di Roberto CicciomessereSOMMARIO: Il Partito radicale ha programmato il suo autoscioglimento ma, con questo gesto, esso non intende concentrare l'attenzione su di sé. Ciò che invece è oggi in discussione è la praticabilità stessa della politica. La gente, ormai, è disponibile a mobilitarsi solo in presenza di drammi che toccano un livello di consapevolezza individuale - il cancro, ad esempio - ma non si muove più su grandi temi di impegno civile, collettivo, e questa esperienza è comune a tutti i partiti. La degenerazione partitocratica dello Stato italiano e il ruolo dell'informazione pubblica gestita dalla RAI sono i principali imputati per questo pernicioso cambiamento verificatosi in Italia negli ultimi anni.
Persino Rossana Rossanda, scrivendo "a proposito di partiti", riesce a rimuovere quella vicenda che vede un partito, il partito radicale, programmare il suo autoscioglimento per tentare di rendere palpabili, comprensibili alla gente proprio quelle mutazioni e degenerazioni della politica che nel suo articolo analizza e denuncia ?
Lo metto nel conto di quella strana contraddizione per cui Rossana Rossanda riesce, nel dissenso e nel consenso critico, a scrivere le cose più interessanti (e a volte anche più belle), sui fatti politici che produciamo, e non riesce a prestare attenzione alle nostre proposte politiche complessive e alle analisi politiche, senza le quali quei fatti non sarebbero possibili.
Rossana Rossanda ci invita a parlare della separatezza "della politica dalla società civile", e a non parlare di partitocrazia "come se l'Italia fosse governata dalla sfera del politico, e per essa dai vertici dei partiti". A questi è invece rimasto il sottogoverno e neppure la capacità di lottizzarlo.
La tesi è suggestiva, ma non convincente. Avanzo due obiezioni.
Il fenomeno che Rossana Rossanda così bene descrive non è proprio il fenomeno della degenerazione partitocratica della democrazia ? La partitocrazia non è infatti il potere dei partiti, ma un surrogato della democrazia politica che si manifesta quando i partiti non riescono ad esercitare il proprio potere nelle forme e con le regole della democrazia. La partitocrazia viene generata da questi partiti, ma a sua volta li corrode, li svuota, perché disloca il potere al di fuori dei luoghi formali della democrazia, non soltanto nelle istituzioni ma negli stessi partiti. Nasce come potere degenerato "dei" partiti e finisce per trasformarsi in potere "sui" partiti. Di qui l'importanza crescente delle massonerie non soltanto piduistiche, degli accordi trasversali, delle cordate interpartitiche che condizionano le scelte interne dei partiti, dei compromessi e delle spartizioni fra maggioranza e cosiddette opposizioni, dell'area sempre più estesa di questioni decise con il "metodo De Mita" o con le pretese "maggioranz
e costituzionali" che quasi nulla hanno di costituzionale.
La seconda obiezione riguarda proprio l'assunto principale dell'articolo.
Siamo sicuri che vi sia ancor oggi una separazione fra politica e "società civile", vi sia cioè una domanda inevasa della società civile, a cui i partiti non possono e non riescono dare risposta?
Non è accaduto invece che i meccanismi della conoscenza, presupposto della politica, siano ostruiti sia per la società civile che per la classe politica ?
Perché infatti, oggi, è possibile mobilitare molte migliaia, centinaia di migliaia di persone contro il cancro o per salvare la vita ad una bambina, e invece è praticamente impossibile, per qualsiasi forza politica, di destra o di sinistra, alternativa o meno, mobilitare in modo consistente e significativo l'opinione pubblica anche quando riesca a proporre - e non accade spesso - un progetto politico dignitoso, oggettivamente ancorato a grandi e significative problematiche ?
Perché anche le fasce elettorali urbane, tradizionalmente meno sottoposte al ricatto clientelare, che negli anni sessanta e settanta hanno prodotto i maggiori spostamenti di voti, oggi appaiono insensibili a qualsiasi proposta di mutamento ?
Non riesce più a mobilitare, a orientare nè il partito comunista, nè i verdi, nè i socialisti e neppure i radicali.
La grande stagione delle grandi riforme, "dal diritto dei lavoratori alla giustizia e ai diritti civili", è finita perché il fronte del conflitto si è spostato "delegittimando la principale discriminante fra le forze politiche" che oggi passa invece "fra l'aggressiva domanda della 'nuova destra' di dare priorità assoluta ai meccanismi produttivi e chi non vi si oppone, ma si limita a cercar di correggerne le conseguenze più dure"?
Mi permetto di aver qualche dubbio su questa spiegazione e ricostruzione storica. Proprio di quella stagione sono stato perlomeno diretto testimone. Ho altri ricordi.
La politica a cui fa riferimento Rossana Rossanda nasceva, come sempre, dalla saldatura fra conoscenza individuale e consapevolezza collettiva. Sempre meno le organizzazioni sociali, sindacali e partitiche provvedevano alla delicata saldatura di questi due momenti. "Dalla Dc di Moro ai socialisti, ai comunisti", i partiti erano sempre meno riconoscibili proprio sul "come, sulle priorità, sui tempi e sui modi", diversamente da quanto scrive Rossana Rossanda. Proprio in quegli anni veniva preparato e concepito il compromesso storico.
Quella saldatura era invece, in misura consistente, il prodotto di una informazione di massa che, nonostante Bernabei, nonostante i partiti, prorompeva per la prima volta con la Tv nelle case di tutti gli italiani. Soprattutto di quelli - la maggioranza - che non leggevano i giornali.
Non c'era potere partitocratico. Non c'era lottizzazione. Per i più la situazione era peggiore. C'era infatti il rigido e "cattivo" monopolio della DC che dagli anni cinquanta si proiettò, con Bernabei, su tutti gli anni sessanta e buona parte degli anni settanta.
Ma quando si forava quel muro, si arrivava all'intera società. Si coglieva l'eccezionale opportunità - unica nella storia della comunicazione e della lotta politica - di parlare istantaneamente a 20 milioni di persone, da parte di forze politiche e sociali che con il volantino o il giornale, con il comizio o con lo sciopero, erano fino allora riuscite a comunicare soltanto a minoranze.
Era scontro politico vero. Era democrazia. Era conoscenza che irrompeva nella generalità, o quasi generalità, dei cittadini, e diventava o poteva diventare consapevolezza, coinvolgimento, comunque chiamava in causa, chiamava a scegliere, a impegnarsi.
Era stato così per il Pci, quando la questione della Federconsorzi, una delle "verità" del regime di quegli anni, divenne, attraverso le martellanti domande di Pajetta a "Tribuna politica", verità conosciuta di tutti gli italiani. E fu così per la LID quando la questione del divorzio a lungo espulsa dal video, divenne oggetto di dibattito e di scontro politico non censurato, non smorzato, non mediato dai giornalisti televisivi. Fu così nel 68/69/70 per il "movimento" studentesco e quello sindacale. Fu così per il Partito radicale quando riusci a strappare, nel 1976, per la prima volta, per se e per le altre forze extraparlamentari quel diritto alle "Tribune" elettorali" che era stato negato, ancora nel 1972, alle liste extraparlamentari del "Manifesto".
Allora parlavamo di movimenti d'opinione perché, bene o male, la gente poteva farsi un opinione.
Il lavoratore riconosceva nei più la sua identica condizione di cittadino non tutelato dalla legge nel suo luogo di lavoro ed era quindi disponibile ad essere coinvolto nella lotta politica anche quando la proposta proveniva da gruppi minoritari. Il separato riconosceva negli altri "fuorilegge del matrimonio" il suo stesso dramma e quindi si mobilitava, si sentiva affrancato dal peccato e capace di impegnarsi per cambiare la legge iniqua.
Anche quando l'informazione era scarsa, ma non completamente oscurata, la conoscenza individuale si saldava con la consapevolezza collettiva utilizzando anche gli sprazzi d'informazione e di verità. Bastava forare il muro del silenzio con una bestemmia o un grido, trasmesso in tutte le case, identici a quelli che ognuno aveva sentito nel luogo di lavoro o sul tavolo della mammana, perché ognuno si riconoscesse nell'altro. E abbiamo avuto lo statuto dei lavoratori e la legge sull'aborto.
E tutto ciò era tanto più importante per quei i partiti, movimenti e forze sociali che non si erano fatti Stato o parastato, che avevano rifiutato di utilizzare i meccanismi di comunicazione capillare e di massa del potere e delle clientele. I partiti che si erano sempre più identificati nello Stato potevano, in una certa misura, fare a meno - e faranno a meno - per la difesa del consenso, dei meccanismi della conoscenza e della comunicazione democratica, quella che nasce dal contraddittorio e dall'informazione di tutti.
Per amore di tesi non voglio dimenticare da una parte le battaglie politiche che produssero quelle grandi riforme e dall'altra le dure iniziative per conquistare quegli sprazzi di verità. Non solo quelle radicali.
Voglio solo affermare che quei momenti di verità erano possibili, producevano consapevolezza, mobilitazione politica, spostamenti elettorali non solo perché la società civile si trovava di fronte a scelte progettuali "riconoscibilmente diverse" che in gran parte nascevano al di fuori dei partiti o da questi erano subite. Ma soprattutto perché aveva i mezzi per effettuare questo riconoscimento.
E le brigate rosse compresero ben presto la forza esplosiva di tale opportunità. E non solo loro.
Da quel momento inizia l'azione di controllo scientifico dell'informazione, prima con l'espulsione delle forze nonviolente, democratiche dall'informazione parlata e scritta operata da chi ha strumentalizzato il terrore brigatista. Poi con l'espulsione tout court della politica dallo schermo.
Democristiani e comunisti, socialisti e repubblicani realizzavano quindi, proprio in quegli anni, quella "riforma" del servizio pubblico radiotelevisivo sulla base di un preciso accordo politico: spartire la torta dell'informazione fra i partiti consociati nel compromesso storico al fine di espellere ogni voce di diversità che minacciasse quella diversità formale su cui ogni partito fondava il suo potere elettorale. Insomma il Pci poteva condividere, anche formalmente, le scelte della dc solo se l'informazione garantiva che nessuno lo avrebbe detto al suo elettorato. E così per i democristiani e gli altri partiti dell'"arco costituzionale".
La Dc doveva poter continuare a coltivare il suo elettorato anticomunista, così come il Pci doveva mantenere la sua immagine di partito operaio dell'opposizione. Nessuno doveva sapere che il Pci votava i bilanci della difesa o a favore delle centrali nucleari, esattamente come la Dc.
La sola trasmissione delle sedute parlamentari da parte di radio radicale provocava scandalo e allarme. E la signora Iotti si affrettava a boicottarle per impedire che perfino i pochi ascoltatori di questa emittente percepissero la sostanziale uniformità delle proposte dei partiti dell'"arco".
In questa fase si produce un risultato non previsto neppure dai partiti che sottoscrissero quell'accordo.
La concessionaria Rai, a cui competeva realizzare il patto, non poteva garantire quei risultati se non espellendo la politica, in quanto tale.
Non si trattava solo di privare la società civile del diritto di conoscere l'opinione dell'opposizione. Bisognava impedire che la "società civile" potesse riconoscere la diversità anche quando inavvertitamente si fossero prodotti dei buchi nel muro protettivo dei mezzi d'informazione.
Bisognava cioè alterare i meccanismi della conoscenza, smantellare le stesse categorie politiche.
Non si trattava solo d'impedire a Pannella o a Magri di parlare e soprattutto di essere ascoltati. Anche questo.
Il pensionato non doveva riconoscersi in altri che si trovavano nella sua stessa condizione. Altrimenti avrebbe acquistato speranza, consapevolezza. Avrebbe perfino preteso di sapere come votavano i partiti sulle leggi che lo riguardavano. Avrebbe forse scoperto che tutti i partiti erano d'accordo nel respingerlo ai margini della società e a condannarlo al di sotto del minimo vitale. Le organizzazioni sindacali o patronali che fin'ora lo aveva tenuto all'oscuro di tutto ciò e spesso lo avevano letteralmente depredato, avrebbero perso la loro capacità di comportarsi da filtro con le istituzioni e la politica. Solo a questo momento un messaggio politico, che fosse riuscito a raggiungere contemporaneamente i pensionati, i parenti prossimi, avrebbe avuto la forza di scatenare la mobilitazione politica od elettorale.
Bisognava quindi espellere il pensionato dal video, così come le altre categorie di esclusi dalla spartizione del benessere.
Conosciamo i meccanismi che si sono dovuti adottare per realizzare tutto ciò. La frammentazione delle reti e delle testate giornalistiche, la lottizzazione della Rai, il ruolo a cui sono state circoscritte le emittenti private, la sterilizzazione delle tribune politiche e la sostituzione della politica con altra cosa. Quella che ci viene trasmessa dai Volpe o Orefice nei trepidi bollettini da Palazzo Chigi o dalla sede di qualche partito o dai "salotti di regime" della Carrà o di Pippo Baudo.
Era inoltre necessario cancellare dalla conoscenza le stesse sedi del potere costituzionale per sostituirle con quelle del potere reale.
Via quindi il Parlamento, la Corte dei Conti, la stessa Corte Costituzionale prima della normalizzazione.
Il cittadino non doveva neanche sapere quali erano i dibattiti e i motivi di scontro all'interno del Parlamento, così come il contenuto delle critiche con cui la Corte dei Conti incalzava l'Amministrazione dello Stato.
Questa trasformazione dei meccanismi della conoscenza diventa ancor più mortale per la politica se analizziamo la natura dei temi che la collettività mondiale deve affrontare.
Oggi la dimensione dei problemi, quelli centrali della nostra epoca, della pace, della sicurezza, dell'ecologia e dell'economia, non possono più ancorarsi solo ed esclusivamente alla conoscenza individuale.
Ci si può mobilitare contro il cancro o per la sofferenza di una bambina perché tutti abbiamo avuto una conoscenza personale di questi drammi. Basta che un giornale si limiti ad evocarli, ad avanzare una proposta di coinvolgimento collettivo, che immediatamente scatta la molla della solidarietà fondata sulla conoscenza.
La consapevolezza invece del rischio delle centrali nucleari non può venire da una conoscenza individuale. E' necessaria l'informazione, il dibattito, il contraddittorio e il confronto delle posizioni.
O Cernobil.
Allora si raccolgono un milione di firme per i referendum. Salvo scontrarsi, fra un anno o più (se non saranno stati fatti fuori da qualche accordo dell'"arco costituzionale"), quando Cernobil sarà stata fatta dimenticare, con i soliti problemi della manipolazione della verità.
Ma per la questione della guerra, cosa dobbiamo aspettare per superare la disinformazione, la guerra stessa ?
E lo sterminio per fame di milioni di persone nel terzo mondo potrà essere affrontato seriamente solo quando sarà accaduto l'irreparabile?
Ecco perché abbiamo iscritto nell'agenda del nostro congresso la proposta di cessazione delle attività.
Ecco perché, mettendo in discussione la stessa possibilità di essere parte politica, vogliamo tentare di avvertire gli altri sul rischio di essere cessati per assenza di politica, per assenza delle regole su cui la politica, non più astratta categoria, si produce e vive.
Ecco perché crediamo che il problema non riguardi solo i radicali.
Gli stessi partiti della partitocrazia sono stati stritolati da un meccanismo che avevano attivato invece a loro tutela.
Alcuni se ne rendono persino conto. Capiscono i partiti di governo che hanno concepito un meccanismo così rigido di controllo del consenso da essere loro stessi congelati nelle rispettive posizioni e non poter così letteralmente governare, far fronte a problemi, come quello del deficit pubblico e della disoccupazione, che non possono essere ignorati neanche da un partito che abbia la maggioranza assoluta. Il loro obbligato immobilismo trasferisce invece potere a quei gruppi sociali e a quelle corporazioni non legate da simili vincoli.
Il Partito comunista, dal canto suo, sfumata l'ipotesi del compromesso storico, non può, neanche se lo volesse, cercare in quella società civile, a lungo corteggiata, la forza per imporre cambiamenti. Semplicemente perché la società civile non esiste più nella sua contrapposizione con la classe partitica. Essa oggi non è più portatrice di valori e di spinte politiche antitetiche a quelle della partitocrazia. Non solo è disinteressata nei confronti della classe politica perché quest'ultima non fornisce alternative progettuali sulle quali confrontarsi. Essa stessa è priva di riferimenti culturali e politici perché espropriata dei meccanismi della conoscenza.
Non può essere nè soggetto e neppure oggetto di iniziativa politica.
La "prova" e la verifica dei diecimila iscritti (diecimila iscritti, non diecimila consiglieri comunali, provinciali, circoscrizionali di "sinistra") che il partito radicale sta facendo in queste poche settimane prima del congresso di fine ottobre, è prova e dimostrazione della mutazione e degenerazione della politica innanzitutto per gli altri soggetti politici.
Vi è un preciso legame fra l'impossibilità per un partito a cui tutti, credo, riconoscano di aver segnato da trent'anni la civiltà politica del nostro paese, di essere stato immune da condizionamenti occulti ed estraneo agli scandali del potere, di raccogliere nella "società civile" un numero d'iscritti pari al decimo degli associati ai circoli romanisti, e la stessa impossibilità lamentata dalla totalità delle forze partitiche, di governo o di opposizione, di trovare nella stessa "società civile" un segno pur minimo di riscontro ai progetti, discutibili che siano, di governo della cosa pubblica. E' possibile ritenere che questo dipenda solo dalla insufficienza, dalla estraneità di queste proposte rispetto alle domande del paese, dalla impossibilità di cogliere le differenze progettuali. Lo abbiamo sempre sostenuto in questi anni di lotta al regime consociativo, alle ammucchiate, ai compromessi più o meno storici. Oggi dobbiamo però prendere atto di qualcosa di più grave che si è prodotto nel frattempo. No
n ci troviamo solo di fronte ad errori dei partiti e alla loro impossibilità di essere riconoscibilmente diversi, ma alla demolizione delle regole costituzionali, delle regole del gioco e degli stessi meccanismi della conoscenza. Se, per assurdo, oggi i partiti fossero capaci di riacquistare i loro segni distintivi, di proporre e praticare politiche alternative, di scontrarsi, come lamenta Rossana Rossanda, sul tema della difesa delle risorse, delle protezioni e del potere dei più deboli, essi si troverebbero privi degli strumenti per farlo, senza una "società civile" a cui proporlo perché essa stessa per troppo tempo è stata privata degli elementi di informazione e giudizio.
Ricostruire le basi della praticabilità politica è oggi divenuto prioritario perfino rispetto alla necessità di ricostruire la politica come contrapposizione di valori e interessi.
Come con il problema della giustizia, nell'asfissia della politica e nell'assenza dell'ossigeno dell'informazione e della comunicazione, dobbiamo affidare a segni concreti, viventi, nella loro diversità drammatica, la possibilità di parlare alla coscienza e al cuore di chi può ascoltarci. Erano e sono i volti e le storie, per fortuna diverse, di Negri e di Tortora a cui è stato affidato il compito di rappresentare la denuncia dell'inciviltà del nostro sistema giuridico. Erano storie diverse non solo fra loro ma anche rispetto alle nostre.
E' stata la loro forza, la nostra forza. Quella che ci ha consentito di avviare il superamento dell'emergenza, d'imporre la riduzione dei termini di carcerazione e di incardinare saldamente il tema della giustizia nell'agenda politica da molti anni.
Per condurre, non so se per vincere, questa decisiva battaglia per il ripristino del primato della politica avremmo bisogno di molti volti diversi che rappresentassero la consapevolezza di quanto accade e la volontà di superarlo . Per superare il muro dell'indifferenza, costruito in questi anni, a tutela della politica dei partiti, avremmo bisogno dello scandalo di molti volti, di compagni o non compagni che ognuno ha conosciuto in partiti e schieramenti diversi, uniti in difesa non della sopravvivenza del partito radicale a cui, noi per primi, non siamo affatto interessati, ma della stessa praticabilità della politica, impegnati nella ricostruzione di nuove regole certe per la politica.
Lo so, è impossibile, ma se Rossana Rossanda, se i compagni del Manifesto, questa volta volessero prestare il loro volto, divenire radicali come noi siamo divenuti psiuppini, comunisti, socialisti, lotta continuisti, manifestiti ogni qualvolta abbiamo condiviso speranze e lotte, se questo prestito, magari di poche settimane, spingesse altri, perfino "fascisti", a divenire irriconoscibili nel partito radicale, se ....forse potremo riparlare di partiti e pensar di politica.
Oppure dobbiamo accettare la sconfitta ?