamo dell'accoglienza del sindaco, o meglio del presidente del Soviet cittadino: ha un discreto ufficio, dove ci offre il caffè e tiene a dirci che la sua cittadina ha avuto un premio, l'anno scorso, per l'ordine e la modernizzazione. Dopo una serie di complimenti reciproci, ci spiega però seccamente che come comunista considera i Filipov come dei pessimi elementi; ma che sarà comunque a nostra disposizione per agevolarci in quanto gli sarà possibile, »visto che ormai i nostri d

ue governi hanno deciso di risolvere il caso . Ci avverte, ad ogni buon conto, che non sarà facile, perché i nonni materni si opporranno.

La signora Daceva, madre di Sveja, in effetti non vuole nemmeno aprirci la porta della povera casa ove abita con il marito, con la madre di Michail e con Micaela e Severina. Spiego che ho delle lettere da parte di Michail e di Sveja, ed infine riusciamo ad entrare. Urla, rifiuti, sguardi torvi, dichiarazioni ripetute che Sveja dovrebbe far ritorno in Bulgaria e che comunque nemmeno a lei darebbe le bambine, perché ha scelto di andare in Occidente, ci mostrano chiaramente fino a che punto la propaganda e le pressioni delle autorità locali, interpreti della volontà del regime, abbiano potuto sconvolgere questa donna. A tratti invece, così come aveva scritto in diverse lettere, sostiene che Micaela e Severina dovrebbero stare con i propri genitori: ma l'impressione di Gino Del Gatto e mia è che comunque la signora Daceva è la persona meno adatta ad allevare le due bambine, tanto che arriva al punto di sostenere che le ucciderebbe piuttosto di mandarle in Italia, paese »capitalista e fascista .

Anzi, se la milizia cittadina dovesse portargliele via, lei scriverà a Mosca per denunciare questo comportamento. Questa asserzione mi sembra molto significativa: chi mai da noi penserebbe di appellarsi a Washington contro un presunto torto fatto dalle autorità italiane? Ad ogni modo, la signora ha nascosto le bambine in un'altra casa, ed occorrono ore prima che si decida a rivelare dove si trovano. Intanto parla continuamente, impedendo al marito di intromettersi e costringendo nonna Maria, la madre ottantaquattrenne di Michail che vorrebbe notizie del suo unico figlio e che si dice pronta a partire con noi, ad uscire. »Lo sai come sta Michail: vive in un lager e gli manca perfino da mangiare! sostiene. E' questo che le autorità bulgare hanno sempre detto: è questa assurdità propagandistica che hanno diffuso per scoraggiare altri dall'espatriare, così come finora avevano rifiutato per questo di consentire la riunificazione della famiglia. Gino ed io continuiamo però a cercare il dialogo, a tranquillizzare

la signora Daceva, spiegando che le cose stanno diversamente e che da parte dell'ambasciata italiana si agevolerà al massimo, in qualsiasi momento, una sua visita a Roma. Infine, la signora cede.

L'incontro con le bambine avviene in una sala del municipio. Soltanto ora possiamo dire di avercela fatta. Firmiamo una dichiarazione per la presa in consegna di Micaela e Severina, le prendiamo in braccio, ci sorridiamo. Nonna Maria è felice ed insieme meravigliata: non le sembra vero di poter rivedere Michail. Tutto il paese assiste alla nostra partenza: la gente ci guarda muta, consapevole che qualcosa di importante sta accadendo, ma senza comprendere bene. Poi in macchina fino all'aereoporto di Varna e l'aereo per Sofia: il primo volo per le nostre tre amiche. A sera, dall'hotel Vitosha, posso telefonare a Radio radicale ed annunciare in diretta, con gioia, che le bambine sono con noi. Nel vederle dormire provo una sensazione bellissima: una campagna di cinque mesi sta per finire, e nel modo migliore. E' la dimostrazione che lottare è possibile, che la nonviolenza può vincere; ma basta: ora dobbiamo attendere domani.

Sofia, mercoledì 19 febbraio. Il risveglio, la colazione tutti insieme (non più soltanto il cappuccino, ormai), un nuovo collegamento con la radio, la preparazione dei bagagli, il pranzo all'ambasciata: nonna Maria Micaela e Severina sono trattate come ospiti d'onore, e lo stesso ambasciatore Battistini ci accompagna poi all'aereoporto insieme alla moglie e al consigliere De Nardis. Le bambine si trovano benissimo, la nonnina mi tratta come un nuovo nipote e continua a parlarmi, in bulgaro, di Michail. Un signore svizzero si rallegra con noi sull'aereo che ci porta a Vienna, dove attendiamo per due ore la partenza del volo per Roma. L'ultima tappa mi sembra la più lunga. Voglio vedere i compagni che ci stanno aspettando, e soprattutto Sveja e Michail; e poi tirarmi in disparte e lasciare, finalmente riunita, la famiglia Filipov. Mi rendo conto che i sentimenti rischiano di dominare, in questo momento, sulle considerazioni politiche. Ma cosa importa? Non abbiamo sempre detto che è questa la politica che ci i

nteressa, quella che sa creare il possibile e assicurare umane felicità, piuttosto che disumane tragedie? Sì, fra qualche giorno rilanceremo verso l'Europa nuove campagne: ci sarà a fine giugno la riunione del Consiglio della Cee ad Amsterdam, e noi saremo li a manifestare; ed in agosto proveremo a salpare con una nave dei diritti umani che porti informazione e proposte politiche verso la Germania Est, la Polonia, l'Unione Sovietica, Ma ora, mentre il DC9 dell'Australian Airlines sta atterrando a Fiumicino sotto la pioggia, tiro un sospiro di sollievo tra i più grandi della mia vita. Abbraccio Sveja, Michail, il segretario del partito che ha voluto essere il primo ad accoglierci. »E' una vittoria della nonviolenza. Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questa giornata riesco soltanto a dire davanti al muro di fotografi, di telecamere, di compagni che piangono, sorridono, applaudono, si spingono fino ad abbracciarci. Non sono cose che potremo dimenticare. Ma ora dovremo andare avanti, e molto. C'è b

isogno davvero -e questa storia ce lo dimostra- dell'impegno continuo di ciascuno di noi.

 
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