di Sergio De GregorioSOMMARIO: MARCO PANNELLA SPIEGA PERCHE', DOPO LA CONDANNA, TORTORA SI VUOL DIMETTERE DAL PARLAMENTO EUROPEO
"Una sola sua parola dal carcere", dice il leader radicale, "varrà mille parole di chi lo ha giudicato." Questa decisione è una vera testimonianza di intelligenza, di vigore e di onestà che lo renderà ancora più forte e più libero.
"Sapevamo che si sarebbe comportato diversamente da Toni Negri, uno sciagurato da noi trasformato in un simbolo di battaglia" - "Sulla magistratura napoletana ho sospetti che mi fanno venire la pelle d'oca".
(OGGI, ottobre 1985)
"Bruxelles, ottobre"
L'appuntamento è al civico 3 del Boulevard de l'Empereur, sede distaccata del Parlamento europeo, a due passi dalla stazione centrale.
Marco Pannella è alla macchina da scrivere, impegnato in una attività frenetica nelle stanze del gruppo politico del Partito Radicale. C'è aria di grande mobilitazione: si è appena spento l'eco della conferenza stampa con cui Enzo Tortora, deputato europeo, ha annunciato le dimissioni dalla carica parlamentare e la decisione di tornare in carcere per "onorare" la sentenza del tribunale di Napoli che lo a condannato a dieci anni.
"L'Europa deve sapere", esordisce Pannella con piglio deciso, mentre mette a punto i dettagli di una nuova "uscita pubblica" con Tortora e il segretario radicale Giovanni Negri, questa volta a Parigi. E aggiunge: "Il caso Tortora è il frutto di una ``macelleria giudiziaria'' attuata per incapacità e per dolo".
Il leader rischia di travolgere il suo interlocutore con una valanga di parole. D'altronde, la foga e l'oratoria forbita sono due delle principali prerogative del "personaggio" Pannella. Meglio allora incanalare la discussione su binari precisi, botta e risposta.
"Cominciamo dal futuro di Tortora, onorevole Pannella. La notizia delle dimissioni le è giunta inaspettata, o si trattava di un passo deciso di comune accordo col Partito Radicale?"
"Ne abbiamo parlato con Enzo fin dal giorno in cui è stato eletto nelle nostre file. Queste battaglie politiche si fanno con estrema responsabilità, per cui la decisione di eventuali dimissioni dopo una probabile condanna è maturata giorno dopo giorno, da un anno e mezzo a questa parte.
"Nell'ultimo mese, poi, eravamo certi che non ci sarebbe stata giustizia, sopratutto quando abbiamo raggiunto la convinzione che i giudici prescelti (e sottolineo il ``prescelti'') per fare questo processo erano arroccati sulle stesse linee del procuratore capo della Repubblica Cedrangolo, ideatore e ispiratore del maxiblitz di Napoli".
"Eppure si è scritto di dissensi nati all'interno del suo partito rispetto alla decisione di Tortora."
"Macché. E' ridicola questa storia di dissensi, l'hanno inventata alcuni giornali. Enzo, forse meno ``politico'' di noi per esperienza, è stato indubbiamente il primo ad annunciare ``farò questo'', ma naturalmente ha anche detto che all'interno del partito avremmo dovuto discuterne. Noi abbiamo sviluppato una riflessione, per cui oggi le motivazioni di Tortora ci appaiono profondissime. Da questo momento grazie all'atto ``radicale'' di Tortora - una vera testimonianza di pulizia, di intelligenza, di vigore e di forza - non sarà difficile essere ancora più forti di quando si è liberi. Tortora ha detto: ``Sarò più libero io in carcere che i miei carcerieri o i giudici che mi ci hanno mandato''. E non è solo un'espressione metaforica: una sola parola di Enzo Tortora dal carcere varrà mille parole del presidente Sansone o del pubblico ministero Marmo dalla loro libertà".
"Che cosa né sarà adesso, dell'ex presentatore?"
"Le dimissioni di Tortora arriveranno in tempi tecnici brevi, ma studiati: queste cose le discutiamo con serietà cinque ore al giorno e quindi la nostra riflessione abbraccerà un arco di tempo che va dal 6 ottobre al 30 dicembre. Man mano che la riflessione va avanti, i tempi si restringono. Intanto, nel momento stesso in cui il Parlamento europeo accetterà le dimissioni, la magistratura napoletana dovrà prendere un suo provvedimento conseguente alla notizia che Tortora non è più ``coperto'', per che riguarda gli arresti, dalle funzioni parlamentari. Presumibilmente i giudici decideranno di riportare Tortora nelle condizioni precedenti: nuovo arresto, carcere per poche ore, smistamento agli arresti domiciliari. Ma i magistrati potrebbero anche decidere una visita fiscale al carcere in cui Tortora si presenterà spontaneamente, non sappiamo ancora quale, e stabilire che per loro, invece, i motivi di salute che giustificarono gli arresti domiciliari non esistono più. In questo caso Enzo resterebbe in galera".
"Non le sembra, Pannella, che l'"affaire Tortora" richiami, anche se sotto altra forma, l'esperienza vissuta dal suo partito col caso Toni Negri?"
"Certo totalmente. Il caso Tortora, la vicenda Negri, così come quella di Adele Faccio ai tempi delle battaglie per l'aborto, sono alcune delle armi non violente e democratiche che il partito ha usato per la sua battaglia di giustizia. Quando abbiamo candidato Toni Negri, che non era Radicale mentre Tortora lo è, abbiamo detto a chiari lettere e ne abbiamo le prove che noi non avevamo niente in comune politicamente col professore padovano, leader dell'autonomia. Io stesso, nei comizi elettorali di quel periodo, ho sempre ripetuto che ritenevo Negri colpevole, gravissimamente colpevole, ma non delle ignominie e delle imbecillità che gli venivano imputate, e che con la sua candidatura al Parlamento intendevo ottenere tre obiettivi. Primo, scarcerare per decorrenza dei termini una persona che da 5 anni era in carcere senza giudizio. Secondo, evitare che l'Italia avesse il primato delle barbarie con 12 anni di carcerazione preventiva e stimolasse l'approvazione della riduzione dei termini di carcere preventivo.
Terzo, fare esplodere il problema dell'impunità parlamentare".
"E invece che cosa ha ottenuto?"
"Toni Negri, al contrario di Tortora, è stato l'oggetto di decisioni sovrane del Partito Radicale. Gli dissi: ``Ti candidiamo alle elezioni, non puoi esprimere pareri, ma solo firmare e non firmare (e figuriamoci se non accettava!), e sarai eletto. Sta a te dire se poi intende agire da radicale oppure no''. Lui disse sì, ma ciò non fu determinante perché Negri era un mero oggetto. La sua fortuna è stata restare in carcere: fin quando è rimasto detenuto, si è diffusa nuovamente l'immagine positiva di un maestro, cattivo o buono, non importa, martire di una barbara giustizia.
"E non dimentichiamo che, per quanto repellenti siano il volto e i connotati storici di Negri, ancora più repellente è stata la sua vicenda giudiziaria, attraversata da 5 anni di carcere preventivo. Negri era l'emblema dello scandalo del ``7 aprile'', dove un teorema medioevale come quello dell'istruttoria Calogero trasformava la giustizia in un gioco di accanimento fanatico. Poi, secondo gli impegni pubblici che avevamo preso, il nostro comportamento è stato determinante perché a Negri il Parlamento non concedesse l'immunità dell'arresto: non volevamo che il professore padovano fosse un deputato ``champagne e donne'' in trasferta di divertimento a Parigi, ma un latitante simbolo di una battaglia.
"Ecco la nostra forza storica: abbiamo fatto di uno straccio, di uno sciagurato, l'arma di una grande battaglia terminata con successo. Quando apparve chiaro che lui non aveva capito nulla, che restava il Toni Negri violento, quando rifiutò dopo due o tre incontri a Parigi il progetto di arresto che l'avrebbe riportato in galera ma con maggiore dignità verso la gente e i suoi compagni del ``7 aprile'' ai quali aveva promesso che sarebbe rimasto per difenderli, allora gli dissi: ``Purtroppo il tuo dramma è che adesso sei libero e puoi fare quello che vuoi''. E adesso, quando finirà di essere un latitante di stato e quando dopo il secondo processo di appello contro l'Autonomia, i paesi si metteranno d'accordo per arrestarlo e estradarlo, tornerà in prigione dove rischierà di essere sepolto di sputi e massacrato moralmente. Resteremo come al solito solo noi a difenderlo come difendiamo tutti gli imputati. Noi abbiamo vinto con Negri in nome del diritto e contro la violenza; lui è uno straccio".
"Qual è per lei, onorevole Pannella, la differenza con Tortora?"
"Il rapporto personale, intanto. Tortora lo conosco dai tempi della lotta per il divorzio: nel '67-68, lui faceva parte della Lega italiana per il divorzio mentre gli altri intellettuali se la facevano sotto. Ricordo un episodio: Pertini, allora Presidente della Camera, venne a Milano per una commemorazione. Tortora gli porse una lettera della Lega dei divorzisti, ed il buon Sandro diede in escandescenza. Tortora è anche quello che nel 1969 se ne andò dalla Rai denunciando la partitocrazia, arroccato su posizioni liberali vere".
"Come venne al suo partito l'idea di candidarlo?"
"Nel maggio dell'84 discutevamo i criteri delle elezioni Europee, la situazione del Partito, i temi da affrontare, e ricordo che a un certo punto si parlò del caso Tortora. Parecchi compagni si erano tenuti in contatto con lui, anche dopo l'arresto. Dal carcere, nell'agosto dell'83, per un atto di amicizia e rispetto dell'antico rapporto personale, Enzo mi mandò una lettera. Aveva saputo dai giornali della morte di mia madre ed esprimeva solidarietà con toni e affermazioni stupende nonostante le sofferenze che la carcerazione gli imponeva. In quel periodo, Tortora per la maggioranza degli Italiani era l'insospettabile dimostratosi camorrista, drogato, trafficante di stupefacenti. Discutemmo molto della possibilità di offrirgli una candidatura.
"Avevamo timore che la gente non capisse, che storcesse il naso dicendo: ``Rieccoli, dopo Toni Negri adesso arriva Tortora. A chi toccherà dopo?'', e via di questo passo. Decidemmo lo stesso di rischiare. Ricordo che l'ultimo giorno utile per la firma dei candidati. Partivo per Trieste, dove avevo un comizio: chiamai Enzo al telefono, e lui rispose che avrebbe sottoposto la cosa, per correttezza, ai suoi legali. Quella sera stessa, Emma Bonino prese l'aereo per Milano e lo raggiunge per concretizzare la cosa".
"Che idea vi eravate fatti della vicenda giudiziaria di Tortora?"
"Mah, dopo l'arresto restammo sconcertati. Anche noi pensammo: ``Qualche cosa deve pur esserci''. Quando uno vede esibito Tortora come il capo nascosto della Camorra, non può non restare sconcertato. Qualcuno di noi, tuttavia, già cominciava ad occuparsi del caso giudiziario di Napoli, con la prudenza necessaria. In questo siamo assai accorti, non partiamo mai sull'onda dell'emotività. Ma quando avemmo notizia che la stampa censurava la scarcerazione di decine di omonimi perché un gang di magistrati li occultava; quando ci accorgemmo che fra i mille arrestati del maxiblitz non c'era nessuno che richiamasse il ``terzo livello'' della camorra; quando ci accorgemmo che i giudici di Napoli avevano usato il clamore degli arresti in massa per non fare il processo sull'affare Cirillo e per togliere ai magistrati di Avellino l'inchiesta sul costruttore Sibilia che si avviava a risultati clamorosi; allora cominciammo a drizzare le orecchie.
"Nonostante tutto, fino a sei mesi fa non abbiamo mai fatto una battaglia sull'innocenza di Enzo tortora, ma una lotta di diritto su come si procedeva a Napoli e sulla logica del pentitismo. Io subivo l'affettuosa critica di Leonardo Sciascia che già dallo scorso anno diceva: ``Non bisogna fermarsi al principio, ma combattere anche per l'innocenza di Tortora'', perché aveva visto lontano.
"Ma raccomandavo prudenza. Nel frattempo a Napoli si compiva una bestemmia, si cercava di confondere il lavoro di un gruppo di giudici napoletani (preoccupati insieme con il loro capo Cedrangolo di distogliere l'attenzione dalle inchieste scottanti sui miliardi della ricostruzione, su Senzani, su Cirillo) con quello dei magistrati di Palermo e dei giudici antiterrorismo che dei pentiti avevano fatto un uso misurato. I napoletani con Palermo non centrano nulla: Tommaso Buscetta è prezioso perché fornisce col suo racconto il riscontro a cose già provate dall'inchiesta dei giudici palermitani, mentre a Napoli era il contrario.
"A parte il fatto che i magistrati di Palermo si fanno ammazzare e lottano dietro un'angolazione al di là della quale nessuno può sospettare connivenze con la classe politica o con centri di potere; mentre invece tra i giudici napoletani vi sono collaudatori assunti dal potere politico a decine di milioni al mese, pagati dagli stessi inquisiti dei processi che stazionano nei cassetti delle scrivanie, c'è a Napoli una cosca di Magistrati che ha il monopolio delle lezioni private per gli esami d'ammissione ai concorsi in magistratura (per cui un giudice importante di Avellino che vuole entrare in commissione d'esame ha ricevuto minaccia di morte per sé e i suoi familiari); a Napoli, non è processato, inspiegabilmente, il brigatista Senzani; non si procede per l'affare Cirillo, ci sono insomma ombre pesantissime sull'operato di un gruppo di esponenti della giustizia.
"Ho sospetti che mi fanno venire la pelle d'oca, sopratutto quando il presidente Sansone assolve il fratello di Cutolo e Salvatore La Marca, ex sindaco di Ottaviano (gente che perlomeno aveva dei trascorsi giudiziari e che comunque secondo noi andava assolta perché non c'erano prove nell'inchiesta) e condanna invece Tortora, Nadia Marzano ed altri solo perché non si sono pentiti."
"Come intende procedere nell'ambito di questa "guerra aperta" dichiarata alla magistratura di Napoli? Non le sembra eccessivo accanirsi così tanto?"
"Noi in base agli atti giudiziari, su fatti specifici di rilevanza penale, abbiamo il dovere di denunciare la ``notizia criminis'': e di fatti su cui procedere ne abbiamo trovati, in questo processo, tanti. Dall'altra parte invece c'è il tentativo di proteggere una banda di manigoldi (alcuni magistrati, alcuni cronisti giudiziari, due o tre superpentiti) che ha violato tutta l'economia processuale perché copriva di fatto interessi immensi e doveva tutelare il ``sacrario'' del terzo livello della camorra, rimasto intatto. La nostra polemica su Napoli è la stessa aperta dal giudice Imposimato a Milano, quando pubblicamente disse: ``Non solo non bastano 14 pentiti (quelli che accusano Tortora), ma non ne bastano neanche 30 per giustificare l'arresto di una persona''. Quando a Napoli, violando la legge, si offre una premialità costante, quotidiana, ai pentiti (promesse, immunità, libri, nutrimenti...) e noi la denunciamo, non siamo a priori contro il pentitismo, ma puntiamo il dito su cose che con la questione d
ei pentiti non hanno nulla a che vedere. La guerra non siamo noi a farla, sono loro che difendono un operato illegale".
"I socialisti sembrano spiegati al suo fianco in questa battaglia per la giustizia. Eppure, finora, a esporsi è stato solo Claudio Martelli: lo ritiene un isolato?"
"Non è vero. Pubblicamente si sono pronunciati sul caso Tortora, oltre a Martelli, in conferenze stampa, il presidente della Commissione giustizia del Senato, Giuliano Vassalli; il presidente del gruppo senatoriale Fabio Fabbri, Salvo Andò, Dino Felisetti, e altri ancora. Lo steso Craxi, quando prese posizione con un comunicato sull'iniziativa radicale e socialista per l'istituzione di una commissione d'inchiesta sullo stato della giustizia a Napoli, ribadì la sua fiducia nei magistrati giudicanti. Quando mai uno precisa, in un comunicato ufficiale, di avere fiducia, ma solo dei magistrati giudicanti? Era un segnale preciso che la stampa ha fatto finta di non vedere: la nostra battaglia era in quel momento contro i magistrati inquirenti, non contro i giudicanti... Craxi quindi si era chiaramente messo sulla linea di Martelli, nonostante fosse Presidente del Consiglio".
"Vi accusano di aver voluto politicizzare il processo di Napoli."
"Sono loro che l'hanno buttata in politica. Io a Napoli ho fatto delle accuse scritte contro i guasti della giustizia, loro hanno violato, con il silenzio sulle mie denunzie, tutte le regole del gioco democratico".