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Negri Giovanni - 17 aprile 1986
Referendum: ma la scommessa è più alta
di Giovanni Negri

SOMMARIO: "Mentre come radicali ci impegnamo a far la nostra parte e a dare il nostro contributo in questa campagna per i referendum, ben sappiamo che la firma non basta, che la scommessa per cambiare e per garantire democrazia al paese è molto più alta, difficile e necessaria".

(Notizie Radicali n· 89 del 17 aprile 1986)

Cinque firme per cinque referendum. Tre sulla giustizia perché si ristabiliscano i principi del diritto. Due sulla caccia per riaffermare la volontà di tutela del nostro ambiente.

Cinque firme per permettere agli italiani di dire la loro su altrettanti temi decisivi, comunque rilevanti.

E' certo che si voterà? No. La firma è indispensabile, ma non vendiamo fumo e non promettiamo quello che certo non è. Del resto: che cosa è ancora certo nel nostro paese? Forse è solo cero che mai come oggi nel nostro paese la legge non è uguale per tutti, che i signori per i quali la legge è più uguale sono sempre più potenti e prepotenti, che in ogni grande ambito della vita pubblica e in quasi tutti i rapporti fra cittadino e Stato vige la »legge del più forte .

E' in balia di questa che si ritrova l'umile, il povero, l'emarginato, il senza-voce. E' al suo arbitrio che ci si deve affidare nella speranza di ricavarne briciole: le briciole di lavoro, di giustizia, di sanità, di pensione, di informazione. L'unica alternativa è la piccola astuzia con la quale tirare a campare: e, stretti fra la legge del più forte e la piccola astuzia, uomini e donne di questo paese -più che i cittadini di una moderna democrazia che si appresta a tagliare il nastro del millennio- ricordano Renzo e Lucia, tremebondi all'idea di trovarsi nelle condizioni di dover fare i conti con questa giustizia, questa sanità, questa previdenza, con servizi pubblici che ben sanno di non essere affatto imparziali e sempre più avvertono non come beni indisponibili della collettività -governati secondo giuste regole e logici criteri- bensì come veri e propri territori occupati, spartiti, saccheggiati dalle contee di potere di grandi feudatari, vassalli, capitani di ventura.

E', questa, democrazia? Conosco la risposta di molti, l'inutile »buon senso che non aiuta a capire, e a capire che fare. Questa sarebbe la consueta esagerazione radicale, che contiene un'intuizione giusta affogata come al solito l'errore smodato. La partitocrazia certo esiste (ormai lo dicono tutti), ma le tinte del quadro non sarebbero così fosche: in fin dei conti non siamo in dittatura, è uno dei paesi più liberi del mondo, e non è forse vero che questi grandi feudatari della partitocrazia li eleggiamo con il nostro voto? Già, il voto. A cosa serve oggi il voto? Non si vota per un governo impegnato ad attuare ciò che ha garantito e promesso, né per un'alternativa chiara e credibile, per un'opposizione degna di questo nome pronta ad assicurare ricambio e rinnovamento. Da oltre quarant'anni, unico paese dell'Occidente, l'Italia è il regno dell'assoluta stabilità -nei volti e nei nomi- di chi comanda: una stabilità che si perpetua attraverso la conflittualità permanente, le crisi di governo, le elezioni ant

icipate che sembrano mutare tutto e alla fine lasciano tutto immutato. Il voto di ognuno (ammesso che non sia stato contraffatto dagli scrutatori-mercenari dei partiti) non finisce »in politica , non finisce in scelta di governo. Finisce in merce di scambio: è contrattato, venduto, ceduto, scambiato in Parlamento, alla Rai, nelle Unità sanitarie locali, nei comuni, nelle province e nelle regioni. Buono solo per perpetuare questo sistema, ben rappresentato da un Parlamento svuotato di qualsiasi funzione dalla partitocrazia, disertato e deserto non solo per il colpevole assenteismo dei deputati, ma per il senso di inutilità, frustrazione e impotenza che ha invaso ogni cosiddetto »rappresentante del popolo .

Il sistema partitocratico produce uno strano trittico, estraneo alla democrazia politica: un governo che in realtà decide poco e male. Un Parlamento che conserva (soprattutto privilegi ed interessi corporativi), un paese che subisce, pagando il prezzo dell'assenza di Costituzione, di leggi e di regole rispettate. L'irresponsabilità nel governo della cosa pubblica non ha perciò briglia e l'arrembaggio al potere trova una simmetrica corrispondenza nella criminale spregiudicatezza che -in assenza di regole e di controlli- produce vino al metanolo, acque cancerogene, abusivismo edilizio selvaggio, moltiplicazione delle Seveso. fenomeni che dilagano e che una partitocrazia fuorilegge non contrasta.

Per questo affermiamo che dopo quarant'anni di regime democristiano e qualche lustro di ormai esplicito regime a tutti gli effetti partitocratico, una Repubblica umiliata nelle speranze e nei valori che l'avevano fondata può riscattarsi solo ricostituendo un quadro preciso di regole, diritti, doveri, poteri e garanzie. In una parola ricostituendo e rigenerando Democrazia.

Ben vengano dunque questi referendum. Via i privilegi odiosi di una casta politica che attraverso la Commissione inquirente ha insabbiato le sue malefatte e i grandi scandali che hanno corrotto la vita pubblica. Via l'immunità totale per una magistratura troppo spesso dimostratasi forte con i deboli e debole con i forti, non immune perciò da errori e omissioni, che deve essere chiamata a rispondere del tipo di giustizia che a volte si celebra, ma soprattutto dei processi che non si fanno, in ossequio o in accordo con altri potentati. Via gli orpelli dello strapotere politico e del nuovo strapotere cresciuto all'ombra delle »emergenze e delle irresponsabilità. Ogni firma per l'abolizione della Commissione inquirente, per la modifica del Consiglio superiore della magistratura, per la responsabilità civile del giudice, è firma di speranza democratica, di risoluta volontà e fiducia nello Stato di diritto e nei suoi principi. E tuttavia mentre richiediamo di firmare e di far firmare, mentre come radicali ci impe

gnamo a far la nostra parte e a dare il nostro contributo in questa campagna per i referendum, ben sappiamo che la firma non basta, che la scommessa per cambiare e per garantire democrazia al paese è molto più alta, difficile e necessaria.

Il Partito radicale vive questo problema drammaticamente, rifiutando di non vedere e denunciare la situazione per quella che è.

Senza rimozione, trucchi, infingimenti, i radicali hanno deciso al loro ultimo congresso un impegno straordinario di un anno per aprire un confronto reale, adeguato, profondo sullo »stato della non-democrazia italiana , per provocare quella inversione di rotta che è indispensabile per il diritto: per i diritti del cittadino non meno che per il diritto ad esistere di un partito libero, onesto, non di potere come è il nostro, in grado di continuare a far crescere le sue battaglie solo in democrazia. Se non ce la faremo, se non riusciremo ad onorare l'impegno, se non vi sarà moltiplicazione straordinaria delle nostre energie e delle nostre forze -limitate al momento a poche centinaia di iscritti su decine di milioni di italiani- se, come è oggi probabilissimo, perderemo questa scommessa, il Partito radicale deciderà al prossimo Congresso di novembre la cessazione delle sue attività. Non c'è infatti patrimonio politico, per quanto grande e nobile, capace di vivere e crescere in mancanza di regole del gioco ugual

i per tutti. Ciò accade, non paradossalmente, nel momento in cui le idee e la politica radicale incontrano un'attenzione, un ascolto, un interesse che forse non ha precedenti: la lotta allo sterminio per fame vede mobilitarsi consistenti ed autorevoli settori del mondo cattolico, altre forze politiche acquistano consapevolezza dell'urgenza di affrontare la »questione giustizia , la speranza dell'unità politica europea apre il conflitto fra chi riduce l'europeismo a parola vuota e chi opera comprendendo la sua inderogabile portata storica, cresce come esigenza diffusa l'ecologia politica (anche si ci sono voluti, dopo le denunce radicali di questi anni, i morti per vino, per acqua, per frane, per bradisismo), si svela l'inconsistenza di un pacifismo neutralista e burocratico che non sa opporre alla follia riarmista alcun consistente progetto politico di pace e sicurezza internazionale... e l'elenco potrebbe continuare.

Non è l'orgoglio di partito ma la forza delle cose a dirci quanto è oggi preziosa la politica radicale. Non è la strumentale ricerca di alibi ma la lucidità a dirci quanto è in pericolo il Partito radicale: quanto è vivo e quanto può morire.

Non dipende solo da noi. Non dipende da poche centinaia di iscritti al Partito radicale, che sono per ora i soli a permettergli di esistere.

 
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