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Signorino Mario - 5 marzo 1986
Fame: Farnesina supermarket
di Mario Signorino

SOMMARIO: I 15 mila miliardi destinati dall'Italia, negli ultimi 6 anni, all'aiuto pubblico ai paesi in via di sviluppo non hanno prodotto alcun risultato significativo nella lotta contro la fame e il sottosviluppo. Interventi a pioggia su centinaia di paesi senza la possibilità di un impatto significativo; invio di attrezzature e di derrate alimentari secondo le esigenze dei produttori nazionali e non dei destinatari. La necessità di riformare urgentemente la legge sulla cooperazione.

(Notizie Radicali n· 54 del 5 marzo 1986)

La politica condotta finora dall'Italia per l'aiuto ai paesi sottosviluppati è fallita. E' questo il punto che va formalmente fissato nel dibattito politico, a sette anni dall'approvazione della legge 38 sulla cooperazione allo sviluppo e a un anno dal varo della legge 73, per l'intervento straordinario contro la fame nel mondo.

Proprio nei mesi in cui si doveva attuare il massimo sforzo per sperimentare una svolta, si è lavorato a sostegno del vecchio, sprecando opportunità politiche, risorse, strumenti legislativi. Questo vale sia per a legge 38 e il Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo (Dipco), sia per la legge 73 e il sottosegretario onorevole Forte; e pone al centro la questione della responsabilità politica del ministro degli Esteri e del governo, al di là delle carenze e degli errori dei responsabili operativi.

Negli ultimi cinque anni l'Italia ha stanziato per l'aiuto pubblico allo sviluppo 11 mila miliardi di lire, 15 mila includendo l'anno in corso: di questi, 1900 sono stati attribuiti all'onorevole Forte. La cifra è irrisoria, se confrontata al totale degli aiuti internazionali o alla consistenza del debito estero dei Pvs; ma è molto consistente se rapportata ai nostri problemi di bilancio o, ancor di più, alle esigue risorse di cui dispongono i paesi poveri.

A che cosa sono serviti questi miliardi? Quale impatto hanno avuto sulle aree in cui sono stati impiegati? L'analisi dei documenti disponibili consente una sola risposta: questi miliardi non sono riusciti a scalfire il circolo vizioso del sottosviluppo in nessuno dei paesi in cui sono stati investiti. In una parola, sono stati sprecati.

In questo senso, il caso della Somalia, per la quale sono stati spesi o ci si prepara a spendere circa 1.500 miliardi di lire, non rappresenta l'eccezione, malgrado la priorità accordata a questo paese; ma è un segno della inutilità generale della nostra politica di aiuti, sia essa concentrata o attuata a pioggia.

In verità, dal punto di vista della lotta al sottosviluppo, quella italiana è una non-politica. Una facciata solenne di buone intenzioni e di dichiarazioni di principio copre una pratica tenace di affarismi e di vecchia politica estera.

Ufficialmente all'avanguardia negli aiuti, il governo italiano si distingue per erogazioni facili di denaro, inefficienza, disorientamento. Le tracce più visibili del suo operato sono che le quote di risorse che ingrassano i »signori degli aiuti , esperti italiani e internazionali, imprese e istituti, enti e associazioni, produttori e trasportatori di merci, oligarchie locali.

Vista dall'Africa, la Farnesina appare come un supermarket, non come un centro di direzione politica. Chi vuole si accomodi: c'è bisogno di piazzare centinaia di camion, preferibilmente militari? Aeroporti? Sistemi di telecomunicazioni? Piani regolatori di città composte perlopiù di baracche? Laboratori nucleari? Impianti chimici? Liofilizzati o sardine sott'olio? Il supermarket della Farnesina non si tira indietro: basta seguire le procedure del Dipco e pazientare per le lungaggini burocratiche; oppure, nel caso dell'onorevole Forte, brevi manu e senza troppe pastoie. Ma l'esito non cambia.

Per anni si è bloccata qualsiasi possibilità di svolta agitando la banalità della formula »non pesci ma canne per pescare . Di canne ne abbiamo spedite tante, la stragrande maggioranza del nostro aiuto non è certo di derrate: com'è che in quei paesi si continua a non avere pesci e a non pescare? E dove sono oggi quei critici, perché non dicono nulla sul modo in cui vengono spesi i fondi per la cooperazione, quelli gestiti dall'onorevole Forte e quelli, assai più consistenti, del Dipco?

La risposta generale è che bisogna riformare con urgenza la legge 38 sulla cooperazione. Ma non è una risposta seria se prima non si fa chiarezza sulla politica che si è realizzata in questi anni, sui suoi effetti e sui suoi errori (persino l'indagine conoscitiva del Senato è rimasta incompiuta, se prima non si riesce a delineare con chiarezza quale politica si vuole realizzare in concreto, la riforma della 38 porterà solo a qualche aggiustamento burocratico.

Peggio: grazie anche alla fallimentare gestione della legge 73 (e all'uso strumentale che ne fanno i sostenitori del Dipartimento) si istituzionalizzerà un dualismo di gestione: da una parte la facciata umanitaria degli interventi di emergenza e contro la fame, dall'altra la normalità della cooperazione come affarismo e sostegno alle esportazioni.

La politica degli aiuti sarà così preda di una lottizzazione simile a quella che opprime la Rai, con i poteri spartiti in due »canali : il più esiguo, quello di emergenza, affidato al socialista di turno: e quello »normale saldamente in mano alla Dc. Non mancano ovviamente le briciole, più o meno consistenti, al partito comunista.

No, una vera riforma della politica degli aiuti è ancora lontana dalla volontà e dalla capacità dei partiti. In fin dei conti, del sottosviluppo e della fame importa qualcosa a qualcuno?

Dipartimento per la cooperazione

Negli ultimi due anni il Dipartimento ha migliorato le sue prestazioni, riducendo la sfrenata dispersione degli investimenti, aumentando la capacità di spesa. Ma non è in alcun modo migliorata la capacità progettuale e, anzi, diventa sempre più evidente l'assenza di una politica.

La rinuncia a programmare è ormai teorizzata. A causa della legge 38, si dice, il Dipartimento può finanziare solo progetti presentati dai governi beneficiari. Si tratta però di un'interpretazione arbitraria della legge che, all'art. 14 pone questo vincolo solo per studi e progettazioni e per studi di programmazione generale e specifica.

Riguardo ai propri interventi, il Dipco si dimostra assai discreto, anzi geloso. Certo, dopo la campagna radicale del 1984, ha cominciato a fornire più carte e a mettere più ordine nei propri rendiconti. Ma la situazione resta scandalosamente deficitaria e reticente.

Come rileva la Corte dei Conti nella sua relazione sull'esercizio 1984, persino la verbalizzazione delle delibere adottate dal Cipes, dal Comitato direzionale e dal Comitato consultivo è »caratterizzata da deficienze di forme e da notevole genericità e frammentarietà di contenuti . In parole povere non si capisce quasi nulla.

Si fa fatica a stabilire con certezza persino gli stanziamenti annuali e le relazioni del Dipartimento non indicano neanche i relativi capitoli di bilancio. Un esempio? Nella relazione dell'esercizio 1984, il Dipco fornisce a distanza di poche pagine cifre diverse per gli stanziamenti del Fondo di cooperazione, con differenze di 18 miliardi per il 1981, di 37 miliardi per il 1982, di 33 miliardi per l'83, di 65 miliardi per l'84.

Vi sono divergenze di calcolo tra il Dipartimento e la Corte dei Conti. La capacità di spesa, ad esempio, secondo la Corte ha avuto un iter decrescente negli ultimi anni passando dal 71% del 1980 al 61% del 1981, al 49% del 1982, al 43,5% del 1983, al 43,4% del 1984; per attestarsi su un valore medio nel quinquennio pari al 45,6% delle disponibilità. Per il Dipartimento, invece, non solo la media annuale sarebbe crescente, ma il calcolo complessivo medio sarebbe superiore al 65%.

Le reali disponibilità di cassa non sono note, in quanto il Dipartimento non offre cifre esatte sui fondi non spesi nel passato. Si afferma anzi che i residui sarebbero praticamente nulli, sì da rendere impossibile l'assunzione di nuovi impegni nell'anno in corso.

In realtà, secondo i nostri calcoli, il Fondo di cooperazione disponeva al 1· gennaio 1986 di circa 480 miliardi non spesi negli esercizi precedenti, da aggiungere allo stanziamento di quest'anno per un totale di circa 1.300 miliardi.

Quanto al Fondo rotativo per i crediti di aiuto, nell'ultimo referto in corso di esercizio, la Corte dei Conti comunica che, al 30 giugno 1985, la disponibilità di cassa era pari a 1.222,3 miliardi di lire; quest'anno dunque il residuo dovrebbe essere superiore ai settecento miliardi.

Veniamo ora alle erogazioni, che registrano un costante miglioramento. Tralasciando l'attività multilaterale, che si risolve in un trasferimento di crediti agli organismi internazionali, si hanno i seguenti dati riferiti al Fondo di cooperazione: nel 1981, stanziati 150.205 miliardi, spesi 87.351 miliardi: nel 1982 stanziati 317.133 miliardi, spesi 199.708: nel 1983, stanziati 570.000 miliardi, spesi 339.276: nel 1984, stanziati 765.078, spesi 496.125.

Nel 1985, secondo notizie confuse il Dipartimento avrebbe speso circa 830 miliardi: più, quindi, dello stanziamento annuale che era stato ridotto, per effetto della legge 73, a 600 miliardi. Uguale livello di spesa sarebbe stato raggiunto nel 1985 anche per il Fondo rotativo dei crediti di aiuto.

Come sono stati raggiunti questi traguardi? Dai dati parziali contenuti nel referto in corso di esercizio della Corte dei Conti risulta che il contributo determinante all'aumento delle erogazioni viene dal settore multibilaterale, cioè dalle iniziative non attuate direttamente dal Dipartimento ma da organismi internazionali, su finanziamento del Dipco stesso. (164 miliardi spesi a metà anno, contro gli 87 miliardi spesi nell'intero 1984).

Probabilmente, alla preferenza per lo strumento multibilaterale non è estraneo il fatto che le decisioni di spesa in materia non devono passare attraverso la sezione speciale, ma dipendono esclusivamente dal direttore del Dipco.

Nulla da dire, comunque, in teoria; in pratica però l'assenza di una chiara politica rischia di esasperare, attraverso i progetti multibilaterali, la casualità e la disorganicità dell'azione. In più, si tratta di uno sveltimento delle erogazioni, non degli interventi.

Simili considerazioni vanno fatte per l'altra voce di maggior rilievo, i programmi di formazione professionale in loco: utili in teoria, inutili nella pratica se non rientrano in progetti organici di sviluppo (nel 1984 sono stati spesi 170 miliardi, 78 nella prima metà del 1985).

Da respingere decisamente invece la proliferazione di programmi di formazione attuati in Italia, per i quali nella prima metà del 1985 sono stati spesi più di 29 miliardi, contro i 39 complessivamente spesi nel 1984.

Il rischio che si delinea è che il Dipco si riduca sempre più a un centro di erogazione, sottraendo definitivamente alla nostra politica di cooperazione la possibilità di un'azione organica e chiaramente finalizzata. L'impressione è confermata dalla scomposizione della spesa operata dalla Corte dei Conti nel referto citato, in relazione alla tipologia degli interventi.

Un'altra conferma viene dal mediocre andamento delle iniziative direttamente attuate dal Dipartimento. Valga per tutti l'esempio del Programma Sahel, lanciato con clamore nel 1982 con una spesa prevista di 700 miliardi in 5-7 anni, ma che segna tuttora il passo, sì da indurre il Dipco a riconoscere che »la gran parte degli interventi finanziati sono ancora in corso di esecuzione .

In sostanza, all'aumentata capacità di spesa non corrisponde una maggiore capacità progettuale e si pone, anzi, assai più in evidenza il problema di come si spende e per che cosa. Problema di difficile soluzione, anche perché non è possibile valutare l'utilità reale dei fondi che il Dipco trasferisce annualmente agli organismi internazionali (dai 657 miliardi del 1981 ai 1.140 del 1985), né, tantomeno, il ruolo effettivo dei crediti di aiuto, che rimangono un capitolo oscuro e inquinato dagli interessi. Non è un caso se il Mediocredito centrale non dispone di una banca dati e non è quindi possibile operare un'analisi incrociata dei crediti all'esportazione e dei crediti di aiuto.

Che fine fanno dunque questi soldi, a che cosa servono? Il Dipco non contesta la legittimità della domanda, anzi: »è ben comprensibile -scrive nell'ultima relazione annuale- che ci si chieda quali siano stati i risultati ; »non vi è dubbio che un riscontro sostanziale dei risultati ottenuti finora debba essere fatto , in particolare per »l'impatto sulla realtà socio-economica dei paesi destinatari ...

Risultati però, zero. Si annuncia l'allestimento di un sistema automatizzato di controllo, ma l'unica comunicazione che viene fatta riguarda il numero delle iniziative varate nel 1980 (385 iniziative progettate, 256 concluse nell'anno, 77 tuttora in corso). Nel Libro bianco presentato alla seconda conferenza dell'Ipalmo è contenuto un elenco dei progetti per paese, ma i dati sono talmente sommari da non consentire alcun giudizio.

Conclusione: il Dipartimento ha imparato a spendere di più, ma continua a non saper valutare l'utilità di quel che fa.

Il servizio speciale dell'onorevole Forte

Agli inizi, le immagini e la fantasia si sono sprecate: il sottosegretario Forte con il gesto amplio del seminatore; il sottosegretario Forte che vaccina i bambini nel Kordofan (Sudan) a cavallo di una sorta di aliante sigla Foxcat o Eagle (la missione Airone dell'Unicef) con annesso frigorifero... Ma i fatti hanno imposto presto un giudizio duro sull'attuazione della legge 73 dell'8 marzo 1985.

Anche troppo presto: un passo decisivo per il fallimento della legge, infatti, è stato compiuto con la delibera Cipes del 31 maggio 1985, che ha vanificato il criterio della concentrazione degli aiuti fissato dalla legge 73, dando al sottosegretario la facoltà di spaziare nell'universo mondo del sottosviluppo.

La prima relazione quadrimestrale al Parlamento (luglio 1985) mostrava un sottosegretario impegolato per mesi in piccole rivalità e dispetti con il Dipco, in difficoltà persino nel procurarsi un ufficio decente, preoccupato più di evitare accuse di irregolarità che di approntare programmi immediatamente operativi.

Sempre nell'estate 1985 veniva annunciata con clamore la costituzione di due comitati consultivi, »per il controllo dell'operato del sottosegretario. Ahimè, non di controllori si trattava ma di consulenti, alcuni dei quali pagati dal controllato stesso.

La seconda relazione quadrimestrale e il programma generale d'intervento hanno confermato, infine, le peggiori previsioni. Risalta soprattutto la grande capacità del sottosegretario di accontentare i più diversi interessi in campo, predisponendo così una sorta di clima protettivo attorno al proprio operato.

Tra esperti, ditte e soggetti a vario titolo incaricati degli interventi, emerge uno spaccato del sistema di lottizzazione nazionale che coinvolge tutte le aree politiche, compresi i comunisti, le maggiori industrie, cooperative, regioni, comuni, sindacati, associazioni di volontariato, eccetera.

Ma il dato più grave è la vanificazione delle finalità e degli indirizzi della legge 73, la quale -ricordiamolo- prevedeva la concentrazione degli interventi, la loro finalizzazione »a garantire la sicurezza alimentare e sanitaria , »al fine di assicurare la sopravvivenza del maggior numero possibile di persone minacciate dalla fame e dalla denutrizione e tentare così di incidere sugli indicatori dello stato di povertà e soprattutto sui tassi di mortalità. Come in molte delle nostre leggi, la norma è troppo generica e consente quindi ogni tentativo di elusione.

Difficile dire, tuttavia, che cosa rimane di questi obiettivi quando il sottosegretario agisce da supporto ad una politica estera, alla quale la lotta al sottosviluppo è da sempre estranea. E' il caso della Somalia, che solleva anche critiche più particolari in relazione al tipo di interventi decisi; è certo, ad esempio, che la costruzione della strada Garoe-Bosaso di 450 chilometri potrebbe rientrare nei programmi a lungo termine del Dipartimento, ma non è consentita dalla legge 73 e dalla relativa delibera del Cipes.

Nel documento del 31 maggio 1985, infatti, il Cipes impegna il sottosegretario ad adottare programmi di intervento »caratterizzati da celerità e flessibilità di attuazione , con »la conseguente esclusione, in ragione di tale esigenza di pronta operatività, della realizzazione di grandi infrastrutture, la cui messa in opera richieda un periodo di tempo troppo prolungato in relazione alle finalità della legge ed i cui effetti iniziali siano parimenti differiti nel tempo .

Malgrado questi chiarissimi indirizzi, la convenzione firmata il 31 ottobre 1985 con Techint prevede tempi che vanno molto al di là della scadenza della stessa legge 73 e dei relativi poteri straordinari: il 31 dicembre 1987 ed oltre.

Anche la convenzione con Italtekna, firmata il 25 luglio 1985, prevede la prosecuzione dei servizi oltre la data di scadenza della legge.

Tuttavia, la carenza più grave, anzi la distorsione più grave della legge 73, consiste nell'aver rinunciato, in sede di programmazione, a valutare l'impatto complessivo atteso dell'intervento nelle aree prescelte. Con il che il sottosegretario straordinario si è posto sullo stesso piano del Dipartimento.

 
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