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Spadaccia Gianfranco - 17 aprile 1986
Dagli al referendum
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: L'autore risponde alle critiche rivolte ai referendum sulla giustizia dall'Associazione Nazionale dei Magistrati (ANM), dai repubblicani e dai comunisti

(Notizie Radicali n· 89 del 17 aprile 1986)

Alcuni attacchi pretestuosi sono stati rivolti ai tre referendum promossi da socialisti, liberali e radicali.

Uno dei terreni favoriti di attacco -scelto dapprima dall'Associazione nazionale magistrati a ranghi serrati, e poi adottato da repubblicani e comunisti- riguarda la pretesa contraddittorietà socialista e liberale, di due partiti cioè di governo che promuovono referendum abrogativi di leggi vigenti.

E', in questi attacchi, implicito e scontato il giudizio che dei partiti di governo, e in particolare il partito che ha come suo segretario il presidente del Consiglio, disponendo di una maggioranza parlamentare, o almeno facendone parte, debbano avere in questa lo strumento, se non esclusivo almeno privilegiato, per la riforma delle leggi vigenti, anziché ricorrere ad uno strumento di democrazia diretta che fa appello direttamente al popolo attraverso il referendum.

Argomento affatto implicito e tantomeno scontato, in Italia anzi del tutto infondato. Innanzitutto per l'eterogeneità delle coalizioni di governo che raramente consentono di impegnare la maggioranza su convergenti scelte di valore: basti pensare alle divergenti posizioni della Dc e dei laici su divorzio e aborto nelle maggioranze di centrosinistra, tanto che si dovette convenire che era legittimo su questi problemi costituire alleanze e schieramenti diversi da quelli della maggioranza di governo.

Ma non si tratta solo di questo. Il concreto funzionamento del nostro sistema parlamentare attribuisce di fatto al partito comunista una sorta di diritto di veto, che paralizzerebbe comunque la maggioranza anche nell'improbabile caso in cui si verificasse al suo interno una volontà politica convergente.

E' quanto si è verificato nella riforma del sistema elettorale del Csm, fortemente osteggiata dalle correnti di Magistratura democratica e Unità per la Costituzione, e -nel Parlamento- dal Pci. E' stata sufficiente la ferma opposizione del Pci a far ritirare un emendamento della maggioranza. Perfino votare in Parlamento quando scattano i diritti di veto, diventa un reato di lesa partitocrazia.

Ma qualcosa di simile è avvenuto anche sulla questione della responsabilità civile del giudice: una maggioranza della Commissione giustizia della Camera aveva deciso di iscrivere nel proprio programma dei lavori parlamentari un disegno di legge che regolamentava la materia. Si è riusciti però, anche in questo caso, a non farne niente invocando la contemporanea discussione al Senato dei progetti di legge riguardanti la responsabilità disciplinare del magistrato. Si trattava di argomenti diversi, e al Senato erano inesistenti progetti sulla responsabilità civile. Ma è stata stabilita una sorta di »attrazione del primo argomento sul secondo. E ciò è stato sufficiente a bloccare la discussione già decisa alla Camera sulla responsabilità civile. Perché allora meravigliarsi che anche dei partiti della maggioranza possano essere costretti a ricorrere all'arma del referendum per conquistare il diritto al confronto democratico e superare così i paralizzanti diritti di veto determinati dalla patologia conservativa de

l nostro sistema politico?

In realtà sulle questioni della giustizia (politica di garanzie costituzionali contro la politica di emergenza) si è verificata spesso una sintonia ideale almeno nelle tendenze di fondo e nelle aspirazioni, se non nei comportamenti fra i tra partiti che ora si sono ritrovati uniti nei referendum. Pci e Pri si sono ritrovati invece quasi sempre uniti su posizioni contrastanti: e la Dc al suo interno abbastanza divisa su tali questioni. Sicché è del tutto arbitrario pretendere di dare per scontata la corrispondenza degli schieramenti parlamentari agli schieramenti che si registrano su questi argomenti.

A maggior ragione appare ridicola un'altra tesi che è stata pretestuosamente fatta valere nelle polemiche che sono seguite all'annuncio dei referendum: la tesi che contesta alle forze rappresentate in Parlamento il diritto di promuovere referendum, quasi che questo istituto sia riservato dalla Costituzione alle forze extraparlamentari. La »Voce repubblicana è giunta ad ironizzare sul Parlamento che ricorrerebbe al referendum contro se stesso. Qualche altro è arrivato a parlare di referendum partitocratici. Tesi ridicole. Si dà il caso che il costituente abbia previsto il referendum proprio come prova di appello che le minoranze sconfitte in Parlamento potevano sollecitare davanti al corpo elettorale.

Più seriamente ed onestamente Andrea Manzella, in un articolo su »La Stampa , ha ricordato il valore di questo istituto in un sistema parlamentare e legislativo »bloccato come il nostro. Ed ha fatto una scommessa: che anche su questi argomenti la promozione dei referendum varrà, da sola, a smuovere il Parlamento e a indurlo a legiferare. E' possibile, ma non è detto che sia opportuno. Ci sono state pessime leggi nate dal desiderio di evitare prove referendarie: valgono per tutti l'esempio della 180 (la chiusura dei manicomi non accompagnata da serie misure alternative) e la legge-truffa sull'Inquirente.

 
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