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Cicciomessere Roberto - 3 ottobre 1986
Armati di nonviolenza
di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: Partendo dalla constatazione che le FF.AA: italiane, nella loro parte operativa, sono costituite da personale professionale, l'autore contesta la pretesa di assicurare una difesa nazionale prevalentemente militare quando le minacce alla sicurezza sono ormai globali e non esclusivamente militari.

(Notizie Radicali n· 232 del 3 ottobre 1986)

Con una mossa perlomeno avventata, il generale Poli e, successivamente, il ministro Spadolini hanno tentato di chiudere il dibattito sui suicidi e in generale sulle condizioni di vita nelle caserme italiane facendo appello al sentimento nazionale e alla Costituzione. Vogliono trasformare l'esercito di popolo in un esercito di mestiere, di mercenari -hanno gridato su tutte le pagine dei giornali-, coloro che denigrano le condizioni di vita dei militari di leva!

A prescindere dalla considerazione sulla esigua minoranza di cittadini che effettivamente presta il servizio militare e dall'alto numero di »riformati (solo nel 1979 sono stati dispensati 114.000 cittadini maschi), è tutta contestabile l'affermazione secondo la quale le nostre Forze armate sarebbero caratterizzate dalla coscrizione obbligatoria.

L'amministrazione della difesa, nelle sue quattro Armi, è costituita infatti, secondo i dati ufficiali per il 1984, da circa 556 mila dipendenti: di questi, 267 mila sono militari o civili in servizio permanente o volontario (ufficiali, sottufficiali, volontari e impiegati civili). Il 48% insomma sono »mercenari . Questo esercito di mestiere poi assorbe il 91% dell'intera spesa annuale per soli stipendi (su 3.151 miliardi per gli stipendi i tutto il personale della difesa nel 1984, 2.888 sono stati utilizzati per pagare il personale permanente volontario).

Ma il problema non è quello degli stipendi, fin troppo modesti e sperequati, del personale permanente. Infatti nelle mani di questo 48% dell'amministrazione della difesa è concentrata tutta l'attività, più o meno operativa, che svolgono le Forze armate nazionali. Per gli altri, per i cittadini in armi che trascorrono 12 mesi nelle fatiscenti strutture delle Forze armate, vi è solo noia, frustrazione e spesso disperazione per coloro che non riescono ad adattarsi, a rassegnarsi. Entrano per servire e difendere la patria, ma nella stragrande maggioranza apprendono solo la nobile arte dello scopino, dell'autista, del cameriere, del dattilografo o dell'arrangiarsi. Pochi sono i »privilegiati , inseriti in corpi operativi o speciali, dove purtroppo si respira una pesante aria da legione straniera.

Ecco quale dovrebbe essere il centro del dibattito: non le divagazioni di Poli e Spadolini sui mercenari, e neppure, al limite, le disagiate condizioni di vita nelle caserme italiane o le sfuriate di qualche generale frustrato, ma le ragioni per le quali il cittadino in armi non può e non sente di difendere un bel niente, ma è convinto, a ragione, solo di perdere 12 mesi della propria vita.

Accresciuta insicurezza

Per fare questo dovremmo parlare dell'incapacità cronica delle Forze armate nazionali di produrre il bene pubblico della sicurezza: della dispersione, della distrazione e della cattiva utilizzazione dei consistenti mezzi finanziari stanziati per la difesa, dell'affermarsi di una politica di riarmo condizionata pesantemente dagli interessi dei »padroni e dei »mercanti di guerra e svincolata da ogni questione strategica, dall'impermeabilità della Amministrazione della Difesa al controllo parlamentare. Ma sono dibattiti vietati alle nostre aule parlamentari.

Percepiamo infatti tutti un senso di accresciuta insicurezza e di impotenza di fronte alle vecchie e nuove minacce, insicurezza questa che aumenta e non diminuisce proprio con l'incremento delle risorse destinate alla difesa e con il perfezionamento degli strumenti bellici che dovrebbero dissuadere il nemico dall'intraprendere una guerra. Il processo di ammodernamento dello strumento militare nazionale e le stesse dottrine difensive adottate dai vertici militari e politici appaiono cioè sempre più estranei e indifferenti alle nuove domande di sicurezza che le complesse dinamiche del sistema internazionale impongono alla collettività internazionale. Le scelte strategiche e quelle relative alla composizione e articolazione della macchina bellica appaiono piuttosto come il sottoprodotto di interessi industriali, commerciali, occupazionali, clientelari e di opzioni politiche internazionali subite passivamente. Variabili indipendenti insomma rispetto alle esigenze di sicurezza.

Il principio della sovranità nazionale

Ma la ragione profonda della inadeguatezza delle strutture, delle strategie e delle politiche difensive deve essere individuata nella concezione nazionale e prevalentemente, se non esclusivamente, militare della sicurezza e nel principio della sovranità nazionale a cui tutti sembrano affezionati.

Se infatti è impossibile comprendere le logiche complesse e dinamiche del sistema internazionale a partire da una impostazione statocentrica, se è oggi insostenibile la centralità della difesa dei confini nazionali nelle teorie strategiche, se costituisce una pretesa assurda e una contraddizione insanabile esigere la tutela assoluta della sovranità nazionale e nello stesso tempo l'efficacia delle garanzie e dei controlli internazionali, se è impossibile per una nazione garantire da sola la sicurezza dei suoi cittadini, se, infine, illusori e perdenti risultano gli »ombrelli militari contro le nuove e vecchie minacce alla sicurezza, perché ci si ostina a concepire strumenti e politiche difensive prevalentemente nazionali e quasi esclusivamente belliche?

Alla base di questa contraddizione politica troviamo, ancora una volta, gli interessi di complessi militari-industriali nazionali. Solo contrastando ogni logica di razionalizzazione, di riduzione dei costi e di efficienza, con l'alibi dell'autosufficienza produttiva che sarebbe garanzia di indipendenza nazionale, le industrie della difesa nazionali possono garantire, contro le leggi del mercato e gli interessi dello Stato, la propria esistenza e i propri profitti.

Altrimenti sarebbero spazzate via.

E quando non appare sufficientemente convincente l'alibi dell'autosufficienza, accorre in aiuto il ricatto occupazionale: i 465 nuovi posti di lavoro che l'Oto Melara ci ha »regalato a Gioia Tauro dovrebbero giustificare la produzione in proprio del missile anticarro Milan, con un aumento del costo del 60% rispetto all'acquisto diretto all'estero, corrispondente a circa 350 miliardi di lire sui 940 dell'intero programma. 752 milioni è il costo che il contribuente italiano paga per ogni occupato in aggiunta al prezzo di mercato del sistema di arma. Ecco quindi la spiegazione di quel gioco di prestigio che ha trasformato i 3.380 miliardi autorizzati dal Parlamento nel 1976 per il programma di ammodernamento delle tre Forze armate in 35.210 miliardi del 1986 (+36% in termini reali).

Nelle mani di Rambo

In questa situazione di sfascio, Spadolini e i nostri generali pretenderebbero che le Forze armate italiane facessero fronte a ben cinque missioni interforze, dalla difesa della »porta di Gorizia a quella del »fianco sud, dalla difesa aerea alla difesa operativa del territorio, fino alle azioni di pace, sicurezza e protezione civile in Italia e all'estero.

Convinti del ridicolo di una simile pretesa, si affrettano a spiegarci che questi obiettivi sono raggiungibili nell'ambito dell'integrazione delle Forze Nato.

Ma abbiamo potuto verificare concretamente negli ultimi mesi, di fronte alla crisi del Mediterraneo, i livelli di compattezza politica e militari degli alleati e quelli di integrazione dei centri di comando, controllo e comunicazione: ognuno ha rivendicato la sua autonomia di decisione omettendo persino di tentare di concordare la risposta negli organi Nato a ciò preposti. Qualsiasi livello teorico di integrazione diviene una pura finzione quando gli »alleati non sono disposti a rischiare i propri affari e la propria tranquillità neppure sul fronte della lotta al terrorismo internazionale.

Ecco quindi la »sudditanza di cui parlava insistentemente Altiero Spinelli dell'Italia e dell'Europa all'impero americano, la delega, con riserva di affari, al »Rambo statunitense per i compiti di sicurezza.

Bisogna riconoscere a questo proposito che la determinazione dei governanti europei nel rinunciare a garantire in proprio la sicurezza europea è sicuramente più forte dell'ambizione dei 234 milioni di americani di assicurare la difesa dei 367 milioni di europei. Da qui le periodiche ribellioni di quei senatori statunitensi che mal tollerano il parassitismo europeo e stentano a comprendere perché gli europei non dovrebbero rivendicare oneri e onori di un'autonomia difensiva, pur nell'ambito dell'alleanza dei paesi occidentali.

Curiosamente, ma non troppo, sono solo alcuni »affermatori di coscienza radicali, come Olivier Dupuis in Belgio, che, respingendo il carattere esclusivamente »negativo , neutralista, del pacifismo prevalente, hanno negato la propria testimonianza politica nonviolenta all'urgenza storica di concepire, su basi nuove e sovranazionali, una difesa europea, nell'ambito dell'Unione politica europea, riprendendo l'appello, finora rimasto inascoltato, dei federalisti italiani.

Affermano infatti che la cultura occidentale, nelle sue diverse componenti, e le famiglie politiche che la rappresentano nelle istituzioni democratiche, sono incapaci di fornire risposte soddisfacenti alla crisi che investe attualmente il sistema internazionale. E' questa una crisi che minaccia la persona, come soggetto di libertà e di progresso sociale ed economico, e la sua vita, nel Nord industrializzato come nel Sud sottosviluppato, in un complesso meccanismo di interdipendenza.

L'Occidente si ostina a scorporare gli elementi di questa crisi internazionale innanzitutto lungo i due assi della conflittualità Est-Ovest e Nord-Sud, e secondariamente fra i sottoinsiemi continentali e nazionali e a prendere in esame solo alcuni elementi dell'equilibrio delle forze, in primo luogo quelli militari ed economici delle due superpotenze.

Non ci si accorge che la guerra è in atto, già da molti anni, nel Sud del mondo, illudendo i cittadini sull'invalicabilità del confine fra Nord opulento e pacifico e Sud affamato e straziato dalle guerre. Dall'altra vi è la sottovalutazione della superiorità storica, nel breve-medio termine, dei regimi a conduzione totalitaria nei confronti di quelli a gestione democratica-parlamentare.

Si crede da una parte che la conflittualità e la rabbia del terzo mondo non potrà mai coinvolgere seriamente l'Occidente industrializzato, senza valutare il prezzo umano, politico, ed economico che l'Occidente dovrà assicurare per tentare di contenere il fanatismo e il nazionalismo che crescono e si alimentano sui nostri errori nel Sud del mondo, per convivere con lo sterminio, per fame e sottosviluppo, di milioni di persone.

Il fantasma di Monaco

Dall'altra parte vi è la riserva mentale sul modello democratico-parlamentare, e cioè la convinzione che la democrazia politica sarebbe possibile solo in un determinato contesto di società e di cultura. Tutti i più ragionevoli democratici occidentali ritengono infatti che il più vasto regime totalitario, quello sovietico, così come i regimi totalitari arabi, debbano essere realisticamente legittimati come premessa per trattare la pace e la sicurezza.

E' il fantasma di Monaco che ci viene riproposto nella tragica illusione di fermare i nuovi nazismi.

Manca ancora la consapevolezza che i regimi autoritari rappresentano in sé una minaccia alla sicurezza.

Non ci si rende conto che i regimi totalitari possono decadere al di fuori di qualsiasi vincolo determinato dal contraddittorio democratico parlamentare, al di fuori di ogni controllo o reazione determinata dall'informazione libera e di massa, in modo quindi più rapido e pericoloso. Possono anche decidere, nel momento in cui percepiscono una loro superiorità militare strategica congiunturale, che si saldi a fattori di debolezza interna, azioni militari gravi e di imprevedibili conseguenze.

Gorbaciov può vincere sul tavolo della trattativa perché può, quasi senza alcun vincolo, giocare con spregiudicatezza su tutti i piani. Nessuno gli chiede infatti di mettere in discussione il vero elemento di forza dell'Urss che altera l'equilibrio, ben più dei missili o delle testate atomiche, fra Est-Ovest e che minaccia la sicurezza internazionale.

Anche se dovrà rinunciare a qualche missile, Gorbaciov infatti manterrà, attraverso il controllo totalitario e militar-poliziesco del suo impero e dell'informazione, la possibilità e la forza immutati per qualsiasi azione aggressiva.

L'unica alternativa è quella di difendere e imporre allo Stato totalitario i principi del processo formativo, necessariamente lento, contrattuale e contraddittorio delle decisioni di uno Stato democratico, quale unico argine efficace e sperimentato, per quanto imperfetto possa essere, contro le tentazioni di guerra.

E' quindi un suicidio politico rinunciare, a priori, all'unica e vera forza di deterrenza, quella della democrazia e della libertà.

Da qui è agevole ritornare al problema delle caserme italiane, dei suicidi, dell'esercito di popolo e della difesa.

Non staremmo, d'agosto, a parlare di tutto ciò, nei modesti termini in cui si è sviluppato il dibattito, se i giovani italiani, i giovani e meno giovani cittadini di una Europa unita politicamente, fossero chiamati veramente a difendere la sicurezza, la pace, piuttosto che a oziare nelle caserme. Se, come prescrive la Costituzione, la partecipazione alla difesa fosse dovere e diritto di tutti, non solo dei maschi »abili alle arti marziali.

Se operai, medici, ingegneri, insegnati potessero essere mobilitati sul fronte della guerra alla fame.

Se le migliori risorse della culture e della tecnologia fossero utilizzate semplicemente per informare i milioni di cittadini dell'Est a cui è tolto il bene primario della verità, premessa insuperabile per beneficiare del bene della pace.

Se semplicemente ci convincessimo e convincessimo che non è vero che i confini della democrazia, della libertà, del diritto alla vita e della giustizia possano essere arbitrariamente segnati lungo il muro di Berlino o nel deserto del Sahel.

 
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