di Susan GeorgeSOMMARIO: I popoli dei paesi sottosviluppati non hanno bisogno di elemosine ma di aiuti per stimolare la produzione agricola. L'autrice sostiene la necessità di invertire il meccanismo degli aiuti dei paesi industrializzati al terzo mondo: prima bisogna fare l'inventario dei loro reali bisogni e solo successivamente reperire chi è in grado di soddisfarli. Attualmente invece si utilizza il sud del mondo per smaltire le eccedenze dell'occidente (intervento al Convegno internazionale di Roma contro lo sterminio per fame del febbraio 1986).
(Notizie Radicali n· 54 del 5 marzo 1986)
Signor Presidente,
parlando con degli amici italiani, ho constatato che nella legge, o nelle leggi italiane, c'è una separazione strutturale tra gli aiuti di emergenza e gli aiuti allo sviluppo. Non voglio certo ingerirmi nella vita politica italiana, ma ritengo che questo paese -di cui noi ammiriamo la qualità, la fantasia, la politica e la capacità di arrangiarsi da duemila anni- troverà il modo di superare le proprie divisioni e di elaborare un programma di cooperazione che fonda aiuti di emergenza e di sviluppo. A tal fine è necessaria anche la volontà di criticare i fallimenti degli ultimi trent'anni, perché solo se si è spietati nella nostra critica e nella nostra analisi, troveremo delle soluzioni per l'indomani.
Bisogna elaborare strategie radicalmente diverse, chiedendoci davvero chi ha fame, che ha bisogno di essere salvato.
Secondo la Banca mondiale, il novanta per cento di chi ha fame sono gli agricoltori. Ed è veramente incredibile! Si tratta di gente che abita in campagna e che potrebbe produrre alimenti, e invece sono quelli più colpiti dalla fame e dalla denutrizione. Gli amici africani qui presenti non mi contraddiranno se affermo che non ci sono mai stati morti di fame nei ministeri, nelle banche e nelle caserme del Terzo mondo. Muoiono le popolazioni rurali, i poveri.
Questi agricoltori che soffrono la fame sono comunque molto resistenti, sono sopravvissuti per millenni; hanno vissuto siccità, guerre, regimi dispotici e, cosa ancora più ammirabile, hanno resistito alle strategie di sviluppo degli ultimi trenta anni seguite da agenzie e da enti come la Banca mondiale: quindi, questi agricoltori hanno una incredibile capacità di sopravvivenza.
Essi hanno bisogno di produrre: non hanno bisogno di elemosine. Gli aiuti debbono essere lo stimolo alla produzione e, giustamente, l'ambasciatore ha detto che bisogna resistere alla tentazione degli aiuti alimentari.
Dobbiamo cedere alle lobbies, ai gruppi di pressione che vorrebbero utilizzare il Terzo mondo come mercato di smaltimento delle nostre eccedenze, oppure non sarebbe forse più intelligente aiutare a trasportare i prodotti delle zone eccedentarie a quelle deficitarie, incoraggiando il produttore del Terzo mondo che ha un buon raccolto, incoraggiarlo a produrre anche l'anno successivo ovviando alle deficienze riscontrabili in alcune zone che non hanno usufruito della possibilità di produrre?
Secondo me, questo tipo di aiuto triangolare -da una parte Italia, Belgio e poi i governi del Terzo mondo- in regioni che si trovano a livelli diversi, rappresenterebbe un valido incoraggiamento per le popolazioni rurali.
E' solo quando si arriva alla carestia che i mezzi di comunicazione si agitano e cominciano a ricevere delle immagini. Ma la carestia è come un cancro, si sviluppa in molto tempo, e possiamo anche distinguere tre stadi in una carestia: a volte passano mesi o anni prima che si arrivi alla crisi alimentare grave.
Un agricoltore etiope, intervistato in uno di questi campi, ai giornalisti che gli chiedevano se tornerà alla sua casa, ha risposto: »Ma come potrei tornare a casa mia? Avevo dei semi, li ho piantati, non è piovuto e i semi sono marciti; avevo due buoi, ma quando il cibo ha cominciato a scarseggiare ne ho abbattuto uno per mangiarlo e ho venduto l'altro; come potei tornare a casa mia? Ho mangiato il mio futuro .
Dovremmo forse immaginare nuovi tipi di cooperazione. Mi pare normale che un paese che contribuisce allo sviluppo voglia avere determinati risultati, e mi sembra normali che gli industriali italiani pensino che una parte degli aiuti stranieri dovrebbero tornare indietro... ad alimentare le industrie italiane, ma invece di dire che noi abbiamo la risposta e voi la domanda, noi abbiamo il vaccino e voi avete la malattia, perché non dovremmo partire dai bisogni del Terzo mondo?
Bisognerebbe veramente redigere l'inventario dei bisogni tecnologici, bisogni di materiale eccetera, e dopo avere fatto questo inventario, non qui da noi, ma da loro, dovremmo vedere chi, in Italia o in Belgio, sarebbe in grado di soddisfare questi bisogni. Non bisogna procedere nel senso inverso, dicendo che noi abbiamo una locomotiva, per cui loro ne hanno bisogno.
Poi, in considerazione delle ingentissime spese per gli armamenti, e del fatto che esistono paesi del Terzo mondo che hanno bisogno di un esercito, perché la loro sicurezza è minacciata, non sarebbe forse possibile che dei paesi del Nord aderiscano a patti di sicurezza, con questi paesi? Proponendo: se sarete attaccati verremo a soccorervi, ma in cambio di questo ridurrete il vostro bilancio degli armamenti per investire nella sanità, nell'istruzione, nell'agricoltura.
Paesi come il Belgio e l'Italia non hanno il diritto di fallire, perché gli occhi di tutto il mondo sono puntati su di loro: sono due paesi, certo non i più grandi del mondo, ma che hanno avuto il coraggio politico, spinti anche da movimenti come Sopravvivenza in Belgio, e Food and Disarmament in Italia, di compiere uno sforzo per lo sviluppo, mentre in tutto il resto del mondo gli stanziamenti destinati agli aiuti calano.
Se questi paesi, l'Italia e il Belgio, oltre al coraggio politico, non avranno anche l'abilità politica di porre in essere nuove strategie, se si tratterà di una mera ripetizione, di riproduzione di strategie tradizionali che condurrà a nuovi fallimenti, allora veramente sarebbe il disastro.